ISRAELE E ARABIA SAUDITA: PROVE DI NORMALIZZAZIONE?

di Daniela Franceschi -

Lo strapotere iraniano in Medio Oriente sta costringendo i due nemici naturali a trasformarsi in alleati potenziali. Ma quanto potrà durare la luna di miele? E quali sono le insidie e i vantaggi per entrambi?

 

Nel corso del XXI secolo il Medio Oriente ha subito alcune modifiche geopolitiche sostanziali. Le relazioni di potere nella regione sono sempre state complesse, influenzate da antiche contrapposizioni, differenze religiose e conflitti settari. Inoltre, vi è sempre stata la presenza di forti poteri globali, attori non statuali e influenze religiose e ideologiche. Il Medio Oriente è sempre stata una regione instabile e imprevedibile.
Tuttavia, i recenti sviluppi, dall’invasione irachena alla Primavera araba, alla guerra civile siriana, hanno scosso la polarità della regione e intensificato antiche inimicizie, creando, al contempo, anche nuovi alleati e nuovi partner. Una delle nuove alleanze nate nel silenzio è quella tra Israele e Arabia Saudita. La loro ritrovata amicizia è per lo più solo un matrimonio di convenienza, ma dimostra tuttavia quanto le dinamiche della regione stiano cambiando molto velocemente.
L’Iran è l’unico attore regionale che è riuscito a gestire tutti i cambiamenti e le recenti crisi che hanno colpito il Medio Oriente nel modo più efficace. Il nuovo governo sciita in Iraq, la prossima vittoria di Bashar al-Assad e anche la guerra civile yemenita hanno giocato a favore dell’Iran. L’Iran è stato uno dei principali nemici di Israele per decenni ed è stato impegnato, dopo la rivoluzione islamica, in un aspro confronto con la monarchia saudita per la leadership nel mondo musulmano e nel Golfo. Entrambi i paesi, e in particolare l’Arabia Saudita, si sono resi conto di essere incapaci di contrastare la recente crescente influenza dell’Iran, comprendendo che la loro sicurezza nazionale è in pericolo. Sia per scelta o per caso, la politica degli Stati Uniti nella regione sembra aver perso un’occasione, lasciando vuoti di potere che Iran e Russia stanno cercando di riempire. Tutto ciò ha reso Arabia Saudita e Israele sempre più preoccupati e alla ricerca di nuove strategie di sicurezza e potenziali alleati in luoghi dove normalmente non avrebbero mai pensato.
Dato che condividono un certo numero di interessi comuni, in particolare nel settore della sicurezza, Tel Aviv e Riad sembrano essersi ritrovati. Di conseguenza, entrambi i paesi hanno migliorato di recente, in silenzio, le loro relazioni. Pur essendo stati nemici per decenni, ora sono sempre più vicini, nel tentativo di creare un contrappeso al sempre più forte Iran.
Nella grande tradizione del “il nemico del mio nemico è mio amico”, entrambi i paesi stanno ora cercando di trovare un terreno comune. Tuttavia, le loro differenze e inimicizie hanno una storia antica e sono ormai incastonate nella struttura geopolitica regionale. Possono trovare veramente il modo di collaborare? Quali sono stati i cambiamenti recenti che ora stanno costringendo i due nemici naturali a trasformarsi in alleati potenziali (è la prima volta che ciò accade)? In che modo stanno cercando di cooperare e quanto possono andare avanti? Sono le minacce attuali abbastanza gravi per entrambi per farli continuare in questa direzione? Potranno andare più lontano normalizzando le loro relazioni e quali sarebbero le insidie e i potenziali guadagni di questo sviluppo?

Il presente contributo intende rispondere a questi interrogativi analizzando i recenti sviluppi in Medio Oriente e in particolare come essi abbiano influenzato il nuovo riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita.
Nell’articolo si farà riferimento a due conflitti: quello del Golfo e quello del Levante. L’area del Golfo sembra essere stata sempre in uno stato di crisi permanente. Dal momento che gli inglesi lasciarono la regione quando erano in corso tre guerre regionali, una crisi energetica, attacchi terroristici, interventi esterni e altri conflitti minori. Il centro del conflitto è nell’equilibrio di potere tra l’Iran, l’Iraq e gli stati del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita. Ci sono differenze ideologiche, religiose, economiche ed etniche. L’Iran, come stato persiano e sciita, si vede chiaramente come un nemico degli stati sunniti del Golfo e dell’Iraq. Inoltre, vi è una grande minoranza sciita nel sud dell’Iraq, oltre ai problemi che riguardano la minoranza curda. Allo stesso tempo, l’Iran combatte con l’Arabia Saudita per il ruolo di leadership del mondo musulmano. Allo stesso tempo ci sono stati conflitti e tensioni tra l’Iraq e i paesi del Golfo – in lotta per i prezzi del petrolio e in precedenza per le ambizioni di Saddam Hussein. Tutto ciò ha generato un contesto geopolitico complesso, formando un network di alleanze e contrapposizioni articolato.
Gli eventi dell’11 settembre hanno cambiato tutto, poiché hanno permesso ad una leadership molto attiva di arrivare al potere a Washington, in seguito dare il via alle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. Il regime di Saddam è stato rovesciato, e il Paese gettato in una guerra civile e in una lotta settaria. L’Iraq come attore regionale è essenzialmente scomparso. Il nuovo governo sciita a Bagdad, molto fragile, rappresenta comunque un gradito sviluppo per Teheran. Con la sconfitta dei Talebani e di Saddam, l’Iran è stato il beneficiario principale dei rivolgimenti.
Le primavere araba, la guerra civile in Siria e il momentaneo riavvicinamento agli Stati Uniti sotto forma dell’accordo nucleare ha generalmente beneficiato l’Iran, provocando il nervosismo dell’Arabia Saudita. Iran e regno saudita hanno combattuto una guerra per procura in diversi conflitti del Medio Orientale – in particolare nello Yemen.
I principali attori del conflitto nel Levante sono lo Stato ebraico e i Paesi arabi; il conflitto ha avuto inizio nel novembre del 1947 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione che prevedeva la creazione di due stati indipendenti, uno ebraico e l’altro arabo nel territorio allora conosciuto come Palestina mandataria, risoluzione ferocemente avversata dai paesi arabi e dai palestinesi. Nel maggio del 1948 fu proclamata l’indipendenza di Israele, respinta da tutti gli stati arabi e dai palestinesi che iniziarono i combattimenti contro lo stato ebraico subito dopo la proclamazione dell’indipendenza e la partenza delle truppe inglesi. Anche se il conflitto è tra Israele e il mondo arabo nella sua accezione più ampia, Israele ha dovuto combattere per la sua sopravvivenza principalmente con i suoi immediati vicini, Egitto, Giordania, Siria e Libano. Il punto nodale dello scontro nel Levante è il conflitto israelo-palestinese.

Sviluppi recenti

Negli ultimi quindici anni le primavera arabe, le guerre regionali e civili hanno cambiato sostanzialmente l’equilibrio di potere nella regione, portando alla nascita di nuovi poteri e favorendo nuove alleanze. Per capire il motivo per cui paesi come Israele e Arabia Saudita stiano contemplando una cooperazione e un riavvicinamento diplomatico, si devono prendere in considerazione alcuni degli sviluppi avvenuti nella regione e come essi abbiano modificato e alterato le dinamiche geopolitiche preesistenti.

L’Arabia Saudita e l’11 settembre
L’Arabia Saudita è stato un alleato degli Stati Uniti per decenni – durante la guerra fredda e ancora di più dopo la rivoluzione islamica in Iran. Durante l’operazione Desert Storm, molte delle truppe della coalizione erano di stanza in Arabia Saudita. Ci sono state delle divergenze tra i due alleati, vale a dire le loro relazioni con Israele, che hanno portato a degli attriti (l’embargo petrolifero per citarne il più visibile), ma in generale, il rapporto tra Washington e Riad è stato amichevole, vincolato dalla necessità di sicurezza dell’Arabia Saudita e del petrolio da parte degli Stati Uniti.
Tuttavia, questa partnership nel corso degli anni e ancora di più nell’ultimo periodo è stata oggetto di molte critiche. Molti musulmani si oppongono agli stretti rapporti del governo saudita con l’America. Nell’altra direzione, le severissime regole religiose saudite e il disprezzo per i diritti umani sono stati spesso difficili da ignorare per gli Stati Uniti. Il vero banco di prova è stato il dopo l’11settembre. Osama bin Laden era di origine saudita così come 15 dei 19 dirottatori. Inoltre, la maggior parte degli attacchi suicidi avvenuti in Iraq dopo l’invasione 2003 erano stati eseguiti da uomini provenienti dall’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita segue il wahhabismo, una forma integralista, patriarcale e ultraconservatrice dell’Islam sunnita. Utilizzando i proventi del petrolio, l’Arabia Saudita ha diffuso il wahhabismo alle comunità musulmane di tutto il mondo per decenni, attraverso la costruzione di moschee, dalla Svezia al Ciad e alla Corea del Sud. Ci sono pochi dubbi sul fatto che queste azioni abbiano disarticolato le tradizioni locali in molte comunità musulmane, portando alcuni a credere che se ci fosse stata una riforma islamica nel 20° secolo, i sauditi probabilmente l’avrebbero impedita.
Naturalmente è difficile verificare se l’ideologia saudita sia stata uno dei fattori che hanno portato alla diffusione dell’Islam radicale e all’emergere di gruppi terroristici, tuttavia, vi è stata una notevole pressione sul governo saudita dopo l’11 settembre perché invertisse alcune delle sue politiche.
Anche se alcuni progressi sono stati effettivamente fatti – i sauditi, ad esempio, hanno compiuto un giro di vite sugli imam radicali e sui predicatori – quando l’ISIS ha iniziato educare i bambini nel suo territorio occupato, ha adoperato manuali scolastici dell’Arabia Saudita prima di pubblicarne dei propri Nonostante le differenze evidenti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, essi sono stati e rimangono alleati. L’Arabia Saudita è ancora dipendente dagli Stati Uniti per la sua sicurezza e la difesa, mentre gli Stati Uniti hanno importanti interessi petroliferi.
Tutti e due i paesi sono alleati nella lotta al terrorismo. Tuttavia, durante gli anni dell’amministrazione Obama, sono emersi nuovi punti di attrito. Obama ha rifiutato di assumere un ruolo più importante nella guerra civile siriana, lasciando uno spazio per l’intervento della Russia e dell’Iran. Gli Stati Uniti, inoltre, non hanno incluso Riad nei negoziati sull’accordo nucleare dell’Iran. È difficile prevedere gli sviluppi della politica estera della nuova amministrazione Trump, anche alla luce dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a Istanbul nell’ambasciata dell’Arabia Saudita, anche se sembra più aggressiva e quindi più favorevole alle esigenze saudite. È interessante notare che Khashoggi si era opposto alla cooperazione segreta dell’Arabia Saudita con Israele, sostenendo che Riad non ne avesse bisogno e che ogni legame con lo stato ebraico avrebbe indebolito inutilmente la reputazione del suo paese nel più ampio mondo arabo. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, Khashoggi, che aveva legami con i Fratelli Musulmani, aveva confermato che Riad si era avvicinata a Gerusalemme. Ma aveva aggiunto che il regno aveva “fatto marcia indietro su alcune delle più recenti posizioni filo-israeliane”, come riporta il Middle East Monitor che lo aveva ospitato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra meno di una settimana prima del suo assassinio.

L’Iran e la guerra in Iraq
La ragione ufficiale tristemente nota per l’invasione dell’Iraq è stata il possesso e la disponibilità a utilizzare armi di distruzione di massa, nonché il regime dittatoriale di Saddam Hussein. La prima si è rivelata inesatta ed effettivamente erronea. Ma non ha fermato le truppe degli Stati Uniti, del Regno Unito e dei loro alleati dall’invadere l’Iraq nel marzo del 2003. Nonostante la dichiarazione sulla fine della missione da parte del presidente Bush a malapena un mese dopo, la guerra in Iraq è ufficialmente durata fino al 2011, è costata migliaia di vite dei soldati americani e iracheni, così come migliaia di morti civili. Invece di stabilire un governo democratico e stabile, ha gettato l’Iraq in un vortice di lotte settarie e violenza.
L’Iraq ha tenuto le sue prime elezioni nel 2005 e i partiti sciiti hanno ottenuto la maggioranza in parlamento. Nouri al-Maliki, politico di lungo corso con legami con l’Iran, è stato nominato primo ministro. Ha costruito un governo di unità nazionale con sunniti e curdi, ma le ostilità settarie sono divampate, soprattutto dopo la distruzione del santuario sciita di Samarra.
Il più grande vincitore della guerra in Iraq sembra essere l’Iran. Non solo la guerra ha rimosso uno dei più grandi nemici dell’Iran, Saddam Hussein, ma ha anche portato la maggioranza sciita presente nel paese al potere. Il regime iraniano ha approfittato del vuoto di potere e del caos come basi per rafforzare e allargare la sua influenza regionale. L’Iran ha formato e sostenuto diversi partiti politici e milizie armate, fornendo loro armi e altre risorse, dando soldi e addestramento militare. Gli Stati Uniti d’altra parte hanno speso miliardi di dollari, perso innumerevoli vite e ancora di più la loro reputazione, distrutta nelle strade delle città arabe, ma con piccoli guadagni in cambio. Si potrebbe sostenere che, poiché l’Iraq è ufficialmente una democrazia, può facilmente allontanarsi dall’Iran. Inoltre, la differenza teologica tra il centro religioso di Najaf e tra i Qum e l’eredità di Khomeini provano che ci sono alcuni punti di attrito tra l’establishment religioso di entrambi i paesi. Comunque, della grande potenza dell’Iraq in Medio Oriente rimane adesso soltanto un debole ricordo, lontano dal suo antico splendore.

Libano e Hezbollah
Il Libano è un paese piccolo ma importante del Medio Oriente. È stato un prospero centro culturale e economico per secoli. È anche il paese più diversificato dal punto di vista religioso della regione, con sciiti, sunniti, cristiani e drusi che vivono insieme. Il Libano ha sofferto una lunga e sanguinosa guerra civile dal 1975 al 1990. In seguito, è diventato una democrazia parlamentare “confessionale”, il che significa che il potere è condiviso tra le varie sette religiose; il presidente è un cristiano, il primo ministro un musulmano sunnita e il portavoce del parlamento è uno sciita. Ci sono 18 gruppi religiosi che vivono in Libano e nel Paese è presente anche un numero rilevante di rifugiati palestinesi.
Il gran numero di rifugiati palestinesi e un’OLP attiva hanno spinto Israele ad invaderlo nel 1982. Hezbollah nasce in questo periodo. Hezbollah, o il Partito di Dio, è una formazione politica sciita, un’organizzazione militare e sociale. È stato fondato con il sostegno dell’Iran come una milizia sciita di lotta contro Israele e le altre potenze straniere. Nel corso degli anni si è evoluto in una formazione politica e in una potenza militare, partecipando con successo alla vita politica del Libano, godendo di un schiacciante sostegno da parte degli sciiti libanesi. Ha continuato la sua guerriglia nel sud del Libano al fine di essere accreditato come forza capace di combattere Israele. Ora detiene posizioni importanti nel parlamento e nel governo libanese.
Nel 2006 Hezbollah ha attaccato i soldati israeliani attraverso i confini scatenando la guerra israelo-Hezbollah. Il conflitto è durato 34 giorni, uccidendo più di un migliaio di libanesi e centinaia di israeliani. La guerra ha dimostrato che Hezbollah non è più solo una milizia ordinaria; infatti, con il sostegno e la formazione militare garantiti dall’Iran e grazie alle forniture di armi sofisticate e di missili attraverso la Siria, Hezbollah è diventato sempre più un esercito vero e proprio.
Il legame Iran-Siria-Hezbollah è stato uno dei motivi principali per l’impegno così attivo di Teheran e Hezbollah nella guerra civile siriana. Migliaia di combattenti di Hezbollah si sono uniti alle forze governative, aiutandole a sconfiggere i ribelli, guadagnando al contempo un’esperienza di combattimento sul campo. Dall’altra parte, il loro impegno ha aumentato le già elevate tensioni settarie in Libano e in tutta la regione, inimicandosi i sauditi che nel 2016, insieme ad altri paesi del Golfo e alla Lega Araba, hanno dichiarato Hezbollah un’organizzazione terroristica.
La situazione politica già precaria in Libano è peggiorata nel novembre 2017, quando il primo ministro Saad al-Hariri si è inaspettatamente dimesso durante un discorso televisivo realizzato in Arabia Saudita. Hariri ha affermato di temere per la sua vita (il padre, primo ministro agli inizi del 2000 fu assassinato nel 2005) e ha protestato contro il crescente potere di Hezbollah nel parlamento libanese e per l’influenza dell’Iran nella regione. Le dimissioni sono tuttavia rientrate in circostanze sospette, tanto che molti analisti credono che Hariri sia stato costretto dall’Arabia Saudita a fare quell’annuncio spingendo in tal modo il Libano nel bel mezzo della lotta di potere regionale tra Teheran e Riad. Hariri ha soggiornato in Arabia Saudita per diciassette giorni; in Libano, molti, tra cui il presidente, hanno accusato l’Arabia Saudita di tenere il primo ministro agli arresti domiciliari. Dopo il suo ritorno a Beirut, Hariri ha ritirato le dimissioni.
Attraverso le dimissioni di Hariri, l’Arabia Saudita voleva raggiungere diversi obiettivi. In primo luogo, il principe ereditario Salman mostrava ai libanesi e alle élite politiche regionali che stavano mettendo il sostegno politico e finanziario saudita in pericolo se avessero continuato a fornire copertura politica e legittimità internazionale agli Hezbollah. In secondo luogo, l’Arabia Saudita voleva fermare Hezbollah, elemento chiave dell’Iran che ha stabilito la sua roccaforte nella regione. Hezbollah ha il potere di bloccare il processo decisionale politico del governo libanese; la sua milizia è più grande e più forte dello stesso esercito libanese. Geograficamente, Hezbollah è anche riuscito a collaborare con Siria, Iraq e Yemen fornendo loro un’ampia gamma di risorse e supporto. In terzo luogo, il principe ereditario saudita stava cercando di etichettare l’avamposto iraniano come un gruppo terroristico internazionale affinché fossero introdotte maggiori sanzioni contro l’Iran e Hezbollah.
Alcuni osservatori ritengono che l’Arabia Saudita intendesse anche fornire agli israeliani un pretesto per invadere il Libano, smantellandone la vulnerabile struttura politica in cui i partiti di Hezbollah e sunniti hanno governato insieme per decenni in una difficile alleanza.
Tuttavia, è importante evidenziare come ancora una volta l’instabilità del Libano destrutturerebbe ulteriormente una regione già instabile. I venti di instabilità politica causati dall’alleanza israelo-saudita potrebbero avere delle serie ripercussioni su una regione già devastata. Inoltre, il deflusso di rifugiati eserciterebbe pressioni demografiche sugli stati confinanti come la Siria, l’Iraq, la Libia e l’Egitto che stanno già lottando con una grave crisi socio-economica e umanitaria. Ciò non solo metterebbe a repentaglio la crescita economica dell’area, ma potrebbe anche dare origine a gruppi estremisti islamici.
Le recenti elezioni legislative in Libano hanno segnato la vittoria di Hezbollah, un segnale molto preoccupante per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che considerano il “Partito di Dio” un’organizzazione terroristica.

Primavera araba, guerra civile siriana e ISIS
La Primavera araba è iniziata nel dicembre del 2010 in Tunisia. Un giovane si diede fuoco in una protesta pubblica di fronte a un edificio governativo scatenando manifestazioni che presto si diffusero in tutta la Tunisia e poi in Libia, Egitto, Siria, Yemen e altri paesi arabi. Ogni protesta era unica, ma generalmente chiedevano la stessa cosa – il cambio di regime.
Il successo delle rivoluzioni in Egitto e in Tunisia hanno dato speranza agli attivisti siriani pro-democrazia. Le proteste sono iniziate nel marzo del 2011, innescate dall’arresto e dalla tortura dei ragazzi che avevano disegnato slogan contro il regime sugli edifici del governo. Il regime di Assad ha cercato di reprimere violentemente le manifestazioni, sparando contro la folla in marcia e uccidendo i manifestanti. I ribelli hanno iniziato ad armarsi, con la creazione di milizie come l’Esercito Libero Siriano, trascinando il paese in una guerra civile che dura ancora oggi.
Il caos ha trasformato presto la guerra civile siriana in un’arena in cui le potenze regionali, globali e gruppi non statuali potevano risolvere i loro conflitti e promuovere i loro interessi. La guerra è diventata un groviglio di diversi attori con contraddittori interessi.
L’emergere dell’ISIS nel 2013 e il suo successo improvviso e inaspettato hanno spinto alcuni partiti ad unirsi in un matrimonio di convenienza. Gli Stati Uniti si sono rifiutati di partecipare alla guerra attivamente, a parte gli attacchi aerei per sconfiggere ISIS e un supporto materiale e tattico per i ribelli. L’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo hanno sostenuto i ribelli, ma le loro forze non potevano in alcun modo contrastare l’Iran e Hezbollah che hanno supportato il loro alleato strategico di lungo periodo. La Turchia è entrata nel conflitto con i ribelli ed ha anche tacitamente aiutato i curdi nel nord per combattere l’ISIS ma ultimamente, quando è stato sconfitto lo Stato Islamico, si è rivolta contro i curdi, preoccupata dalla prospettiva di uno stato curdo alle sue frontiere. L’assenza dell’America ha lasciato uno spazio per la Russia che ha sostenuto e sostanzialmente mantenuto Assad al potere (con l’aiuto indispensabile dell’Iran e di Hezbollah). Israele ha in gran parte controllato gli eventi dal confine, sempre più attivamente.

La guerra civile nello Yemen
Lo Yemen è il paese arabo più povero del mondo. Dal 2014 è intrappolato in una sanguinosa guerra civile, che è costata la vita a decine di migliaia di civili, causato migliaia di rifugiati e innescato una crisi umanitaria immensa. Il conflitto è il frutto del fallito tentativo di transizione del potere. Le rivolte della primavera araba hanno costretto l’autoritario presidente Ali Abdullah Saleh a dimettersi e a cedere l’incarico a Abdrabbuh Mansour Hadi nel 2011. Il governo di Hadi era debole e incapace di affrontare alcuni dei problemi principali del paese, come la corruzione, la disoccupazione, gli attacchi di al-Qaeda, dei movimenti separatisti e dei militari fedeli alla vecchia élite politica. Il movimento Houthi ha combattuto il vecchio governo per molti anni. Ha usato l’occasione di un nuovo presidente debole per assumere il controllo di ampie zone nel nord dello Yemen. La popolazione yemenita era insoddisfatta della nuova dirigenza e quindi, pur essendo in gran parte sunnita, ha sostenuto gli sciiti Houthi, che hanno conquistato la capitale Sana’a nel 2014 costringendo alla fuga il presidente. Supportate dalle forze pro-Saleh, i ribelli hanno tentato di controllare l’intero paese.
Essendo gli Houthi un gruppo sciita, gli eventi hanno ben presto suscitato l’interesse saudita. Preoccupata del coinvolgimento dell’Iran, Riad ha creato una coalizione con l’aiuto materiale degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia e si è unita alle forze filo-governative. Dall’estate del 2015, la coalizione è riuscita a spingere i ribelli fuori dalla maggior parte del territorio del sud, ma gli Houthi mantengono ancora il controllo di Sana’a. Il governo di Hadi ha istituito una base temporanea nel porto di Aden ma il presidente rimane in esilio.
La guerra civile yemenita è un’altra guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran. L’Iran nega il supporto agli Houthi, ma gli Stati Uniti hanno affermato di aver intercettato più volte la consegna di armi iraniane. Le preoccupazioni saudite sono comprensibili – l’Iran ha in un modo, o in un altro, il controllo su Baghdad, Damasco, Beirut e ora Sana’a. Gli attacchi aerei della coalizione sono tuttavia la ragione principale dietro all’alto numero di vittime civili. Inoltre, la lotta degli Houthi contro il governo yemenita è più complessa della semplice spaccatura tra sunniti e sciiti.
Nel frattempo, la situazione umanitaria in Yemen è divenuta insostenibile: il 75% della popolazione – più di 22 milioni di persone – ha bisogno di aiuti umanitari; più di 8 milioni di persone sono a rischio di morire di fame. Inoltre, il caos ha portato al rafforzamento di al-Qaeda e dell’ISIS nel paese. La situazione nello Yemen è instabile e pericolosa, inoltre, il coinvolgimento di molti attori stranieri rende più grave la crisi che può minare la precaria stabilità regionale.

Israele e Arabia Saudita

Nei paragrafi precedenti abbiamo spiegato le caratteristiche delle recenti crisi che hanno colpito il Medio Oriente e, in molti casi, spostato l’equilibrio del potere nella regione. È stato proprio questo cambiamento dell’equilibrio di potere che ha fatto sì che sauditi e israeliani abbiano iniziato ad allacciare delle relazioni. Anche se ogni paese è centrale nei conflitti mediorientali in modo diverso – Israele nel Levante e l’Arabia Saudita nel Golfo – entrambi hanno spesso avuto un impatto sullo sviluppo dello scontro in cui non erano coinvolti direttamente. I prossimi paragrafi analizzeranno le relazioni tra sauditi e israeliani nel corso del tempo, come hanno contribuito allo sviluppo dei conflitti in corso e come il loro approccio sia cambiato. Inoltre, si focalizzerà l’attenzione sulla politica interna israeliana e saudita, in quanto le particolarità nazionali sono importanti per capirne i futuri sviluppi.

La politica interna di Arabia Saudita e Israele
Al fine di analizzare la possibile normalizzazione dei rapporti tra i sauditi e israeliani, si deve comprendere anche la scena politica e le caratteristiche del processo decisionale in entrambi i paesi. Tutti e due gli Stati hanno un forte legame con la religione – Israele è l’unico e il tanto atteso stato ebraico e l’Arabia Saudita è leader del mondo musulmano e custode dei luoghi più sacri dell’Islam. Israele e Arabia Saudita hanno tuttavia due differenti regimi politici e, quindi, la religione e l’ideologia giocano un ruolo diverso nei rispettivi sistemi istituzionali e politici.
Israele ha proclamato la propria indipendenza nel maggio del 1948, segnando dunque il suo 70° anniversario. È una democrazia parlamentare laica, ma molte leggi sono ancora influenzate dalla religione, soprattutto per quanto riguarda la famiglia e il matrimonio. La religione è un elemento essenziale della modalità con cui gli israeliani concepiscono la loro nazionalità e la maggior parte di essi si descrive come religioso o molto religioso.
Durante questi 70 anni di esistenza, il motivo principale che ha guidato il processo decisionale è stato la sopravvivenza dello stato, che produce un forte sentimento di nazionalismo nella società e si concentra sulla sicurezza e la difesa. L’attuale governo del primo ministro Benjamin Netanyahu è un esecutivo di destra; alcuni osservatori sostengono che è uno degli esecutivi più radicali e di destra della storia dello stato ebraico, rispecchiando la società israeliana che sta diventando progressivamente più nazionalista.
Questo cambiamento potrebbe essere stato causato dai recenti sviluppi regionali, ma anche dall’azione delle élite dominanti. Netanyahu è stato primo ministro del paese per quasi un decennio; il suo mandato si è caratterizzato per l’intenso focus sull’Iran e sul suo programma nucleare in quanto minacce per la sicurezza di Israele. Il suo approccio è centrato sull’Iran e sostiene la linea dura. Inoltre, ha fatto pressione sulla maggior parte della classe politica per far accettare questa narrazione, spingendo così l’intero sistema politico e i partiti centristi verso destra. Il 30 aprile del 2018 la Knesset ha approvato la riforma di una legge che permetteva al primo ministro e al ministro della difesa di dichiarare guerra in circostanze estreme.
Nonostante il peggioramento della situazione economica e l’aumento delle tensioni a Gaza, Netanyahu e il suo partito, il Likud, sono in crescita nei sondaggi. Con l’aumentare della violenza e dell’insicurezza, l’elettorato israeliano tende a votare per partiti di destra, infatti, dalla seconda intifada non c’è più stato un successo elettorale del partito laburista. Meno di un quarto degli israeliani crede che la pace sia possibile, per questa ragione non votano per partiti che possano portare avanti un processo di pace ma per formazioni politiche che possano proteggerli. Netanyahu padroneggia le crisi per generare supporto ed è attualmente il secondo più longevo primo ministro che Israele abbia mai avuto. Questa modalità di narrazione politica gli permette di costruire il suo culto della personalità e consolidare il suo status di uomo forte, ma potrebbe potenzialmente danneggiare il processo democratico. Accanto alla legge sulla dichiarazione di guerra, il governo sta attualmente cercando di presentare un disegno di legge che limiti le prerogative della Corte Suprema e dia alla Knesset la facoltà di annullarne facilmente le decisioni.
Iran, Hezbollah e l’ISIS sono minacce non realmente tangibili per la popolazione d’Israele, ma sono tuttavia onnipresenti e costantemente ricordate dallo stesso Netanyahu. Il primo ministro ha migliorato il rapporto con l’amministrazione degli Stati Uniti e le decisioni di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano e di spostare l’ambasciata a Gerusalemme sono state ampiamente attribuite a Netanyahu. Nonostante tutti i problemi interni, il suo status politico sembra essere forte. Inoltre, le statistiche indicano che meno della metà degli israeliani effettivamente supporta la soluzione dei due stati. All’inizio di quest’anno, il governo ha approvato ulteriori insediamenti in Cisgiordania, una tendenza che è in ripresa dal 2014, quando i negoziati di pace furono congelati. Molti dei più recenti progetti di edilizia abitativa sono anche situati molto all’interno della Cisgiordania, un fatto che provoca ancora più critiche e allarme, infatti, nel caso di un accordo di pace, la popolazione di questi insediamenti dovrebbe essere evacuata.
Il regno dell’Arabia Saudita è stato fondato agli inizi del secolo scorso. È stato creato unendo diversi territori precedentemente indipendenti che hanno mantenuto la loro identità regionale. Questo era un elemento inquietante per i leader del nuovo stato; temendone l’instabilità e un possibile intervento occidentale, hanno quindi sollecitato la diffusione di un’ideologia religiosa per unire tutto il regno e legittimarne i governanti. Il wahhabismo è un una dottrina sunnita fondamentalista, che ha le sue origini nel 18°secolo. È stata sviluppata da Muhammad ibn Abd al-Wahhab che predicava il ritorno alle radici della dottrina di Maometto, rifiutando tutti i nuovi elementi introdotti nell’Islam in seguito. È stata la sua alleanza politico-religioso con la famiglia Saud, durata per secoli, che alla fine ha plasmato l’Arabia Saudita, consolidato la sua identità collettiva e legittimato il dominio della famiglia reale.
Dal suo inizio, il wahhabismo è stato correlato al potere politico. L’Arabia Saudita è uno stato, ma non è davvero una nazione. L’ideologia religiosa è stata utilizzata per fornire una identità collettiva e valori nazionali. La costituzione dell’Arabia Saudita è il Corano, segue la sharia. L’istruzione è usata per promuovere i valori islamici. Ciò che minaccia la famiglia reale è spesso interpretato come una minaccia per l’Islam stesso. La famiglia reale ha il monopolio del potere e delle risorse, il che significa che ha bisogno di mantenere una competenza esclusiva. Nessun altro dominio religioso può pertanto legittimamente competere per la lealtà dei cittadini. Il regno saudita limita quindi rigorosamente tutte le minoranze religiose nel paese, in particolare gli sciiti che vivono nella provincia orientale, ricca di petrolio. Il wahabismo contesta la loro legittimità come musulmani e anche come arabi, limitandone il culto e l’espressione politica.
L’enfasi sulla stretta osservanza wahabita e sull’Islam, tuttavia, ha causato problemi alla famiglia reale. Si sono creati gruppi estremisti e fondamentalisti e il paese è vulnerabile alle critiche ogni volta che le sue decisioni non sono in linea con la sua ideologia. In diverse occasioni, nel corso della sua esistenza, vi è stata una lotta religiosa interna, quando i fedeli accusavano la monarchia di allontanarsi dal vero percorso religioso.
Finora, tutti i governanti sono stati figli di Ibn Saud, il primo re e padre fondatore dell’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman, l’attuale principe ereditario, è il primo della nuova generazione ad essere entrato nella linea di successione al trono. Negli ultimi anni, sotto l’influenza di Mohammed bin Salman, l’Arabia Saudita ha intrapreso un nuovo corso.
Mohammed bin Salman, figlio del re attuale, ha sostituito il cugino come nuovo principe ereditario nel giugno del 2017. Nominato ministro della Difesa nel 2015, è stata una sua decisione l’intervento nello Yemen a fianco degli alleati. Descritto come ambizioso, attivo, e spesso un po’ avventato nelle decisioni sia in politica interna sia estera, è l’autore di un grande piano d’azione, Vision 2030, che dovrebbe cambiare radicalmente l’economia saudita. Paladino della liberalizzazione culturale e sociale, ha attuato un giro di vite sui religiosi radicali e contro la corruzione nella sfera pubblica, anche se in genere si ritiene che quest’ultimo atto sia stato per lo più una mossa per un’ulteriore consolidamento del suo potere. In politica estera, sta assumendo una posizione molto più radicale verso l’Iran.
La sua leadership è uno dei motivi per cui un riavvicinamento ad Israele sembra fattibile. Allo stesso tempo, tutti i cambiamenti che sta progettando metteranno sotto pressione la società saudita, in particolare le parti conservatrici. Ha bisogno quindi di una regione e di un paese stabili.

I rapporti tra Arabia Saudita e Israele
Arabia Saudita e Israele non condividono un confine e non hanno mai combattuto una guerra aperta. Nonostante ciò, anche da lontano, l’Arabia Saudita ha giocato un ruolo importante nel conflitto israelo-palestinese. Piuttosto che fare affidamento sulla sua potenza militare, Riad ha usato modalità finanziarie per sostenere i vicini arabi che erano in prima linea nella lotta contro lo stato ebraico. Qualsiasi ostilità verso lo Israele è rimasta, tuttavia, su un piano completamente retorico. Come custode dei luoghi più sacri dell’Islam e uno dei più ricchi tra i paesi arabi, l’Arabia Saudita doveva assumere una posizione molto duttile, trovando un modo per mantenere la sua relazione con gli Stati Uniti, alleati di Israele. La relazione tra i due paesi si è tuttavia evoluta, fluttuando con l’avanzamento del processo di pace e influenzata dalla situazione geopolitica. Come alleati degli Stati Uniti, Israele e sauditi erano dalla stessa parte durante la Guerra fredda. Tuttavia, i sauditi erano e sono in molti modi vincolati dall’opinione pubblica araba.
Nei primi anni del conflitto israelo-palestinese, la partecipazione dell’Arabia Saudita è stata limitata. La popolazione saudita era indifferente alle lotte tra Israele e i suoi vicini e non vi erano motivi strategici per essere attivamente coinvolti nel conflitto. Le tensioni hanno iniziato a crescere nel corso degli anni Cinquanta, quando i trattati commerciali sulle armi tra Stati Uniti e sauditi sono diventati pubblici e Israele ha iniziato a criticarli. Nonostante i rapporti tesi, i due paesi sono stati in grado di trovare un terreno comune su alcuni problemi. Nel 1960, quando l’Egitto di Nasser ha supportato il nuovo governo ribelle yemenita e quindi ha minacciato i sauditi e gli interessi regionali britannici, entrambi i paesi si sono rivolti a Israele per lanci aerei segreti di rifornimenti e armi. I jet israeliani hanno utilizzato lo spazio aereo saudita al fine di eludere gli aerei egiziani che sorvegliavano il Mar Rosso.
La guerra dei Sei giorni del 1967 ha ridisegnato radicalmente la mappa del Medio Oriente. Pur non partecipando attivamente, è cambiato il ruolo degli Stati del Golfo nella regione. La sconfitta ha pesato molto su Egitto, Siria, Giordania e le loro economie, dando l’opportunità agli stati del Golfo di trasformare le loro nuove ricchezze in influenza geopolitica. I paesi del Golfo hanno iniziato a finanziare le parti che si contrapponevano ad Israele, spostando la leadership del mondo arabo dall’Egitto verso il Golfo e verso l’Arabia Saudita in particolare. Nel periodo successivo alla guerra, La Lega araba ha adottato la Risoluzione di Khartoum che conteneva i cosiddetti tre no – nessuna pace, nessuna trattativa e nessun riconoscimento di Israele.
Prima della rivoluzione islamica, Iran e Israele erano stretti alleati. Hanno avuto scambi commerciali aperti e hanno collaborato segretamente sulle questioni di sicurezza. Le relazioni di Israele con il Golfo erano molto più complicate, tuttavia, la rivoluzione khomeinista ha cambiato tutto. Con la caduta dello Scià, l’Iran adottò con veemenza una linea politica anti-occidentale e anti-israeliana. L’Iran si proclamava come l’ultimo difensore della Palestina, il leader dell‘asse della resistenza contro Israele e l’unica guida legittima del mondo musulmano.
I rapporti di Riad con gli Stati Uniti e le relazioni tra Washington e Israele avevano già reso l’Arabia Saudita un bersaglio delle critiche da parte dei paesi arabi radicali come la Siria, che la accusavano di tradimento. I sauditi hanno quindi utilizzato le loro finanze per provare di essere un alleato arabo affidabile contro Israele così come hanno usato l’arma del petrolio sugli alleati occidentali. I prezzi alle stelle del petrolio dopo la fine dell’embargo nel 1973 e l’influenza ritrovata è stata poi proiettata su Washington, dove praticamente nessuna decisione sul conflitto arabo-israeliano avrebbe potuto essere presa senza l’input saudita.
Dopo il trattato di pace tra Egitto e Israele, che è stato visto in gran parte del mondo arabo come un tradimento, i sauditi hanno presentato la loro versione di un piano di pace regionale – il piano Fahd. Il piano chiedeva il ritiro israeliano ai confini precedenti al 1967, compresa Gerusalemme Est, la creazione dello Stato palestinese e il diritto di tutti i profughi palestinesi al ritorno. C’era però un implicito riconoscimento di Israele e del suo diritto di esistere e vivere in pace con i suoi vicini arabi, elemento che provocò ampie polemiche. Il piano è stato finalmente adottato al vertice della Lega Araba, ma sono state apportate alcune modifiche per accogliere le voci più radicali della comunità araba. I sauditi si sono trovati in una posizione precaria, cercando di dimostrare agli Stati Uniti che potevano essere un partner affidabile nel processo di pace e nella crociata anti-comunista, mentre ricercavano il consenso di tutti gli Stati arabi, compresi quelli più radicali come la Siria, l’Iraq e la Libia.
La guerra del 1991 ha creato una frattura tra i sauditi e l’OLP di Arafat che aveva sostenuto l’invasione di Saddam. Tutti gli stati del Golfo hanno sostenuto i negoziati di pace, con la speranza che la risoluzione del conflitto avrebbe condotto alla necessaria stabilità regionale.
Il successo degli accordi di Oslo ha portato al miglioramento delle relazioni tra Israele e alcuni paesi del Golfo – in particolare l’Oman e il Qatar, paesi che hanno una lunga tradizione di indipendenza nel consiglio, dominato altrimenti dall’Arabia Saudita. Entrambi i paesi nel 1990 hanno visitato Israele e ospitato diplomatici israeliani così come hanno aperto degli uffici commerciali. Tuttavia, il partenariato ha come sempre oscillato in relazione all’evoluzione del processo di pace e, con il fallimento delle trattative, si è interrotto, così come la cooperazione.
Il processo tuttavia ha spinto i paesi del Golfo a considerare di rimuovere il loro divieto di fare affari con le aziende che hanno avuto rapporti commerciali con Israele. Il boicottaggio economico dello Stato ebraico era ed è ancora una pratica politica saudita di lunga data, anche se è spesso bypassata dalle aziende del settore privato.
Sulla scia degli attacchi dell’11 settembre, il re saudita Abdullah ha redatto una nuova proposta di pace – un’iniziativa araba di pace. Con la reputazione negli Stati Uniti appannata dagli attacchi, dato che un gran numero dei dirottatori provenivano dall’Arabia Saudita, Riad sperava di presentarsi come un promotore della pace agli occhi statunitensi. Tuttavia, ancora una volta, ha dovuto essere in accordo con tutti i suoi partner arabi e con le loro posizioni. Pertanto, accanto alla consueta richiesta ad Israele di tornare ai confini precedenti il 1967 e l’istituzione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, l’iniziativa comprendeva anche il ritorno di tutti i rifugiati e il ritiro israeliano dal Golan e dai territori contestati sui confini libanesi. Anche se il piano è stato pensato per essere solo la base della trattativa, non è stato accettato da Israele, ma ha segnalato comunque un importante cambiamento nell’approccio saudita allo stato ebraico, dato che offriva una pace completa e la normalizzazione dei rapporti nel caso in cui le richieste fossero state soddisfatte.
Nonostante le differenze, i due paesi hanno qualcosa in comune. Specificamente, la loro apprensione e diffidenza verso l’Iran. Uno degli obiettivi principali del regime iraniano è la distruzione di Israele. Esso si definisce come il leader dell’asse di resistenza contro lo stato ebraico, inoltre, è anche un aspro critico del re saudita per le relazioni con gli Stati Uniti.
L’invasione dell’Iraq e la caduta di Saddam hanno dato all’Iran un’apertura strategica per guadagnare influenza e sfidare il primato degli Stati Uniti e dei paesi del Golfo nella regione. L’Iran ha utilizzato i legami politici, economici e culturali per creare e coltivare i rapporti con la maggioranza sciita in Iraq. Il regime iraniano ha sostenuto le milizie sciite nella loro lotta contro i sunniti e gli americani. Ha trovato la sua strada in Afghanistan, Yemen, Libano e Palestina. La guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele era in per molti versi una guerra tra Iran e Israele, che hanno combattuto attraverso una guerra per procura. Il crescente potere di Teheran in tutto il Medio Oriente ha allarmato i sauditi, molto attenti ai pericoli di una mezzaluna sciita. La retorica settaria e la diffusione della paura hanno portato alcuni analisti a cominciare a parlare di una “guerra fredda” arabo-iraniana.
Inoltre, l’Iran ha approfittato della politica incerta dell’America in Siria, con la Russia, Hezbollah e con le altre milizie sciite che hanno mantenuto Assad al potere. Il regime degli ayatollah è stato in grado di stabilire una presenza militare sui confini di Israele oltre a mantenere e rafforzare il corridoio sciita. Questo è stato naturalmente uno sviluppo preoccupante sia per i sauditi sia per gli israeliani. Entrambi i paesi sono anche minacciati dagli Houthi yemeniti, un’altra formazione legata all’Iran. Dall’inizio della guerra civile, gli Houthi hanno sparato decine di missili verso il territorio saudita e hanno minacciato che, in caso di una guerra tra Israele e Hezbollah, i loro combattenti si sarebbe uniti alla milizia sciita libanese.
Israele e Arabia Saudita ora condividono un certo numero di interessi nell’ambito della sicurezza, ad un livello che è senza precedenti. Il vuoto di potere lasciato dalla politica di Obama è stato riempito da Iran e Russia e l’amministrazione Trump, anche se forte e apparentemente dura, non ha messo ancora a punto una politica globale per il Medio Oriente o l’Iran stesso. Di conseguenza, non sorprende che Israele e Arabia Saudita siano alla ricerca di nuovi possibili alleati.
Due fattori hanno spinto Israele e Arabia Saudita vicini l’uno all’altro. Il primo, il graduale allontanamento degli Stati Uniti sotto il presidente Trump dai problemi dell’Asia occidentale. Alcuni analisti hanno sostenuto che Arabia Saudita e Israele condividono la delusione verso gli Stati Uniti; considerano il ruolo sempre minore degli Stati Uniti in Medio Oriente come via di sbocco per il dominio russo-iraniano nella regione. Il secondo elemento chiave è l’accordo nucleare iraniano. Israele e Arabia Saudita sono d’accordo e hanno enunciato in vari forum regionali e internazionali che l’Iran non dovrebbe mai essere autorizzato a diventare una potenza nucleare. Entrambi i paesi hanno insistentemente chiesto al presidente Trump di abolire l’accordo sul nucleare, se le condizioni imposte all’Iran non potessero essere rafforzate. In effetti, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo. Tuttavia, la crescente incertezza sulle sfaccettature del patto internazionale che avrebbe frenato il progetto nucleare iraniano sta rendendo nervosi Israele e Arabia Saudita. Di fatto, l’Arabia Saudita, che è firmataria del trattato di non proliferazione, ha minacciato di acquisire armi nucleari con il sostegno segreto di Israele.
Il riavvicinamento tra i due paesi non è del tutto alla luce del sole. Non hanno relazioni diplomatiche ufficiali. Gli eventuali legami spesso non sono discussi apertamente, anche se gli israeliani non stanno cercando di nasconderli. I sauditi hanno bisogno di essere più attenti, con gli occhi del mondo islamico su di loro. Ci sono tuttavia piccoli segnali che dimostrano che i due paesi si stanno riavvicinando. Nel settembre del 2017, per esempio, il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane Gadi Eizenkot ha rilasciato un’intervista al sito di notizie saudita Elaph, la prima volta per un funzionario israeliano. Eizenkot ha detto che Israele e l’Arabia Saudita condividono le stesse opinioni per quanto riguarda l’Iran e che Israele è pronto a condividere le informazioni con i sauditi se necessario. L’Arabia Saudita ha anche consentito alle compagnie aeree indiane di raggiungere Tel Aviv attraversando il suo spazio aereo, un cambiamento significativo nella vecchia prassi politica.
In una recente intervista concessa a The Atlantic, il principe ereditario Mohammed bin Salman ha dichiarato che credeva che gli Ebrei avessero diritto ad un loro stato. I due paesi hanno sollevato punti quasi identici durante varie trattative diplomatiche, in particolare per quanto riguarda l’accordo nucleare iraniano a cui si sono sempre opposti. Diversi funzionari israeliani hanno dichiarato che in effetti hanno delle relazioni segrete e parlano con i paesi arabi. Il ministro dell’energia israeliano Steinitz ha riferito alla Reuters che è “l’altra parte interessata a mantenere legami segreti. Con noi, di solito, non c’è nessun problema, ma noi rispettiamo il desiderio dell’altro, quando i legami si stanno sviluppando, sia che si tratti con l’Arabia Saudita o con altri paesi arabi o con altri paesi musulmani, e c’è molto di più … (ma) lo teniamo segreto.”
Se consideriamo i conflitti in atto, entrambi i paesi possono ottenere dei benefici da una normalizzazione dei rapporti.
Israele è nel cuore del conflitto del Levante; avere un forte alleato arabo rappresenterebbe un vantaggio, in quanto la sua sicurezza complessiva aumenterebbe, ribadendo ulteriormente il suo diritto di esistere. In generale, costituirebbe un aiuto per stabilizzare la regione. Tuttavia, è importante evidenziare che anche senza alleati arabi, Israele è stato in grado di sopravvivere per 70 anni e diventare una delle potenze economiche e militari della regione. Il prezzo della normalizzazione sarebbe molto probabilmente un accordo di pace con i palestinesi. I negoziati sono stati congelati per quattro anni, la parte palestinese è divisa e non c’è la volontà politica o un sostegno generalizzato dell’opinione pubblica israeliana ad una riattivazione del processo di pace. I guadagni di una normalizzazione non sono necessariamente sufficienti per giustificare un accordo di pace, non quando Israele ha vissuto all’interno del conflitto per 70 anni e rimane uno stato forte. Potrebbe usare l’Arabia Saudita come alleato, ma non ne ha davvero bisogno.
Per i sauditi, il nucleo del conflitto è contrastare l’Iran e, finora, non sono stati in grado di farlo. Non hanno le capacità per bloccare la sua influenza nella regione. Con l’aiuto di Israele, tuttavia, ciò potrebbe cambiare, dando ai sauditi un vantaggio tattico sbilanciando il potere regionale a loro favore.
I governi di Tel Aviv e di Riad sono concordi sulla minaccia dell’Iran e unendo le loro risorse e capacità potrebbero spostare l’asse del potere geopolitico a vantaggio dei sauditi. La normalizzazione sarebbe molto vantaggiosa per l’Arabia e per il suo ruolo nel Golfo. Ma è l’esistenza del conflitto nel Levante che lo rende impossibile o almeno incredibilmente costoso. L’Arabia Saudita non può essere un attore diretto nel conflitto del Levante, non ha mai combattuto una guerra con Israele, anche se il suo status di paese leader del mondo musulmano e la natura wahhabita del regime dimostrano che è parte di esso. Il costo politico interno di una normalizzazione con Israele senza un accordo di pace per il conflitto israelo-palestinese (e forse anche con esso) è troppo alto. Anche se il conflitto del Golfo ha guadagnato la priorità agli occhi della classe dirigente a Riad, non può essere così per la popolazione saudita e musulmana in tutto il mondo. L’alleanza con Israele potrebbe rafforzare l’Arabia Saudita militarmente ma indebolirla politicamente. A causa dell’esistenza dei conflitti, la normalizzazione sarebbe positiva e utile – per i sauditi per affrontare il conflitto nel Golfo e per gli israeliani per migliorare la loro situazione nel Levante.
Le recenti crisi in Medio Oriente hanno modificato il contesto geopolitico. In primo luogo, l’invasione degli Stati Uniti ha cancellato l’Iraq come potenza regionale e lo ha trasformato in uno stato debole bloccato in lotta settaria. Questo, insieme con i successivi eventi come la Primavera araba, la guerra civile siriana e yemenita hanno portato l’Iran a guadagnare maggiore influenza spostando l’equilibrio regionale del potere a suo vantaggio. Ciò che preoccupa l’Arabia Saudita e Israele è che l’Iran sia riuscito a stabilire potenti collegamenti vicino ai loro confini, minacciando la loro sicurezza nazionale. Con gli Stati Uniti che lentamente si stanno sfilando dal Medio Oriente, concentrandosi su nuove regioni, i due paesi si sono trovati potenzialmente bisognosi di nuovi alleati e le antiche inimicizie regionali hanno cominciato a modificarsi.
L’area è comunque un complicato groviglio di vari interessi, ideologie e credenze, per cui mettere in atto qualsiasi nuova relazione è difficile e potenzialmente pericoloso.
Dal punto di vista economico, la normalizzazione sarebbe piuttosto positiva per entrambi i paesi. L’Arabia Saudita ha preso parte al boicottaggio di Israele promosso dalla Lega Araba sin dal suo inizio. Perciò ufficialmente, ci potrebbero essere alcuni scambi commerciali tra i due paesi. Le regole sono state comunque spesso eluse da parte del settore privato e i reali calcoli del livello del PIL mancante a causa del boicottaggio sono quindi difficili da quantificare. In generale, si ritiene che entrambi i paesi potrebbero trarre profitto da relazioni commerciali aperte, anche dal punto di vista tecnologico. I sauditi beneficerebbero del know-how tecnologico israeliano e Israele in cambio potrebbe prendere parte ai progetti del nuovo principe ereditario.
La normalizzazione può produrre affettivamente dei vantaggi economici, ma non è certo la ragione principale alla base delle nuove relazioni. Le vere ragioni sono puramente pratiche, riguardando la sicurezza e l’interesse nazionali. I due paesi condividono le stesse opinioni per quanto riguarda l’Iran, il suo programma nucleare e la sua crescente influenza nella regione. I sauditi non hanno le capacità o l’esperienza per contrastare Teheran. Nell’ambito della sicurezza, ora che gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla regione, l’Arabia Saudita ha molto da guadagnare dal miglioramento delle relazioni con Tel Aviv. Israele ha i mezzi, l’intelligence e l’esperienza per condurre una campagna globale contro l’Iran, riducendone l’influenza e il potere nel complesso, conferendo maggiore influenza proprio all’Arabia Saudita.
Anche se la normalizzazione e l’alleanza contro l’Iran avverrebbero dal punto di vista militare e della politica estera, potrebbero essere molto negative a livello interno, soprattutto per i sauditi. L’Arabia Saudita si presenta come leader del mondo musulmano e custode dei suoi luoghi più sacri. La sua ideologia wahhabita unisce e definisce il regime e legittima la famiglia reale, ciò significa che la famiglia reale è strettamente vincolata ad essa. L’alleanza con Israele aiuterebbe Riad dal punto di vista militare, ma la indebolirebbe politicamente, aprendola alle critiche dell’élite conservatrice, dei gruppi radicali e dei regimi di tutto il mondo e dell’Iran stesso che potrebbe rappresentarla come traditrice della fede, qualificandosi come l’unico difensore rimasto della causa palestinese.

L’omicidio Khashoggi
In conclusione, risulta importante soffermarsi sull’omicidio del giornalista saudita Khashoggi, l’ennesimo evento che può cambiare ancora l’equilibrio in un Medio Oriente mai così instabile.
Il crudele omicidio e i tentativi dilettantistici del regime di coprirlo hanno causato danni incommensurabili al prestigio internazionale dell’Arabia Saudita e del suo principe ereditario di fatto, Mohammed bin Salman.
Il fatto che gli Stati Uniti e altri paesi occidentali stiano considerando di punire Riad – la Germania ha già congelato le consegne di armi al regno – getta un’ombra profonda non solo sul rapporto segreto di Israele con il regno ma anche sugli sforzi internazionali per tenere sotto controllo l’Iran.
Per prima cosa, i leader americani e israeliani speravano che MBS – come il principe ereditario è noto – e la sua apparente disposizione pro-Israele potessero aiutare a costringere i palestinesi a fare le concessioni necessarie per la pace con Israele. Inoltre, l’erosione della posizione internazionale di Riad potrebbe influenzare negativamente il suo ruolo di principale potenza regionale che si oppone all’Iran.
“Israele si trova in una situazione molto difficile”, ha detto Dan Shapiro, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele. “Vuole e ha bisogno dell’Arabia Saudita come un’ancora affidabile di questa coalizione regionale per affrontare l’aggressione iraniana, ed è di fronte alla realtà che l’attuale leadership saudita si è dimostrata incapace di svolgere tale ruolo”.
Nessun altro paese arabo potrebbe sostituire l’Arabia Saudita nella coalizione anti-Iran della regione, ma MBS ha dimostrato di essere “estremamente imprudente, impulsivo e inaffidabile”, ha aggiunto Shapiro, oggi membro dell’Institute for National Security a Tel Aviv.
L’omicidio di Khashoggi e le continue bugie su di esso sono solo l’ultima serie di decisioni sbagliate prese dal principe ereditario, ha detto Shapiro, che menziona il bombardamento dello Yemen senza preoccupazione per le vittime civili, l’imposizione di un assedio al Qatar e la detenzione del primo ministro libanese Saad Hariri.
MBS “agisce frequentemente su conoscenze limitate e scarso giudizio” e i vari scandali che hanno trascinato il suo paese indeboliscono il regno e minano le relazioni con gli alleati, ha continuato Shapiro.
Secondo l’ex diplomatico, gli Stati Uniti non dovrebbero interrompere i rapporti con il regno saudita, in quanto svolge un ruolo fondamentale negli sforzi americani per frenare l’Iran. Tuttavia, “fino a quando non ci sarà un cambio di leadership saudita, o almeno un cambiamento nello stile della leadership saudita, la capacità del paese di svolgere questo ruolo è significativamente indebolita”.
La prospettiva di un indebolimento della leadership saudita nella regione altera significativamente la strategia geopolitica intrapresa dallo Stato ebraico, ma in base all’analisi effettuata, è possibile affermare che, nonostante l’assenza di un’Arabia Saudita forte come alleata, Israele riuscirà a mantenere una posizione di rilievo nel complicato scacchiere mediorientale, dato che ne è a tutt’oggi una tra le maggiori potenze militari e economiche.

 

 

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