LA BOMBA EUROPEA

di Stefano Baruzzo -

 

Il 28 novembre 1957, a Parigi, i tre ministri della Difesa di Francia, Germania e Italia conclusero un accordo di cooperazione militare che prevedeva la realizzazione in comune di armi atomiche. L’intesa, inizialmente segreta, si risolse in un nulla di fatto, dimostrando così i limiti dell’integrazione europea, sacrificata sull’altare delle esigenze nazionaliste e delle logiche di potenza.

Le tensioni nell’Alleanza Atlantica

L’arma atomica aveva creato una gerarchia di potenza legata al possesso delle “nuove armi”, non solo le bombe atomiche, ma anche i vettori per il loro lancio (missili). Nell’ambito dell’Alleanza Atlantica le uniche potenze nucleari erano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che aveva fatto il suo primo test atomico nell’Australia occidentale nell’ottobre del 1952. La special relationship angloamericana era iniziata in campo nucleare già alla conferenza di Québec tra Roosevelt e Churchill nell’agosto del 1943, scienziati inglesi avevano partecipato al progetto Manhattan che realizzò la bomba americana nel 1945.
Nel 1946 gli USA avevano adottato l’Atomic Energy Act (noto come legge McMahon) che proibiva lo scambio di informazioni sulla tecnologia nucleare con paesi terzi. Il rapporto speciale con gli inglesi anche in campo nucleare venne recuperato con un emendamento del 1954 alla legge McMahon che consentiva la cessione di informazioni sulle applicazioni non militari dell’energia nucleare. Scienziati inglesi assistettero anche ai test atomici americani nell’atollo di Bikini. Gli accordi con gli inglesi prevedevano l’esclusività, ossia le informazioni fornite dagli americani non potevano essere cedute a terzi, nemmeno agli altri alleati della Nato. Di fatto, all’interno dell’alleanza si era creata una gerarchia tra potenze nucleari e non nucleari, con queste ultime subordinate, potenze di seconda classe non in grado di influire sulle decisioni strategiche dell’Alleanza. La relazione speciale tra Stati Uniti e Gran Bretagna creava malcontento tra gli alleati, in particolare quelli maggiori come Francia, Italia e Germania.
La politica americana non rispondeva solo al desiderio di conservare la posizione di supremazia nucleare. La nuova amministrazione repubblicana di Eisenhower, insediata all’inizio del 1953, riteneva che la cooperazione militare in campo atomico con gli alleati europei avrebbe limitato la libertà di azione americana. Inoltre, una condivisione di armi atomiche con gli europei non avrebbe potuto escludere la Germania, creando un motivo di grave crisi con l’Unione Sovietica. Infine, gli Stati Uniti erano ostili alla proliferazione nucleare anche per evitare la moltiplicazione di governi in grado di scatenare conflitti atomici nei quali potevano essere trascinati essi stessi.
Il disagio interno all’Alleanza venne accresciuto dal new look lanciato in politica estera dalla nuova amministrazione americana. In esso rientrava la strategia della massive retaliation (rappresaglia massiccia), ossia una reazione con armi atomiche anche in caso di conflitti locali causati da un’aggressione sovietica con sole armi convenzionali. Con questa minaccia, gli americani cercavano di ovviare all’inferiorità in armi convenzionali e truppe nei confronti dell’Unione Sovietica sul teatro europeo. Ma, in questo modo, un eventuale attacco in Europa con armi convenzionali rischiava di trasformarsi in un conflitto nucleare che avrebbe distrutto buona parte dei paesi europei. Questa preoccupazione turbava in particolare la Germania, attraverso la quale passava il “confine” con il blocco orientale e sarebbe stata l’epicentro del conflitto. La nuova strategia americana generava inoltre il sospetto degli alleati europei che essa implicasse un graduale disimpegno americano dall’Europa, la cui difesa veniva lasciata alla deterrenza nucleare.
La politica europea diede da parte sua un contributo alla crisi dei rapporti euro-americani quando nell’agosto del 1954 l’Assemblea nazionale francese bocciò il trattato della CED (Comunità Europea di Difesa), fortemente sostenuto dall’amministrazione americana per rafforzare il pilastro europeo del blocco occidentale tramite un esercito integrato europeo.
Preoccupazioni di declassamento di potenza e di ininfluenza politica, di rischio bellico e insicurezza, spingevano i paesi europei alla ricerca di mezzi di sicurezza in proprio, non del tutto dipendenti dall’alleato americano. Gli europei iniziarono contatti perlopiù informali per la cooperazione in campo nucleare anche militare, sia pure con un’ambiguità di fondo tra una reale ricerca di autonomia e una strumentale pressione sugli americani per una qualche condivisione del loro arsenale atomico. La crisi di Suez irruppe in questo quadro di malcontento.

Suez

Nel luglio del 1956 il governo egiziano di Nasser decise la nazionalizzazione della compagnia che gestiva il traffico del canale di Suez, arteria fondamentale per l’approvvigionamento petrolifero europeo. La compagnia apparteneva per il 44% al governo britannico e per il 50% ad azionisti privati francesi. Francia e Gran Bretagna reclamarono senza successo l’intervento dell’ONU per raggiungere un compromesso. Prese corpo nei governi delle due potenze europee una soluzione da vecchio “colonialismo delle cannoniere” e il 31 ottobre, dopo un attacco concordato di Israele all’Egitto, francesi e inglesi, dopo un ultimatum a Egitto e Israele di ritiro dalla zona del canale, con il pretesto di garantirne la sicurezza iniziarono un bombardamento seguito il 5 novembre dallo sbarco di contingenti militari e di paracadutisti. L’eco internazionale fu enorme. L’URSS per bocca del suo primo ministro Bulganin giunse a minacciare l’uso di armi atomiche contro Parigi e Londra, in difesa dell’alleato Nasser. Gli Stati Uniti, contrari al colonialismo europeo, chiesero la cessazione delle ostilità e con una mozione all’ONU sostenuta dall’Unione Sovietica condannarono l’uso della forza. Isolate e indifese, Francia e Gran Bretagna cedettero e accettarono il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe. Fu la più grave crisi interna dell’Alleanza Atlantica, risolta con l’umiliazione dei due alleati europei.
La vicenda di Suez dimostrò l’incapacità delle due potenze europee di condurre politiche autonome, disarmate, senza l’appoggio americano, di fronte a minacce atomiche come quella sovietica. La crisi di Suez acuì la sfiducia verso l’alleato americano, lo stato di minorità di potenze non nucleari spinse gli europei, non solo le due potenze coinvolte, alla ricerca di una dotazione di forza autonoma che non poteva non essere nucleare. Gli inglesi reagirono alla sconfitta cercando di rafforzare la propria special relationship con gli USA, nella quale inserire un proprio deterrente atomico. Nel marzo del 1957 a Nassau Eisenhower e il primo ministro inglese MacMillan concluderanno un accordo per l’installazione in Inghilterra di missili IRBM (a medio raggio) con il sistema a “doppia chiave”, i missili controllati dall’aviazione britannica, le ogive sotto controllo americano.
La Francia reagì in maniera diversa e contraddittoria, non aveva con gli Stati Uniti lo stesso rapporto che aveva la Gran Bretagna, al contrario i rapporti erano stati raffreddati dalla bocciatura della CED. La Francia scelse la strada del rilancio dell’integrazione europea a Sei (con Germania, Italia e Benelux), avviata con il successo della CECA e bloccata dal fallimento della CED, e riprese con decisione la ricerca di una propria force de frappe atomica, non senza venature nazionaliste e terzaforziste. La vicenda di Suez spinse le languenti trattative avviate alla conferenza di Messina del giugno 1955 sui due progetti di una comunità europea dell’energia atomica e di un mercato comune, che nel marzo del 1957 giungeranno alla firma dei trattati costitutivi della CEEA (nota come EURATOM) e del MEC.

Il rilancio europeo

Il rilancio dell’integrazione europea, che agli inizi aveva nell’EURATOM il suo fulcro, aveva motivazioni proprie, inerenti le relazioni tra gli stessi europei. Le motivazioni francesi erano le stesse che avevano condotto alla CECA: mettere in comune un settore strategico, stavolta l’energia nucleare, per mettere sotto controllo la graduale rinascita della potenza tedesca. Ancora una volta emergevano le preoccupazioni nazionaliste alla spinta dell’integrazione, che superavano i sentimenti dell’europeismo federalista.
Dopo il fallimento dell’integrazione militare europea nella CED, rimanevano diffuse le preoccupazioni di una “bomba tedesca”. La Germania era inibita dal trattato di Parigi dell’ottobre del 1954, istitutivo dell’UEO (Unione europea occidentale), alla produzione di armi NBC (nucleari, batteriologiche, chimiche), ma avrebbe potuto tentare una cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti oppure ottenere armi atomiche tattiche dalla Nato. Il timore era condiviso dall’Italia, favorevole da parte sua ai progetti comunitari per non rimanere esclusa e quindi ulteriormente declassata nel club europeo. Inoltre, l’EURATOM rispondeva a esigenze economiche, cioè lo sfruttamento di una risorsa come l’atomo, che avrebbe sostenuto lo sviluppo industriale europeo rendendolo meno dipendente da altri fonti energetiche come il petrolio. Nel contempo, l’EURATOM poneva le basi di un pool europeo dell’energia atomica con risorse maggiori di quelle nazionali che, benché riservato agli usi civili dell’energia nucleare, poteva indirettamente aiutare le ricerche di natura militare, in quel periodo svolte solo dai francesi. Non a caso ciò che stava a cuore alla Francia era la costruzione comunitaria di un impianto di separazione isotopica per la produzione di uranio arricchito, combustibile di centrali nucleari ma anche uno dei materiali fissili per bombe atomiche (l’altro era il plutonio, derivato dall’irradiazione di barre di uranio). La produzione in proprio di U-235 garantiva l’indipendenza del rifornimento di materiale fissile, altrimenti acquistabile dagli americani anche a costi minori, ma in tal caso condizionato ai soli usi civili. L’ambiguità tra usi civili e usi militari dell’energia nucleare era sottesa alle trattative sull’EURATOM, non solo per volontà francese ma per la stessa natura “duale” della tecnologia nucleare.
L’EURATOM non corrispose alle attese francesi. Il trattato istitutivo giunse alla firma nel marzo del 1957 senza l’impegno alla produzione di uranio arricchito in un impianto comune, soprattutto per l’indisponibilità della Germania. L’EURATOM nasceva già ridimensionato da questa rinuncia alla produzione autonoma di materiali fissili. La Germania conosceva le ambizioni delle forze armate francesi di dotarsi di una bomba atomica e temeva che questo la ponesse in posizione subordinata alla Francia. Inoltre, il nazionalismo francese, unito alle ambizioni di entrare nel club atomico, assumeva caratteri di sfida antiamericana che la Germania di Adenauer non condivideva, poiché la sua politica estera era incentrata su una solida alleanza con gli Stati Uniti, gli unici sostenitori di una graduale ma piena rinascita tedesca. Preoccupazioni nazionali condizionavano la politica europea anche del governo tedesco.
Tuttavia, anche i tedeschi erano rimasti impressionati dall’impotenza europea durante la crisi di Suez e dall’atteggiamento americano. Il 6 novembre 1956 Adenauer aveva incontrato a Parigi il presidente del consiglio francese Guy Mollet e rinunciato a clausole del trattato EURATOM che impedissero programmi nucleari militari condotti dai singoli stati in ambito nazionale, condizione irrinunciabile per i francesi, ormai avviati sulla strada delle applicazioni militari dell’energia atomica. L’EURATOM non avrebbe controllato materiali fissili destinati a programmi militari di uno stato membro. Era un tacito consenso alla “bomba francese”. In cambio, i due paesi avviavano un’intesa nel campo atomico. Il ministro della Difesa Strauss nel gennaio del 1957 visitò impianti e installazioni missilistiche francesi a Colomb-Béchar nel Sahara e venne firmato un protocollo rimasto riservato. Nelle sue memorie Adenauer confiderà che «era solo così che potevamo indurre gli Stati Uniti a non venir meno ai loro obblighi», dal che risulta come egli vedesse la cooperazione europea nel campo nucleare in modo strumentale, per rafforzare l’impegno USA in Europa più che una reale ricerca di autonomia dall’alleato americano.
L’Italia condivideva con discrezione il malcontento per il monopolio atomico anglo-americano. Il governo italiano aveva appoggiato in sede di trattative per l’EURATOM le richieste francesi di costruzione comune dell’impianto di separazione isotopica come anche la condizione francese che il trattato non proibisse programmi atomici militari nazionali. I vertici militari di Francia e Italia ebbero colloqui su una cooperazione militare nelle armi speciali NBC (proibite all’Italia dal trattato di pace), la diplomazia italiana seguiva con attenzione le iniziative francesi, particolarmente presente l’ambasciatore a Parigi Pietro Quaroni. La posizione italiana favorevole a una cooperazione europea in campo atomico che non escludesse gli usi militari derivava dalla preoccupazione di non rimanere esclusi ed emarginati dal club atomico europeo, tra inglesi già potenza nucleare, francesi intenti a una force de frappe nazionale e tedeschi tentati da accordi bilaterali con americani o inglesi per una qualche forma di status nucleare. Ma anche la posizione italiana dissimulava la strumentalità di tale cooperazione, vista come mezzo di pressione verso gli USA affinché condividessero maggiormente con gli alleati tecnologia e responsabilità dell’armamento atomico. Il quadro dell’Alleanza Atlantica rimaneva insuperabile per i governi italiani, anche per garanzia della stabilità politica interna. Anche da parte italiana, l’europeismo era condizionato a esigenze nazionali e di politica interna.
Sul nugolo di dubbi e apprensioni verso la strategia dell’alleato maggiore, di diffidenze e insicurezze reciproche, di diverse e contraddittorie motivazioni tra gli stessi europei, si abbatté il doppio shock dell’estate-autunno del 1957. In agosto, i sovietici sperimentarono il loro primo missile intercontinentale (ICBM) e in ottobre lanciarono nello spazio il loro primo satellite, lo Sputnik. I sovietici dichiaravano al mondo di essere in grado di colpire con armi atomiche qualsiasi obiettivo, incluso il territorio americano; gli USA a quella data avevano solo missili a raggio intermedio (IRBM). La massive retaliation perdeva credibilità: gli USA sarebbero intervenuti con armi atomiche contro un’aggressione convenzionale in Europa rischiando una rappresaglia atomica sovietica sul proprio territorio ora che i sovietici potevano colpirli con vettori a lungo raggio? La nuova situazione diede una spinta alle trattative dei tre alleati europei per la cooperazione nel campo nucleare militare. Sembrava urgente la dotazione di un deterrente nucleare europeo, non potendo più contare pienamente su quello americano.
Dalle memorie di Taviani sappiamo che gli incontri informali tra i ministri della Difesa dei tre paesi erano iniziati già dal 1956: «Erano riunioni al caminetto, così le definiva Quaroni, si parlava in francese, senza interpreti e collaboratori. C’erano solo i tre ministri della Difesa. Dal ’56 al ’58 ci sono state almeno due riunioni in Italia, tre in Germania e due in Francia».

Gli accordi trilaterali

Fu la Francia a rilanciare la cooperazione militare europea, il paese più ferito nell’orgoglio nazionalista, ancora impegnato in una difesa di retroguardia della propria posizione coloniale in Algeria, il più esposto all’isolamento nell’Alleanza. Poco più di un mese dopo il lancio dello Sputnik, il 15 novembre, una riunione del governo francese guidato da Felix Gaillard, ristretta al ministro della Difesa Chaban-Delmas e degli Esteri Christian Pineau con il sottosegretario agli Esteri Maurice Faure, concordò un’iniziativa per un accordo trilaterale con Italia e Germania per la cooperazione militare non solo nelle armi convenzionali ma anche per la costruzione di armi atomiche in comune. Ma già nel governo francese emergevano le differenze tra chi riteneva l’iniziativa condizionata all’approvazione dell’alleato americano, come il Quay d’Orsay, e chi, come il ministro della Difesa Chaban-Delmas, non escludeva di portarla avanti comunque. Chaban- Delmas era gollista, di fatto un luogotenente del generale De Gaulle.
Quaroni comunicò l’invito del governo francese a Taviani che aderì entusiasta e in una lettera ad Adenauer per sollecitare l’adesione tedesca alla cooperazione «nel settore delle armi nuove (missili e nucleari)», sottolineò che l’iniziativa rilanciava l’ideale europeista, aggiungendo che «se Francia, Germania e Italia si presenteranno a Parigi (al consiglio atlantico fissato per il 16-19 dicembre, ndr) con un piano concreto non soltanto sarà fatto un passo molto concreto sulla via dell’unità dell’Europa continentale, ma si potrà anche evitare che l’Europa continentale resti a rimorchio di una leadership anglo-americana nel settore delle armi nuove».
La lettera di Taviani rivela diversi motivi della posizione italiana. In primo luogo, la centralità dell’integrazione europea nella politica estera italiana. In secondo luogo, l’insofferenza italiana verso le gerarchie di potenza tra potenze nucleari e non nucleari. Infine, il riferimento al consiglio atlantico cui portare l’accordo trilaterale europeo mostrava come Taviani intendesse mantenere all’interno dell’Alleanza tale accordo. Taviani fu sempre fedele alla lezione degasperiana di rinuncia a un ruolo insostenibile di grande potenza dell’Italia. Il rango e la sicurezza internazionale potevano essere cercate solo in strutture comunitarie europee affiancate all’Alleanza Atlantica. Da qui la ferma rinuncia a un’atomica nazionale ma il favore a una “bomba europea”.
Taviani, come peraltro il ministro degli Esteri Pella, era ritenuto tra i più atlantisti del governo italiano anche dagli americani ed era improbabile che accettasse un’iniziativa con significati antiamericani o terzaforzisti, che peraltro la classe dirigente italiana democristiana, nonostante alcuni atteggiamenti di un Fanfani o un Gronchi, non era disposta a rischiare. Pella non era convinto pienamente dell’accordo trilaterale, ancor meno del segreto verso gli americani e affrontò l’argomento con Foster Dulles nella sua visita a Washington ai primi di dicembre del 1957, sia pure in termini vaghi da parte di entrambi. Il ministero degli Esteri italiano tranquillizzò l’ambasciatore a Roma Zellerbach che il governo italiano non avrebbe partecipato a nessun progetto senza l’approvazione e il sostegno americano. Lo stesso Taviani il 14 gennaio 1958 in un incontro all’ambasciata americana rivelò il progetto europeo di produrre armi atomiche, ma lo pose con cura all’interno dell’Alleanza, funzionale a una difesa limitata in un conflitto locale per evitare di trascinare gli stessi Stati Uniti in una guerra nucleare generale (Taviani ipotizzò una limitata dotazione nazionale di 20-30 testate).
Differenze di orientamento non attraversavano solo i governi italiano e francese, ma anche quello tedesco, dove il ministro della Difesa Strauss sembrava sulla linea di Chaban-Delmas, mentre il ministro degli Esteri Heinrich von Brentano era contrario ad accordi che potessero compromettere il rapporto con gli USA. Durante la visita a Washington dal 21 al 24 novembre 1957 von Brentano assicurò Dulles che i progetti di ricerche nucleari europei sarebbero avvenuti solo in cooperazione con gli Stati Uniti, aggiungendo di aver trovato d’accordo su questa condizione il ministro degli Esteri italiano Pella. Il cancelliere Adenauer era riservato, si teneva dietro le quinte, ma pensava agli accordi europei come strumento di pressione sugli americani per una maggiore condivisione di responsabilità “atomiche” in seno all’Alleanza. Sarà proprio Adenauer a parlare esplicitamente dell’accordo a Foster Dulles alla vigilia del consiglio atlantico di dicembre. All’interno di tutti e tre i governi emergeva la preoccupazione di non scontrarsi con Washington, in fondo la loro sicurezza dipendeva pur sempre dagli Stati Uniti.
Queste ambiguità accompagnarono le trattative trilaterali fino all’accordo del 28 novembre, il quale non faceva menzione di possibili iniziative autonome, al contrario stabiliva esplicitamente che l’accordo si sarebbe svolto «nel quadro degli accordi generali e particolari in vigore tra i paesi della NATO e della UEO», i cui organi sarebbero stati informati degli sviluppi della cooperazione trilaterale, aperta anche all’adesione di altri paesi membri delle alleanze. Tuttavia, si precisava che per quanto riguardava le applicazioni militari dell’energia nucleare le adesioni sarebbero state regolate in una condizione di «reciprocità», il che introduceva una condizione relativa alla parte più delicata degli accordi e lasciava intatte le riserve mentali dei contraenti.
Da parte sua il governo americano aveva già maturato la convinzione di venire in qualche misura incontro alle esigenze europee, per riannodare i fili dell’Alleanza. Al consiglio atlantico del 16-19 dicembre propose l’installazione in Europa di missili balistici a medio raggio (IRBM) e la dotazione dell’Alleanza di testate atomiche. La proposta spiazzò gli alleati europei. L’Italia era disponibile, la Germania più riservata, la Francia pronta a valutare l’offerta, incluso Chaban-Delmas, sperando nella contropartita di un aiuto americano alla sua bomba con un trattamento simile a quello riservato agli inglesi. Ciascuno valutava l’alternativa americana alla cooperazione trilaterale, ossia la partecipazione a un arsenale alleato o addirittura la ripresa di un rapporto bilaterale con gli Stati Uniti in seguito all’accettazione di istallare i missili sul proprio territorio. Le reazioni dei tre alleati europei rivelarono a ciascuno le ambiguità degli altri, generando il sospetto sui reali obiettivi che ciascuno affidava all’accordo trilaterale. Un primo contraccolpo si ebbe nella riunione a Bonn dei tre ministri della Difesa il 21 gennaio 1958, che confermò la cooperazione nelle armi convenzionali, ma sospese, in attesa di verificare l’offerta americana, quella nel campo delle armi atomiche.
L’amministrazione americana rimase riservata sull’accordo trilaterale europeo, negli incontri con i leader europei non affrontò mai direttamente l’argomento. Gli americani rimanevano contrari alla proliferazione nucleare in campo militare. Nel marzo del 1958, anche l’ambasciatore italiano a Washington Manlio Brosio informava di «perplessità» e «preoccupazioni» dell’amministrazione americana verso l’accordo trilaterale europeo. La stessa offerta di installazione di missili IRBM in Europa mirava a rendere superflua la costosa ricerca in proprio degli europei di un arsenale nucleare.
Agli inizi del 1958, anche la Gran Bretagna con il suo ministro degli Esteri Duncan Sandys iniziò contatti con le tre potenze europee per ricondurre l’accordo trilaterale nell’ambito della UEO, insistendo per conoscere in quella sede i protocolli di intesa trilaterali. La Gran Bretagna temeva di rimanere isolata dallo sviluppo dell’industria militare europea, tentava di inserirsi negli accordi europei, ma si temeva che dietro l’iniziativa inglese ci fosse l’intento americano di controllare tramite gli inglesi la cooperazione militare europea in campo atomico. I limiti dell’adesione inglese furono rivelati dal fatto che gli inglesi parlavano solo di armi convenzionali con esclusione di cooperazione in campo nucleare. L’Inghilterra rimaneva tuttavia sullo sfondo come alternativa alla cooperazione nucleare europea: nel gennaio del 1958 l’ENI di Mattei, vicina a Fanfani e Gronchi, aveva concluso un accordo con il governo inglese per la fornitura a esclusivo uso civile di un reattore nucleare ad uranio naturale che sarà poi attivo nella centrale di Latina. Fu la prima esportazione di un reattore da paesi produttori di energia nucleare (USA, URSS e Gran Bretagna), non senza disappunto francese.
L’iniziativa diplomatica inglese fu accolta con cortesia, ma non fermò l’accordo trilaterale. L’8 aprile 1958, i tre ministri precisarono le iniziative comuni in un incontro a Roma a palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa: tra le armi convenzionali, la costruzione di un carro armato di 30 tonnellate, missili a medio raggio, aerei; nel campo nucleare la costruzione in Francia (a Pierrelatte) di un impianto di separazione isotopica, necessario alla produzione di uranio arricchito, per il quale Francia e Germania avrebbero contribuito ciascuna per il 45%, l’Italia per il 10%. Ed è vero che tale materiale fissile può avere usi sia civili che militari, ma essendo l’accordo firmato da tre ministri della Difesa, è difficile pensare che gli usi militari non fossero contemplati. Secondo Taviani, questi accordi furono «parafati» dai tre ministri per essere poi portati all’approvazione dei rispettivi governi, mentre fonti francesi parlano di accordo «verbale».
L’accordo dell’8 aprile 1958 rappresentò l’apice della fortuna dell’intesa trilaterale. Un repentino mutamento di equilibri politici interni, in particolare in Francia e in Italia, muterà la situazione fino a portare all’abbandono dell’accordo trilaterale in campo atomico.

La fine

Alla fine di maggio del 1958 precipitava la crisi della Quarta Repubblica francese, in seguito alla sedizione militare in Algeria. Il timore di un colpo di stato militare e di una guerra civile indusse al richiamo al potere del simbolo dell’unità nazionale, il generale De Gaulle, il cui governo ottenne la fiducia il 1° giugno. De Gaulle intendeva recuperare il ruolo di grande potenza della Francia e questo nel mondo del dopoguerra significava acquisire lo status di potenza atomica. La “bomba francese” riprese il suo cammino autonomamente ed esploderà a Reggane nel Sahara francese nel febbraio del 1960. De Gaulle scioglieva le incertezze della Quarta Repubblica: la force de frappe francese assumeva un significato di indipendenza dagli Stati Uniti.
La più diffusa interpretazione attribuisce a De Gaulle la fine del “tripartito” con Germania e Italia. Inizialmente De Gaulle decise di “sospendere” la collaborazione trilaterale nel campo delle applicazioni militari dell’energia nucleare. Questa sospensiva si poneva in continuità con quella di gennaio decisa dal governo Gaillard e non impediva in sé una ripresa della cooperazione. Il ministro tedesco Strauss ricorda invece nelle sue memorie che De Gaulle aveva deciso la cancellazione degli accordi trilaterali in campo atomico militare, cosa che avrebbe accertato egli stesso in una visita a Parigi agli inizi di luglio del 1958, riscontrando la reticenza di De Gaulle e addirittura una scortese risposta del tutto negativa sulla cooperazione in campo atomico militare da parte di Pierre Guillaumat, ministro delle Forze Armate nel governo De Gaulle. Per la verità non mancarono incontri ancora in maggio e giugno a livello tecnico in cui da parte francese venne confermata la volontà di continuare la cooperazione. Questo potrebbe indicare che De Gaulle, almeno agli inizi, avesse deciso una sospensiva o addirittura la cessazione della cooperazione nella produzione di armi atomiche, ma non dell’accordo sulla costruzione di un impianto di separazione isotopica, così essenziale alla politica nucleare francese.
Da parte sua la Germania aveva contribuito all’incertezza: alla fine di maggio il Bundestag aveva approvato il progetto per chiedere alla Nato di dotare la Bundeswehr di armi atomiche tattiche, il che apriva ad alternative alla “bomba europea”.
I gollisti, come peraltro aveva già fatto trapelare Chaban-Delmas, erano determinati a procedere verso l’arma atomica da soli. De Gaulle, dopo le prime ambigue prese di posizione, rivelerà a cosa puntava quando in settembre chiese un direttorio a tre dell’Alleanza Atlantica con Stati Uniti e Gran Bretagna, che non sarà accolto dagli americani, perché troppo discriminatorio verso gli altri alleati, ma confermerà a Germania e Italia i sospetti sulle reali intenzioni del nazionalismo gollista. Il rifiuto di Washington darà ulteriore spinta alla scelta gollista di costruire una bomba atomica francese. L’accordo trilaterale europeo nel campo delle applicazioni militari dell’energia atomica era abbandonato.
Un’altra interpretazione vuole che sia stato il nuovo governo italiano guidato da Amintore Fanfani, entrato in carica il 1° luglio 1958, a porre termine alla cooperazione nucleare trilaterale. Fanfani tenne per sé il ministero degli Esteri, mentre Taviani aveva lasciato la Difesa ad Antonio Segni. L’ambasciatore Quaroni, altro volitivo sostenitore dell’accordo trilaterale, aveva lasciato Parigi per Bonn.
Fanfani incontrò De Gaulle agli inizi di agosto e dal colloquio emerse il favore del generale alla cooperazione trilaterale negli armamenti, ma senza alcun cenno a quelli atomici. Il fatto certo, comunque siano andati i colloqui, è che il governo Fanfani non mise a bilancio il contributo finanziario italiano alla costruzione dell’impianto di separazione isotopica a Pierrelatte concordato in aprile, sancendo in tal modo il ritiro dell’Italia dal progetto centrale dell’accordo trilaterale, l’unico che interessava alla Francia in sede trilaterale. Di fatto, fu l’Italia a porre la pietra tombale sul progetto di “bomba europea”, causata dalle diffidenze non superate verso il nuovo governo francese, di cui si conoscevano gli orientamenti nazionalisti. La proposta di De Gaulle di un direttorio inglese, francese e americano fu una conferma per Fanfani, la cui reazione sopra le righe, inconsueta per la diplomazia italiana, corrispondeva al temperamento dell’uomo. In qualità di ministro degli Esteri, Fanfani fece diramare un telegramma agli ambasciatori perché informassero i governi americano, inglese, tedesco e il segretario della NATO, che «il governo italiano non autorizzò mai né approva suggerimento generale De Gaulle che, se accolto, costringerebbe Italia riesame intera situazione politica». Toccherà ad Eisenhower tranquillizzare l’ambasciatore Brosio ricevuto d’urgenza.
La scelta italiana era dovuta a ragioni sia di politica estera che interna. In primo luogo, la genericità delle opinioni di De Gaulle nei suoi primi mesi di governo, orientato a sospendere, nel migliore dei casi, la produzione comune di armi atomiche, unita alla continuazione dell’accordo sulla costruzione dell’impianto di Pierrelatte, rischiava di trasformare l’Italia, e anche la Germania, in portatore d’acqua allo sviluppo nucleare francese, creando all’interno del “tripartito” una gerarchia di potenza a favore della Francia, replicando il copione di perdita di status che l’Italia già soffriva a livello di Alleanza Atlantica. In secondo luogo, la determinazione gollista, già manifestata a suo tempo da Chaban-Delmas, a procedere alla costruzione di armi atomiche anche senza la cooperazione americana, non poteva essere accettata da nessun governo italiano, anche per sole esigenze di sicurezza e difesa garantite dagli americani. Senza una cooperazione, o quantomeno un benestare, del governo americano, il finanziamento di Pierrelatte poteva apparire agli americani come un contributo italiano alla politica “terzaforzista” francese. Di fronte all’“incognita” francese appariva più conveniente salvaguardare e rinsaldare i rapporti bilaterali con il più sicuro alleato americano. Inoltre, specie alla luce della maggiore disponibilità dell’amministrazione americana verso le richieste europee di condivisione di responsabilità “atomiche”, manifestata al consiglio atlantico del dicembre 1957, il rapporto con gli USA sembrava offrire alternative più sicure per ottenere uno status di potenza nucleare. Il governo Fanfani coglierà questa opportunità con la decisione di accogliere sul territorio italiano i missili intermedi Jupiter, atti ad essere armati con testate nucleari, con il sistema della “doppia chiave”, ossia con la decisione di lancio condivisa dai due governi. Fanfani aveva comunicato l’assenso personalmente ad Eisenhower durante la sua visita a Washington il 30 luglio 1958, quindi prima dell’incontro con De Gaulle. L’accordo con gli USA per la dislocazione delle basi missilistiche verrà poi concluso dal successore di Fanfani, Antonio Segni, con Pella nuovamente agli Esteri, entrambi atlantisti “ortodossi”.
Infine, le ragioni interne non erano meno condizionanti. Fanfani era sostenitore dell’apertura a sinistra, ossia di un governo di centrosinistra con i socialisti, ipotesi che incontrava molte resistenze nel 1958 nel suo partito, negli ambienti conservatori italiani, nel ceto industriale e nella Chiesa. Fanfani mirava a rinsaldare il rapporto con gli Stati Uniti per garantire la stabilità del quadro politico interno, indicando ai socialisti i limiti di un possibile accordo, ossia l’intangibilità delle alleanze, e nello stesso tempo tranquillizzare gli ambienti ostili all’apertura a sinistra sul mantenimento della garanzia americana verso sviluppi politici non destabilizzanti dell’assetto politico-istituzionale italiano. Esigenza che peraltro Fanfani, nonostante le voci sulle sue velleità terzaforziste, condivideva appieno.
L’abbandono dell’accordo trilaterale in campo atomico e l’accettazione degli Jupiter, erano occasioni per dissipare sospetti e diffidenze che nella metà degli anni Cinquanta si erano manifestati nell’amministrazione americana verso iniziative italiane che sembravano far emergere tendenze “terzaforziste”, come le iniziative dell’ENI di Enrico Mattei o l’indirizzo “neoatlantista” del presidente Giovanni Gronchi, di cui si ricordava l’astensione nel voto di ratifica del trattato dell’Alleanza Atlantica alla Camera nel 1949. Non è escluso inoltre che Fanfani con il rinnovato rapporto con gli Stati Uniti volesse ottenere un avallo americano a una politica italiana più autonoma nel Mediterraneo e in Medio Oriente, già condotta spregiudicatamente da Mattei, riconducendola nell’ambito dell’alleanza con gli Stati Uniti, in una sorta di ruolo proconsolare.
Le preoccupazioni del dinamico leader democristiano rivelavano l’insicurezza della classe dirigente italiana, che vedeva nel rapporto con gli Stati Uniti un saldo ancoraggio della democrazia repubblicana.

L’Europa delle nazioni e la debolezza dell’accordo

In fondo, la storia dell’accordo trilaterale conferma i limiti dell’integrazione europea, condizionata, se non determinata, da esigenze nazionaliste e da logiche di potenza. La Francia era stata il motore dell’integrazione europea dai tempi della CECA sino all’EURATOM per controllare in una struttura comunitaria la rinascita dell’antica rivale, la Germania. Il tentativo di integrazione nel campo atomico, civile e militare, non faceva eccezione. La Francia cercava la cooperazione europea con la riserva mentale di agevolare la costruzione della propria force de frappe nazionale. Una volta realizzata, la garanzia di sicurezza verso la Germania era data dallo status di potenza atomica. La Germania aderiva alle iniziative europeiste perché l’integrazione europea era l’unica strada per rendere accettabile agli alleati il pieno recupero della propria sovranità in ogni campo, incluso quello militare. L’Italia, che non ebbe mai un ruolo propulsivo della cooperazione militare europea e fu associata dopo le prime intese franco-tedesche, aderiva per non rimanere isolata e non subire un ulteriore declassamento di rango, condividendo inoltre con la Francia l’esigenza di evitare una “bomba tedesca”. Ma sia italiani che tedeschi erano restii a iniziative terzaforziste. Solo la Francia tentò con De Gaulle la via dell’indipendenza verso gli USA.
Alla fine, le iniziative trilaterali rimasero interlocutorie, intraprese da singoli ministri, quelli della Difesa, e non andarono oltre protocolli di intesa al massimo “parafati” dai tre ministri. Taviani ricorda che Zoli e Pella erano informati, così come il Consiglio superiore di difesa, presieduto da Gronchi. Usciti di scena Taviani e l’ambasciatore a Parigi Quaroni, caldi sostenitori della cooperazione europea nucleare, nei limiti detti, l’interesse italiano scemò rapidamente.
Infine, come ammetterà Taviani, esistevano limiti intrinseci agli accordi, che non definirono mai l’aspetto centrale: la «struttura politica portante», soprattutto chi avrebbe avuto le chiavi delle armi atomiche prodotte in comune. Ma la risposta avrebbe scoperto le carte: la Francia intendeva mantenere il controllo delle armi atomiche comuni, ma tale soluzione non sarebbe stata accettabile dai due partners.
Alla fine, in Europa, ognuno cercò la sua strada. La Gran Bretagna coltiverà il suo status di potenza atomica nella special relationship con gli Stati Uniti, la Francia si farà la sua force de frappe, l’Italia condividerà uno status atomico con gli Jupiter, la Germania cercherà armi atomiche tattiche dalla Nato per la Bundeswehr. Le scelte europee erano fatte: ognuno per sé e gli americani per tutti.

Per saperne di più

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G. Mammarella, Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile 1945-1985, Laterza, Roma 1996
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