LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA DA PIO IX A LEONE XIII

di Renzo Paternoster -

Alla fine del XIX secolo i principi, le teorie e le direttive mediante i quali le verità evangeliche sono immesse nel mondo trovano in Leone XIII un interprete moderno. Il pontefice si farà sostenitore della collaborazione tra le classi e della mutua interdipendenza di capitale e lavoro.

 

Con la rivoluzione industriale e la nascita di nuove ideologie nel corso del XIX secolo, il tessuto produttivo e i soggetti sociali a esso collegati subiscono grandi stravolgimenti, tanto che la Chiesa ritiene indispensabile avviare un’approfondita riflessione su queste “nuove cose”.
La Chiesa, attraverso la sua gerarchia, prende così coscienza delle istanze della civiltà industriale che vanno alterando radicalmente, non solo le strutture della società, ma anche la natura dei rapporti tra gli uomini tanto nella loro eticità quanto nel loro essere cristiani. In questa occasione il Papato manifesta subito un’attenzione fattiva, intervenendo con un suo giudizio dottrinale e mettendo in guardia da soluzioni peggiori al problema che si vuole risolvere.
La dottrina sociale cattolica è tuttavia antica quanto la stessa Chiesa. Essa, come riferisce Giovanni Paolo II nel suo discorso del 13 maggio 1981 non letto a causa dell’attentato di quel giorno, ma pubblicato poi su L’Osservatore Romano: «trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a cominciare dal libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall’inizio alla dottrina della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dalla dottrina dei pontefici sulla moderna “questione sociale”, a partire dall’enciclica Rerum novarum».
A conferma di questo è da ricordare anche l’insegnamento di Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et magistra, secondo cui la dottrina sociale della Chiesa «è parte integrante della concezione cristiana della vita»: come tale essa, dunque, non può essere scollegata dal “programma universale” della Chiesa di Cristo. Essa, aggiunge Giovanni Paolo II nel suo discorso ai partecipanti al convegno ecclesiale della CEI del 31 ottobre 1981, ha di conseguenza un carattere obbligatorio da parte della comunità dei fedeli: «la dottrina sociale proposta dalla Chiesa, pertanto, deve essere fedelmente seguita, né ci potranno essere ragioni di ordine storico che possano giustificare l’infedeltà alla medesima. Sarebbe costruire sulle sabbie mobili delle ideologie e non sulla roccia di una verità che è prima e al di sopra di tutte le ideologie e di tutti i sistemi e dei medesimi è criterio di giudizio».

Che cos’è dunque la dottrina sociale della Chiesa? Si tratta, risponde Giovanni Paolo II all’udienza generale del 13 maggio 1981, di «un corpo di princìpi di morale sociale cristiana» che gode di «stabilità e certezza nei principi e nelle norme fondamentali» e quindi è «parte integrante della concezione cristiana della vita». Essa, pertanto – si legge nell’enciclica Sollicitudo Rei socialis di papa Wojtyła – non è «un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà esistenziali dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale».
In altre parole la dottrina sociale della Chiesa non è altro che un corpus sistematico di interventi plasmati dalla morale cattolica e applicati ai problemi sociali.
I tre fondamentali “princìpi di riflessione” della dottrina sociale della Chiesa sono: la solidarietà, ossia il dovere (come pure il diritto!) che lega ogni uomo all’altro; il bene comune, secondo il quale il legittimo interesse dei più ha prevalenza su quello del singolo (purché sia sempre salvaguardata la dignità e la libertà della persona individuale); la sussidiarietà, in base al quale lo Stato non deve distruggere né assorbire i corpi intermedi della società, quindi a un’autorità centrale dovrebbero essere affidati solo quei compiti che un’autorità inferiore non sia in grado di svolgere da sé. Radice ultima della dottrina è ovviamente per la Chiesa il Vangelo, che si rivolge alla coscienza dell’uomo che ogni giorno si trova di fronte a problemi di convivenza.
In tale prospettiva, l’insegnamento sociale assolve un compito di “annuncio”, “difesa” e anche di “denuncia”. L’annuncio di ciò che la Chiesa propone di eseguire per far viaggiare le società sulla giusta e retta via; la difesa dei diritti disconosciuti e violati, specialmente quelli dei più deboli; la denuncia delle ingiustizie e della violenza che in vario modo attraversano le società che s’ispirano a ideologie disgregatrici. La chiave di lettura di tutta la dottrina sociale della Chiesa è stata e resta il primato della persona, la preminenza della società sullo Stato, la non subordinazione della Chiesa allo Stato.
La nascita della contemporanea “Dottrina sociale della Chiesa universale” rimanda a un preciso periodo della storia, in cui i princìpi della Chiesa sui problemi sociali erano segnati dalla dura contrapposizione alle teorie del socialismo e del liberalismo.

Pio IX è indubbiamente il pontefice che ha realizzato la presa di coscienza della Chiesa universale sulla questione sociale. Rendendosi conto che la società europea è sempre meno cristiana e più liberal-borghese, attraverso il Syllabus errorum, condanna in blocco tutta la cultura moderna che vuole lo Stato non in funzione della società, ma coincidente con essa: «rimossa la religione dalla società, e ripudiata la dottrina e l’autorità della divina Rivelazione, la stessa genuina nozione della giustizia e dell’umano diritto si ottenebra o si perde, ed invece della giustizia e del legittimo diritto si sostituisce la forza materiale […]. Ora chi non vede e pienamente capisce come l’umana società, sciolta dai vincoli della religione e dalla vera giustizia, non possa certamente prefiggersi altro, fuorché lo scopo di procacciare ed aumentare ricchezze, né seguire altra legge nelle sue azioni, se non l’indomita cupidigia dell’animo di servire ai propri comodi e piaceri?»
Il Syllabus errorum, appendice dell’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864, è in pratica un elenco di ottanta proposizioni divisibili in tre categorie, che, estratte da precedenti sue lettere, allocuzioni e altri atti, dichiara erronee e quindi da condannare. Nella prima categoria, alcune proposizioni riguardano la fede e l’esistenza di Dio, la costituzione della Chiesa e gli errori che vi contraddicono, panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto; altre proposizioni condannano, invece, gli errori che il giurisdizionalismo produce quando limita, o addirittura nega, il potere spirituale della Chiesa. Nella seconda categoria ci sono le proposizioni riguardanti gli errori moderni d’infiltrazione protestante (già nell’enciclica Noscitis et nobiscum, dell’8 dicembre 1849, il pontefice afferma che il comunismo e il socialismo, dottrine contrarie alle leggi naturali, hanno in qualche modo un’origine dal protestantesimo). Nella terza e ultima categoria, invece, ci sono le proposizioni che condannano gli errori che si riferiscono allo Stato moderno, concepito in conformità a tesi filosofiche e sociologiche che, in nome del liberalismo, socialismo e simili, pregiudicano evidentemente i diritti tradizionali della Chiesa (le tesi 19, 39 3 58, ad esempio, condannano il giurisdizionalismo di Stato, negano che lo Stato sia l’origine e la fonte di tutti i diritti, affermano che non è lecito applicare il principio del liberismo all’economia in quanto essa non può essere separata dalla morale).
Mentre Pio IX condanna la radicale alternativa tra il liberalismo e il socialismo, Leone XIII, per evidenziare il distacco della Chiesa da questi progetti laicisti, elabora invece una “Terza via sociale”, una vera e propria proposta organica di soluzione delle questioni sociali contemporanee.

L’azione che papa Gioacchino Pecci svolge nei suoi venticinque anni di pontificato, è fondamentale per la Chiesa universale. L’idea di fondo di papa Leone è quella di realizzare, sulla base della posizione cattolica, uno Stato al servizio del bene comune. La sua costante preoccupazione è innanzitutto quella di ammorbidire i rapporti tra la Chiesa e gli Stati, chiarendo i limiti delle due autorità; poi di dare dignità alla politica nel suo servizio per la società; poi ancora, quella di mettere la Chiesa alla pari con i tempi, permettendone così di recuperare in parte la classe intellettuale e le grandi masse sociali.
Nella sua prima enciclica, promulgata il 28 dicembre 1878, dopo appena dieci mesi di pontificato, la Quod apostolicis muneris, papa Pecci ribadisce la dottrina tradizionale della Chiesa circa la proprietà e l’ordinamento sociale, persistendo come il suo predecessore nella condanna del socialismo. Nel documento auspica il ritorno al sistema delle antiche corporazioni, le uniche considerate in grado di ripristinare l’ordine sociale ormai così profondamente sbilanciato.
Nell’enciclica Immortale Dei (che ha come titolo “Sulla costituzione cristiana degli Stati”), del 1° novembre 1885, papa Leone riafferma, invece, la funzione insostituibile della Chiesa nella società, poiché essa ha in sé la potenzialità di programmare una struttura sociale e politica migliore di quella liberale e socialista: la Chiesa «opera immortale di Dio» è per natura sua ordinata alla salvezza delle anime; essa fonda una vita e delle strutture politiche che servono la libertà dell’uomo e sono espressione autentica delle persone e dei rapporti sociali. Applicando i suoi princìpi, ribadisce il pontefice, si genererebbero vantaggi grandissimi anche per la stessa autorità civile.
Leone condanna quello che chiama il “diritto nuovo”. Esso parte dall’idea della sovranità popolare, per arrivare a stabilire che l’autorità deriva dagli uomini attraverso il “contratto sociale” e non da Dio. Da qui la “liberazione” degli obblighi verso Dio e la negazione di ogni ingerenza della Chiesa nel sociale. Lo Stato, quindi, avrebbe dovuto riconoscere la religione, Dio e la sua Chiesa, perché il laicismo e l’indifferenza religiosa dello Stato liberale stava pericolosamente convergendo verso l’ateismo. Per questo papa Leone arriva addirittura a celebrare nell’enciclica, quasi con rimpianto, il Medioevo, «tempo in cui la filosofia del Vangelo governava gli Stati» e in cui la collaborazione fra «il sacerdozio e l’impero, stretti insieme in avventurosa reciprocanza di servigi» recò «frutti che maggiori non si sarebbero potuti sperare, dei quali è durata e dura la memoria affidata ad innumerevoli monumenti, che nessun artificio di nemici potrà falsare».
Partendo dall’assunto che nessuna ideologia può veramente competere con i princìpi sostenuti dalla Chiesa, Leone elabora il fondamento di uno Stato che avrebbe dovuto rifarsi ai princìpi cristiani, ossia quelli che pongono la politica al servizio dell’uomo, che servano la società, non concentrandola in sé, anche attraverso la promozione e la difesa della famiglia e dei beni comuni. Leone vuole così evidenziare nel suo documento che non è intenzione della Chiesa condannare i «progressi che reca il tempo», anzi l’incoraggia «di gran cuore e con giubilo, purché veramente promettano di accrescere la prosperità» di tutti.

Un chiaro riferimento alla deriva asociale dello Stato moderno lo troviamo anche nell’enciclica Diuturnum illud del 1885. Leone, riferendosi probabilmente alla situazione politica e religiosa francese, condanna il sistema liberale che governa nel disprezzo di Dio, dichiarando che «la scelta popolare designa il mandatario dell’autorità, ma non crea i diritti», specie quello di scristianizzare la democrazia faticosamente conquistata.
La chiave etica della proposta sociale di papa Leone si trova invece nella enciclica Libertas praestantissima del 20 giugno 1888, in cui papa Pecci ritiene opportuno affrontare tematicamente il problema della libertà, illustrando dapprima la nozione naturale e cristiana di libertà, quindi confrontandola con quella proposta dal moderno liberalismo e, infine, prescrivendo alcune regole per la condotta dei cattolici.
Nella Libertas si propone la posizione tomistica della libertà che è riferita alla ragione: ragione e libertà sono le due caratteristiche di fondo dell’uomo e si realizzano vicendevolmente. La libertà, dunque, è un’adesione consapevole alla legge di Dio, ma può rappresentare anche la possibilità drammatica del suo rifiuto. La vera libertà morale non può escludere la legge, che anzi la richiede per assicurare che «gli atti volontari nostri non discordino dalla retta ragione».
La nozione di libertà morale si applica non solo all’uomo, ma anche alle società. Dal punto di vista oggettivo anche per le società la libertà non è fare quello che si vuole, ma perseguire il bene comune dei cittadini. Papa Leone ricorda che la Chiesa ha sempre distinto fra libertà naturale e libertà morale; essa ha sempre raccomandato l’obbedienza, ma ha distinto fra obbedienza a un’autorità legittima e obbedienza alla tirannide: nei «governi tirannici [dove] il comando si opponga alla ragione, all’eterna legge, al divino impero, allora il disobbedire agli uomini per obbedire a Dio diviene un dovere», afferma il Pontefice nell’enciclica Libertas. Una libertà non fondata su Dio è dunque impossibile da approvare, essa non è libertà, ma ribellione; come una libertà non fondata sul bene comune è abuso.
Nel suo documento Leone lamenta che le leggi delle nuove società non derivano il loro carattere vincolante dalla conformità alla verità, ma semplicemente dalla conformità all’opinione della maggioranza, principio molto pericoloso che fa sparire quella netta distinzione fra il bene e il male, sostituita dall’«arbitrio del maggior numero, facile via a tirannidi».
La cultura laicista dominante ha un concetto di libertà intesa come pura capacità di scelta; così interpretata essa serve a preparare una struttura della vita sociale e politica sostanzialmente negatrice della libertà stessa. Questa è una concezione di libertà negativa per il Pontefice, a differenza di quella autentica proposta dalla Chiesa, poiché sottoposta alla verità: la verità è dunque per la Chiesa un supremo valore e la libertà è la regola per affermare la verità. In questo modo si deve accettare il principio esposto dalla dottrina sociale della Chiesa, secondo cui solo una legge conforme al diritto naturale e alla verità è vera legge. Per papa Pecci il fine della legge dello Stato è dunque favorire il bene comune.
Novità dell’insegnamento leonino è stata anche l’apertura alla partecipazione politica del cristiano per contribuire al bene comune. Al tal proposito, scrive Leone nell’enciclica Libertas: «Similmente non è vietato prediligere governi temperati di forme democratiche, salva però la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere. Purché adatte per sé a fare il bene dei cittadini, nessuna delle varie forme di governo è riprovata dalla Chiesa: essa vuole bensì ciò che è pur voluto dalla natura, che si stabiliscano senza offendere il diritto alcuno, e specialmente, rispettando le ragioni della Chiesa stessa. Onesta cosa prendere parte all’amministrazione dei pubblici affari, tranne che in alcun luogo, per circostanze speciali di cose e di tempi, non venga disposto altrimenti, la Chiesa anzi approva che ognuno cooperi al bene comune e, secondo la possibilità sua, difenda, conservi e faccia prosperare lo Stato».

Una delle encicliche più famose di papa Leone in materia sociale è indubbiamente la Rerum novarum, del 15 maggio 1891, sui diritti e doveri del capitale e del lavoro. Con questo documento papa Pecci dà un vigoroso impulso allo sviluppo del cattolicesimo sociale, restituendo unità teorica e ideologica a tutti i fermenti e le preoccupazioni per il problema sociale.
In questa enciclica Leone XIII, in antitesi alle soluzioni esposte quasi mezzo secolo prima da Karl Marx nel “Manifesto del Partito Comunista”, indica i princìpi per una risposta cristiana alla questione operaia, impegnando i cattolici a non lasciare gli operai «soli e indifesi in balìa della cupidigia dei padroni». Scrive Leone nell’enciclica: «la collettivizzazione dei beni proposta dal socialismo va assolutamente rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera le funzioni dello Stato, e turba la pace comune».
Condannando i princìpi socialisti della lotta di classe e superando l’assolutismo sociale dello Stato liberale, il pontefice riconosce nel documento la funzione sociale della proprietà, il valore umano del lavoro, il diritto degli operai di associarsi per la tutela dei loro diritti.
La “destinazione sociale” è un dovere etico e riguarda la formazione delle persone: l’economia e la politica, secondo papa Leone, dipendono dall’etica e non viceversa, mentre la proprietà privata è una caratteristica espressiva dell’uomo; quindi non si lavora solo per sopravvivere, ma per realizzarsi socialmente. Il diritto di proprietà è dunque un elemento fondamentale del complesso dei diritti della persona umana e la sua abolizione è immorale perché è un tentativo di alienare l’uomo, intervenendo sulla sua libertà di realizzarsi. Per Leone, quindi, il diritto di proprietà deve essere riportato alla persona e alla sua libertà espressiva; pertanto non si può eliminare il possesso, ma si deve solo esercitarlo bene e con criterio.
In definitiva Leone individua la soluzione del problema sociale nell’educazione di colui che deve disporre di questo diritto, giacché il suo uso deve essere usufruito per l’incremento del bene comune e non per un puro benessere egoisticamente sottratto dal contesto sociale. Per questo Leone ha criticato sia il meccanicismo liberale, che vuole la proclamazione assoluta del diritto di proprietà e la sua destinazione privata – cioè il puro incremento del capitale – sia l’abolizione socialista del diritto di proprietà, che genera una cultura del lavoro incapace di creatività e di responsabilità personali.
Ha scritto Leone nella Rerum novarum:
«Stabiliscasi in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile.
La più grande varietà esiste nella natura degli uomini: non tutti posseggono lo stesso impegno, la stessa solerzia; non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sì dei particolari, sì del civile consorzio; perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi; e l’impulso principale che muove gli uomini ad esercitar tali uffici è la disparità dello stato.
Nella presente questione lo scontro maggiore è questo: supporre l’una classe sociale nemica naturalmente all’altra quasi che i ricchi e i proletari li abbia fatti natura a lottare con duello implacabile fra di loro. Cosa tanto contraria alla ragione e alla verità, che invece è verissimo che, siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria, ci si volle la natura che nel civile consorzio armonizzassero fra di loro quelle due classi. L’una ha bisogno assoluto dell’altra; né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. Ora a pacificare il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha dovizia di forza meravigliosa».
È chiaro in questo passaggio che non si può considerare la struttura della vita socio-economica come inevitabile logica di ruoli: si deve quindi valutare l’uomo in tutta la sua globalità e non solo come lavoratore o padrone. Questa è la posizione ideologica di Leone, considerata l’unica via che valuta correttamente il primato della persona; al contrario i due pensieri politici presenti nella società hanno una impostazione ideologica intrinsecamente disgregatrice: o l’uomo padroneggia (liberalismo) o è sottomesso (socialismo). L’errore, secondo papa Leone, sta proprio nel considerare le due classi presenti nella società come naturalmente contrapposte.
In definitiva l’insegnamento sociale di Leone sostiene la collaborazione tra le classi e la mutua interdipendenza di capitale e lavoro, in una concezione che vede nel capitale e nel lavoro due elementi complementari, che possono armonizzarsi per meglio preservare i diritti di entrambi. Soprattutto rimanda al principio che occorre indurre l’uomo a riprendere coscienza del proprio destino trascendente e a considerare lo Stato non come la fonte della sua esistenza, ma come l’ambito in cui esprimere la sua creatività.
La Rerum novarum ha favorito la creazione di gruppi, associazioni e sindacati e rimanendo un costante punto di riferimento dei successivi pronunciamenti dei vari pontefici che si succederanno al trono di Pietro.
Le direttive di politica sociale contenute nella Rerum novarum, inasprirono tuttavia la diatriba con lo Stato italiano, che pose il veto alla partecipazione della Santa Sede alla riunione dell’Associazione internazionale per la pace nel 1899. Il governo italiano si preoccupò che papa Pecci potesse in qualche modo inquadrare i lavoratori con l’obiettivo di uno Stato confessionale.
La Rerum novarum ha dato innegabilmente la possibilità al pontefice romano di reinserirsi autorevolmente nel campo internazionale come l’autorità morale per eccellenza. L’enciclica leonina diede infatti i suoi primi frutti: nel 1902 l’Associazione internazionale del lavoro, invitò il pontefice a inviare propri delegati alla riunione di Colonia. È stato una grande vittoria e un importante riconoscimento per papa Leone e tutta la Chiesa di Roma.

 

Per saperne di più

Encicliche, atti, documenti e discorsi in «La Santa Sede», http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html
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Barucci P., Magliulo A., L’insegnamento economico e sociale della Chiesa (1891-1991), Milano 1996.
Calvez J.Y., Perrin J., Chiesa e società economica. L’insegnamento sociale dei Papi da Leone XIII a Giovanni XXIII (1878-1963), trad. it., Milano 1965.
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Ibanez Langlois J.M., La dottrina sociale della Chiesa. Itinerario testuale dalla Rerum novarum alla Sollicitudo rei socialis, Milano 1989.
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Toso M., Umanesimo sociale della Chiesa, Roma 2001.
Utz A.F., Dottrina sociale della Chiesa e ordine economico, Bologna 1993.