LA CAVERNA DEI SETTE LADRI: GELLI E L’ORO JUGOSLAVO

di Simone Barcelli -

Licio Gelli fu sospettato di aver trafugato almeno una parte delle venti tonnellate di lingotti d’oro del tesoro di re Pietro di Jugoslavia. Nel 1942 il futuro Venerabile era infatti l’ispettore del Partito Nazionale Fascista incaricato di custodirlo, prima della restituzione a Tito nel 1947. All’epoca Gelli fu chiamato a Cattaro, in Jugoslavia, da Luigi Alzona, segretario generale dei fasci italiani all’estero e funzionario del SIM (Servizio Informazioni Militari). Gelli, col grado di tenente dell’esercito, divenne il suo uomo di fiducia, rimanendo a Cattaro fino al 25 luglio 1943

Licio Gelli

Licio Gelli

Jorge Camarasa e Marco Dolcetta ricordano che Licio Gelli è stato una sorta di ombra di Perón, poiché si trovava a Buenos Aires tra il 1946 e il 1948 («ministro plenipotenziario per gli Affari culturali»),[1] durante la fuga del generale nel 1955, e ancora assieme a lui sull’aereo che lo riportava in Argentina nel 1973. In quest’ultima circostanza, sul velivolo erano presenti anche Milo De Bogetic, un criminale di guerra ustascia già alle dipendenze di Ante Pavelić, e Hans Ulrich Rudel, un ex colonnello della Luftwaffe. Negli anni Settanta, fra l’altro, Gelli – munito addirittura di passaporto diplomatico – era anche consigliere economico dell’ambasciata argentina in Italia. In quegli anni Gelli svolgeva anche attività economiche e finanziarie in Argentina, oltre che in Brasile, Uruguay e Paraguay.[2]
Peròn, mosso da malcelata gratitudine, insignì Gelli della Gran Cruz de la Orden de San Martín Libertador, la massima onorificenza della repubblica argentina. I due erano amici di vecchia data, poiché si erano conosciuti nel 1939, durante il soggiorno di Perón a Roma.[3] Qualche anno prima, Gelli aveva ricevuto un’altra preziosa onorificenza, quella di commendatore dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, nel 1965, da parte del potente cardinale Eugène Tisserant, «che di questa setta è Gran Maestro», eminente biblista e stratega del Vaticano nei rapporti con il comunismo, che abbiamo già incontrato nelle pagine precedenti.[4]
C’era una macchia nel passato del ‘venerabile’: Gelli fu sospettato di aver trafugato almeno una parte delle venti tonnellate di lingotti d’oro del tesoro di re Pietro di Jugoslavia, poiché nel 1942 era l’ispettore del Partito Nazionale Fascista incaricato di custodirlo, prima della restituzione a Tito nel 1947.[5] Il valore stimato dalla Banca d’Italia per venti tonnellate d’oro dell’epoca, corrisponde a più di venti milioni di dollari.[6] All’epoca Gelli fu effettivamente chiamato a Cattaro, in Jugoslavia, dall’ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, segretario generale dei fasci italiani all’estero ma nel frattempo reclutato anche tra le file del SIM (Servizio Informazioni Militari). Gelli, col grado di tenente dell’esercito, divenne il suo uomo di fiducia, rimanendo a Cattaro fino al 25 luglio 1943.[7]

 A questo punto del racconto, le versioni proposte da giornalisti e storici divergono, e non poco.
Come racconta il giornalista Ferruccio Pinotti «A quegli stessi anni risalirebbe un evento quasi leggendario della vita di Gelli. Nel 1942 si sarebbe infatti impadronito di una parte del tesoro della Banca nazionale serba. Secondo alcune ricostruzioni, gli venne affidato il compito di recuperare e trasportare in Italia il tesoro di re Pietro: 60 tonnellate di lingotti d’oro, 2 di monete antiche, 6 milioni di dollari e 2 milioni di sterline che gli uomini del Sim (il servizio segreto fascista) avevano prelevato dai forzieri della Banca nazionale serba e nascosto in una grotta. L’oro arrivò effettivamente in Italia, via Trieste, e fu consegnato alle autorità di Roma. Ma quando nel 1947 il tesoro venne restituito dalla Banca d’Italia alle autorità iugoslave, mancavano 20 tonnellate di lingotti. In parte – afferma qualcuno – trattenuti e trasferiti in Argentina proprio da Gelli. E c’è chi pensa che i lingotti ritrovati nel corso di una perquisizione nelle fioriere del giardino di Villa Wanda provengano da quel tesoro, nonostante le smentite dell’interessato».[8]
La grande caverna naturale in cui gli slavi depositarono l’oro della corona, tra il 14 e 15 aprile 1941, si trovava a due chilometri da Niksic, in Montenegro, sulla strada che conduce al Monastero di Ostrog. Ma soprattutto, a nemmeno cento chilometri dalla base navale di Cattaro, dove avrebbe dovuto essere imbarcato su due sommergibili inglesi. Si chiamava «caverna dei sette ladri», poiché nel XX secolo sette banditi vi nascondevano il frutto delle loro ruberie.[9]
Poiché il trasporto delle casse all’interno della grotta fu eseguito da alcuni soldati italiani che in precedenza erano stati fatti prigionieri, questi qualche giorno dopo non ebbero difficoltà a indicare il luogo dell’imbosco al generale Riccardo Pentimalli, comandante della 32° divisione di fanteria “Marche”, di stanza in Montenegro.
Buona parte del tesoro fu poi consegnato all’Intendenza Superiore delle Forze Armate dell’Albania, alla presenza di ufficiali del Servizio Informazioni Militari e del Ministero del Tesoro, anche se nei giornali dell’epoca, indottrinati da una velina del Ministero Cultura Popolare, fu scritto che le riserve auree della Banca Nazionale Jugoslava erano state trasferite al Cairo durante la fuga di re Pietro.

Il trasporto in Italia degli ingenti valori, in tutto cinquantasei tonnellate d’oro, come scriveva lo storico Franco Bandini già negli anni Settanta, «sotto la sorveglianza di ufficiali del SIM, avvenne con artifici ingegnosi. Una gran parte dell’oro venne trasferito prima a Tirana e poi a Valona, e fu trasportato in Italia sia per aereo sia per mare, variando la forma di trasporto all’ultimo minuto, per depistare gli agenti avversari sempre alle calcagna. Un’altra parte fu imbarcata a Ragusa: ma la maggior frazione risalì l’Jugoslavia in treno, camuffata in casse di viveri».[10]
Il trasferimento fu affidato al generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, dal 18 marzo 1942 comandante anche della II Armata in Jugoslavia. Fra l’altro Roatta era stato direttore del SIM dal 1934 al 1939, seppur impegnato contemporaneamente in fronti di guerra.
Nel 1944, sei mesi prima della sua fuga in Spagna, egli costituì un servizio segreto parallelo chiamato Anello o Noto Servizio, che nelle intenzioni doveva condizionare il sistema politico italiano e arginare la presenza comunista nelle istituzioni.[11]
Mario Ajello e Pasquale Chessa, riprendendo le conclusioni di Gianfranco Piazzesi in La caverna dei sette ladri (1997), che fra tutte ci sembrano le più plausibili, scrivono che è a questo punto della storia che compare Licio Gelli: «Se l’era portato dietro in Jugoslavia un ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, ormai diventato rappresentante del Servizio informazioni militari e nominato prefetto di Cattaro. Il futuro Venerabile – chiamato affettuosamente “Licino” dal suo protettore e concittadino che l’aveva fatto arruolare nel Sim e lo stimava per la sua opera di combattente prima in Spagna e poi tra i fanti in Albania – si trova al centro del trafugamento italiano dell’oro iugoslavo. “Anzi fu proprio lui” dice Piazzesi “a proporre l’idea di un falso treno ospedale diretto a Trieste con quel prezioso carico”… il tesoro raggiunse l’Italia. Intatto. “I cinque vagoni” precisa Piazzesi “furono parcheggiati in un binario morto dopo la stazione di Trieste. Lì, Alzona e Gelli consegnarono il tesoro ad altri agenti del Sim”».[12]

Anche Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo confermano questa versione: «L’idea decisiva venne al giovane tenentino Gelli: il modo migliore per tenere alla larga le ispezioni tedesche o i partigiani jugoslavi era trasportare l’oro su un treno ospedale che recasse sulla locomotiva, oltre al simbolo della Croce Rossa, due bandiere gialle incrociate, a indicare che il treno trasportava un carico di soldati colpiti da una grave malattia infettiva. Il 5 maggio 1941, quando il “Corriere della Sera” pubblicò un ulteriore articolo di “depistaggio” firmato da Paolo Monelli, nel quale raccontava con dovizia di particolari dell’incursione nazista al monastero di Ostrog, il falso treno ospedale escogitato dal tenente Gelli era già partito dal Montenegro, con 75 falsi ammalati, un medico militare e un infermiere, che in realtà erano i due agenti del SIM Luigi Alzona e Licio Gelli… L’ardita missione si concluse felicemente: il tesoro raggiunse sano e salvo Trieste e i 5 vagoni vennero dirottati su un vecchio binario morto dove Luigi Alzona e Licio Gelli passarono le consegne ad altri ufficiali del SIM».[13]
Circa nove tonnellate della refurtiva furono depositate in custodia alla Banca d’Italia, nel caso i tedeschi avessero scoperto l’intrigo. Quella parte del tesoro, contenuto in 177 casse marchiate col timbro della “Caisse Centrale de la Banque Nationale de Yugoslavie”, fu individuato dal dirigente della Reichsbank Maximilian Bernhuber – inviato in Italia da Walter Funk, ministro dell’economia e presidente della banca centrale tedesca -, una decina di giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.[14]
Le cinquanta tonnellate d’oro rimanenti furono nascoste da funzionari della Banca d’Italia in luoghi diversi a Roma, Milano, Fortezza e Potenza, anche in abitazioni private di fidati funzionari ministeriali.[15] Parte delle riserve che provenivano dalla Banca d’Italia, sessanta tonnellate circa, trasferite dai tedeschi, nell’autunno del 1944 a Milano, e qualche mese dopo in Alto Adige e in Germania, furono individuate dagli americani nelle miniere di sale di Merkers-Rohn in Turingia.[16]
L’allora governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini, ebbe nella faccenda un ruolo certamente determinante, poiché riuscì, d’accordo coi tedeschi, a far nascondere più di quaranta tonnellate d’oro in una galleria ferroviaria fuori uso.

Il 14 aprile 1945 furono consegnate al maresciallo Tito, ufficiosamente, per non dire in gran segreto, ventisette tonnellate d’oro, un milione di sterline e quattro milioni di dollari. Due anni dopo, con l’ufficialità di una decisione assunta a Bruxelles, furono restituire alla Jugoslavia altre nove tonnellate d’oro, quelle che la Banca d’Italia deteneva in cauta custodia dal maggio 1941.[17] Mancavano quindi una ventina di tonnellate di lingotti d’oro, ma anche un milione di sterline, un milione di dollari e la metà delle cassette di sicurezza: tutto sparito nel nulla.
Nel dopoguerra, molti testimoni, anche di dubbia attendibilità, assicurarono che parte di quel tesoro, trasferito da Milano in Germania dai tedeschi, fu nascosto nelle gallerie del Monte Soratte o nei cunicoli e anfratti del fortilizio di Fortezza, se non nei suoi dintorni.
Il giornalista Dario Massimo sostiene che subito dopo la guerra Gelli avrebbe compiuto un misterioso viaggio in Argentina in visita al suo amico Juan Perón: «Licio Gelli nel ’46 è in Argentina e fugge precipitosamente all’arrivo di agenti segreti inglesi. Lo cercano perché in Inghilterra si è capito chi poteva essere in possesso dell’oro mancante».[18]
È senz’altro più articolato il racconto proposto dallo storico Giuseppe Casarrubea e del giornalista Mario José Cereghino: «Non è un caso, quindi, che nel dopoguerra il soggiorno nella capitale argentina di Gelli sia interrotto dall’arrivo di due agenti del Soe (Special Operation Service) britannico, che cercavano di recuperare il bottino. Ma l’intelligence londinese ignora che, dall’ottobre 1944, l’imprenditore toscano è un informatore del Cic, il controspionaggio militare USA. Grazie alle coperture USA, Gelli avrebbe investito quell’enorme fortuna in alcune società costituite in Argentina e in Uruguay assieme a Umberto Ortolani e a Giampiero Pellegrini, l’ex ministro delle Finanze della RSI». Nell’autunno 1944 il nome di Gelli, secondo Casarrubea e Cereghino, compare in due rapporti del Cic. Tuttavia Gelli, nell’intervista concessa agli autori, ha negato di aver soggiornato in Argentina tra il 1946 e il 1948. [19] [20]
Eppure, anche Camarasa ha determinato che la presenza di Gelli a Buenos Aires fu segnalata per la prima volta proprio in quell’intervallo di tempo.[21]

Nel frattempo Gelli, dopo aver collaborato come delatore per i nazisti, divenne fiancheggiatore dei partigiani, trovando anche il tempo di prestare le sue qualità di doppiogiochista in favore del controspionaggio americano e poi di quello italiano.[22]
Cicchino e Olivo commentano che «se le tesi di Dario Massimo appaiono piuttosto tirate per i capelli, non si può negare che le oscure vicende personali di Gelli si prestino a qualsiasi illazione. Comprese le sue tre misteriose visite a Fortezza nel dopoguerra, l’ultima delle quali si sarebbe verificata verso la metà degli anni Settanta. Anche se è difficile ipotizzare i motivi di tali visite, appare assai improbabile possa essersi trattato di semplici villeggiature».[23]
Durante una delle tante perquisizioni a Villa Wanda, residenza di Licio Gelli, furono rinvenuti il 12 settembre 1998 centosessantaquattro chilogrammi d’oro, fra lingotti, formelle e limelle, nascosti nelle fioriere, sotto uno strato di trenta centimetri di terriccio.
La giornalista Natalia Andreani, dopo aver ricordato che «i primi dieci chili d’oro gli vennero trovati a Buenos Aires» (nel 1983),[24] s’interrogava sulla provenienza di questi lingotti: «Alcuni simboli in alfabeto cirillico che, secondo alcune indiscrezioni, marcherebbero i lingotti di Villa Wanda, porterebbero a dar credito ad una ipotesi: che si tratti del tesoro di Cattaro, nel Montenegro, del quale si è favoleggiato a lungo, e da dove ha inizio il potere forte del Venerabile».[25]
Probabilmente Gelli si era davvero impadronito di una parte consistente delle riserve aurifere del Regno di Jugoslavia, trasferendole, anche solo in parte, in Argentina («20 tonnellate di lingotti, in parte trattenuti in Argentina proprio da Gelli»),[26] durante la prima presidenza Perón.[27]
È anche plausibile che parte del tesoro ustacha di Pavelić sia arrivato, in qualche modo, nella disponibilità di Perón e sua moglie, per finanziare la rete di salvataggio dedicata ai criminali di guerra, poi ospitati in Argentina. In fondo, come confermato dalla consultazione di documenti rilasciati dall’intelligence americana, i vescovi Gregory Rozman e Ivan Saric avrebbero depositato in una banca a Berna, nel marzo 1948, parte di quel tesoro, corrispondente a circa duecento milioni di franchi svizzeri, poi trasferito pure in Argentina. Lo stesso discorso va fatto, naturalmente, anche per quella parte di oro tedesco che sparì nel nulla, dopo la fine della guerra.

Note
[1] Marco Dolcetta, Spettri del Quarto Reich: Le trame occulte del nazismo dal 1945 a oggi, BUR, 2013.
[2] Camera dei Deputati, Senato della Repubblica, Relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2, Doc XXIII, n. 2, 12 luglio 1984.
[3] Emanuel Quintas, I rapporti politici tra Italia e Argentina negli anni del peronismo (1946-1955), Tesi dottorale Università Roma Tre Scuola dottorale in Scienze Politiche, 2011.
[4] Mario Guarino e Fedora Raugei, Gli anni del disonore, Edizioni Dedalo, 2006.
[5] Jorge Camarasa, Organizzazione Odessa, Mursia, 1998.
[6] Sergio Cardarelli e Renata Martano, I nazisti e l’oro della Banca d’Italia. Sottrazione e recupero 1943-1958, Editori Laterza, 2001.
[7] Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo, Caccia all’oro nazista, Mursia, 2011.
[8] Ferruccio Pinotti, Il burattinaio d’Italia, Focus Storia n. 19, aprile-maggio 2008.
[9] Mario Ajello e Pasquale Chessa, 1941-1996: Il giallo del tesoro jugoslavo. L’oro di Gelli, anatomia di un mistero rosso-nero, Panorama, 4 aprile 1996.
[10] Franco Bandini, L’oro di Belgrado, Storia Illustrata n. 203, ottobre 1974.[11] Renzo Paternoster, La brigata dell’Anello della Repubblica: “impresa” per lavori sporchi, Storia in Network, 1° maggio 2016.
[12] Mario Ajello e Pasquale Chessa, op. cit.
[13] Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo, op. cit.
[14] Sergio Lepri, 20 settembre 1943, sergiolepri.it.
[15] Oro jugoslavo: nel 1941 finì alla Banca d’Italia. Ricostruita la sconosciuta vicenda della sparizione, Adnkronos, 28 marzo 1996.
[16] Sergio Cardarelli e Renata Martano, I nazisti e l’oro della Banca d’Italia. Sottrazione e recupero 1943-1958, Editori Laterza, 2001.
[17] Franco Bandini, op. cit.
[18] Dario Massimo, Die Franzensfeste, Weger, 2007.
[19] Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, Tango Connection. L’oro nazifascista, l’America Latina e la guerra al comunismo in Italia. 1943-1947, Bompiani, 2007.
[20] Emanuel Quintas, I rapporti politici tra Italia e Argentina negli anni del peronismo (1946-1955), Tesi dottorale Università Roma Tre Scuola dottorale in Scienze Politiche, 2011.
[21] Jorge Camarasa, op. cit.
[22] Mario Guarino e Fedora Raugei, Gli anni del disonore, Edizioni Dedalo, 2006.
[23] Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo, op. cit.
[24] Claudia Fusani, Gelli, lingotti d’oro nelle fioriere, La Repubblica, 13 settembre 1998.
[25] Natalia Andreani, Licio Gelli ne aveva nascosto 164 chili nelle fioriere di Villa Wanda, sua residenza aretina. Lingotti d’oro come concime. Oltre tre miliardi sotto terra. È il mitico tesoro di Cattaro?, La Gazzetta di Modena, 13 settembre 1998.
[26] Nicola Tranfaglia, Licio Gelli, il venerabile e l’ossessione dell’informazione, Antimafia Duemila, 16 Dicembre 2015.
[27] Gelli accusato di aver rubato 20 tonnellate d’oro nel 1942, Archivio Agenzia Adnkronos, 19 settembre 1998.