In libreria: “Nera” d’antan

di Paolo Maria Di Stefano –

 

delitttiSembra che l’estate sia la stagione più propizia per la lettura di libri gialli, di cronaca nera, di misteri in genere. Personalmente, non si tratta della letteratura che io preferisco, ma questo non ha alcuna importanza: il libro “giallo” e la letteratura “nera” in qualche modo impegnano più di un momento di chi, in vacanza, cerca di distendersi.
E allora, ecco un suggerimento: i venti casi di cronaca, ovviamente nera, raccontati da un cronista di grande rilievo, che della cronaca, ovviamente nera, ha fatto la sua professione negli anni numerosi trascorsi con successo al “Giorno”, ovviamente come cronista, ovviamente di cronaca nera.
Non stupisca questo mio insistere sul nero ovvio della cronaca. I fatti che ne sono da sempre oggetto lo sono, a mio parere, proprio perché solleticano l’interesse più o meno morboso del pubblico in genere, dei lettori dei quotidiani in particolare e, oggi, anche di coloro che si incollano agli schermi della televisione e/o dei computer, personali o meno. Cosa che non avviene – almeno non nella stessa misura – per gli accadimenti che neri non sono e che, per questo, vengono catalogati come materia di una cronaca bianca che pare interessare poca gente e che non incrementa le vendite dei giornali così come non contribuisce se non in modo del tutto trascurabile al livello degli indici di ascolto.
Personalmente il colore della cronaca non mi interessa più che tanto, nera o bianca o diversamente colorata che sia.
Ma una cosa a me pare incontestabile: cha la cronaca è sempre stata, è ancora e sempre sarà il fondamento di quella che chiamiamo storia e che, forse anche per il prevalere del nero della cronaca, è da sempre racconto – in qualche modo filtrato e stabilizzato – di un susseguirsi di fatti violenti, di manifestazioni di prepotenze, solo a tratti brevissimi intervallati da episodi che io definisco “più civili”. O “meno incivili”.
Certo è che quando Moroni narra del “lago rubato” (p. 53) immerge il lettore in quel mare di corruzioni, di esercizi distorti del potere che oggi ancora permeano politica ed economia; e quando fa riferimento a Cesare Lombroso “l’inventore della antropologia criminale, cioè della moderna criminologia” (p.77) lumeggia il modo di lavorare di scienziati di ieri e di oggi: attaccarsi a fatti di cronaca per porsi quali protagonisti di indagini e di conclusioni quanto meno discutibili.
E sempre nella cronaca – nera, ovviamente – l’Autore sembra lanciare un flash sui delitti della Politica. “(Omissis) L’Italia ha già avviato il progressivo avvicinamento che alla fine porterà il gabinetto Salandra a schierarsi con le potenze dell’Intesa. Un capovolgimento di fronte che avrebbe trovato nel generale Alberto Pollio uno strenuo oppositore e un irriducibile paladino dell’alleanza con gli imperi centrali. Un baluardo. Forse l’ultimo. La morte del generale è uno dei Grandi misteri d’Italia.” (p.169).
E un mistero sembra la morte di Anita Garibaldi. E poi, la narrazione di delitti orrendi nella zona di Bottanuco, quattro passi da Bergamo, ad opera di uno “squartatore di donne”.
Venti episodi di cronaca – ovviamente nera – alcuni di non facilissima lettura, tutti documentati secondo i principi che fanno di un cronista – ovviamente di nera – un professionista anche degno di fede.
Gabriele Moroni, Delitti e vecchi merletti: casi di cronaca nera che hanno fatto la storia – Mursia, Milano 2018, pp. 229, euro 16,00

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E. Ciconte, La grande mattanza: storia della guerra al brigantaggio – Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 286, euro 20,00
Chi sono i banditi? Criminali comuni, assassini, ladri, disperati. E ancora: nobili decaduti, artigiani, contadini, giovani ribelli che non accettano il giogo attorno al collo, sia quando viene da un aristocratico del luogo sia quando arriva da un invasore straniero. La loro presenza causa incertezza nelle strade, difficoltà nelle comunicazioni, violenza diffusa. E tuttavia, quando c’è aria di mutamenti di regime essi rappresentano un’opportunità per i potenti che li utilizzano contro i propri nemici. Il libro offre un ampio affresco della reazione ai fenomeni di banditismo dagli albori dell’età moderna fino alla repressione messa in atto nei primi decenni dell’Italia Unita. Emerge un quadro complesso che vede al centro questioni sociali legate alla terra. La lotta del regno sabaudo contro il brigantaggio propriamente detto è quindi solo l’ultimo capitolo di una secolare storia di sanguinose repressioni, in cui i poteri statali che si sono via via avvicendati non sono stati in grado di trovare altra risposta che non fosse il sangue. Certo, è soprattutto in uno stato che si definisce liberale che colpisce la delega assoluta concessa ai militari che governano con leggi eccezionali, stati d’assedio e tribunali militari. Ma Enzo Ciconte ci ricorda che quanto è accaduto nel Mezzogiorno non può essere attribuito alla responsabilità dei soli piemontesi: le truppe venute dal Nord sono state aiutate con le armi da tanti meridionali espressione di una borghesia in ascesa.

I. Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana – Rizzoli, Milano 2018, pp. 672, euro 25,00
Ci sono pagine della storia d’Italia che conosciamo ormai a memoria, e altre su cui ancora non è stata scritta la parola “fine”. E poi ci sono le pagine dimenticate, relegate all’oblio perché troppo dolorose. Anche quelle, però, fanno parte del nostro passato. In questo caso, del nostro passato di “potenza coloniale”.La mattina del 19 febbraio 1937, ad Addis Abeba, il viceré Rodolfo Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo dell’Etiopia celebrano la nascita del primo figlio maschio del principe Umberto di Savoia. Ma un gruppo d’insorti riesce a superare i controlli e, all’improvviso, otto bombe a mano seminano il caos tra quei notabili. Di fronte al bilancio — sette morti e decine di feriti, compreso lo stesso Graziani — il Duce ordina la repressione: “Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi”. È così che si scatena uno dei massacri più ignobili della parentesi coloniale italiana: giorni di terrore, tra omicidi e saccheggi, durante i quali migliaia di innocenti vengono trucidati con sistematica brutalità. Repressione che culmina, nel maggio dello stesso anno, con l’eccidio di centinaia di monaci, preti e pellegrini cristiani della Chiesa copta, tutti disarmati, radunati nel monastero di Debra Libanos. Intanto, le Camicie nere ne approfittano per azzerare l’intellighenzia etiope, in un vero e proprio pogrom.Con precisione accademica e passo narrativo, Ian Campell ricostruisce in questo saggio una delle atrocità meno conosciute del regime fascista, analizzandone premesse e conseguenze, senza fare sconti a nessuno. Perché è venuto il momento di guardare in faccia la realtà e l’orrore di quanto accaduto, per non dimenticare né le vittime né i carnefici.

S. Di Filippo, Ogni viltà convien che qui sia morta. I reparti d’assalto italiani nella grande guerra attraverso le parole e le immagini dei periodici illustrati e dei giornali di trincea – Italia storica, pp. 210, euro 26,00
“La Domenica del Corriere”, “L’Illustrazione Italiana” e “La Tribuna Illustrata” furono i periodici più letti all’inizio del Novecento nel territorio nazionale. Essi rispecchiavano i costumi di una società unitaria ancora in fase embrionale e catalizzavano i gusti, le aspettative e le notizie dominanti. Nel 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, servirono come canale di propaganda per indirizzare il consenso della popolazione. Scopo di questa ricerca è l’individuazione della figura dell’Ardito assaltatore – la nuova tipologia di soldato offensivo che fu creata durante il 1917 con lo scopo di modificare le sorti di una guerra compromessa dopo Caporetto – nella rappresentazione dei periodici dell’epoca. La consultazione dei periodici del tempo è circoscritta ad un arco temporale compreso tra la creazione dei Reparti d’Assalto, e quindi con l’entrata in scena della figura dell’Ardito cioè di un soldato volontario, opportunamente addestrato ad essere prettamente offensivo ed aggressivo che marcatamente si differenziava dai soldati dell’esercito regolare, alla battaglia di Vittorio Veneto con la vittoria finale della guerra da parte del Regio Esercito Italiano.

G. Brunelli, La santa impresa: le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601) – Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 204, euro 14,00
Le spedizioni che tra Cinque e Seicento presero via in Ungheria contro i Turchi costarono la vita a Giovan Francesco Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII. Tre campagne militari a sostegno dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo porteranno gli eserciti pontifici dalla gloria alla ritirata tra la neve.
L’attenzione dell’autore, che ha riconsiderato l’intera vicenda alla luce di nuovi dati emersi tra le fonti vaticane, si ferma alle poche operazioni condotte sul campo: la vittoriosa presa di Strigonia nel 1595; l’inconcludente assedio di Giavarino del 1597; la durissima campagna sotto Canisa nel 1601. Per il Papa e la sua segreteria prendeva forma l’antico sogno crociato ma con nuovi obiettivi: non piú quello, irraggiungibile, di riconquistare Gerusalemme, ma quello di fermare l’avanzata turca e contrattaccare puntando direttamente a Costantinopoli, capitale dell’impero del Sultano dal 1453.

S. Valzania, La sconfitta di Farsalo. Pompeo e Cesare: la fine della Repubblica – Salerno editrice, pp. 180
Farsalo, 9 agosto 48 a.C.: da una parte l’esercito dei populares di Cesare, dall’altra quello degli optimates di Pompeo. Le sorti di Roma si decidono in battaglia.
Ma cosa aveva portato i due triumviri allo scontro frontale? Quali strade si dividono in Tessaglia? Pompeo uscirà sconfitto dalla lotta per il potere innescata dalla crisi delle istituzioni repubblicane, mentre la vittoria di Cesare aprirà un nuovo capitolo nella sanguinosa rivoluzione romana, che porterà alla definizione dell’impero sotto il segno del Principato. Ma la guerra civile avrebbe potuto prendere una piega diversa: il disegno del Nuovo Alessandro, l’uomo che aveva liberato il  Mediterraneo dai pirati, contrastava quello del console che aveva conquistato la Gallia.
Non si trattava soltanto di due caratteri diversi, ma di due opposte visioni di Roma e di quello che sarebbe diventato l’impero dei cesari. A Farsalo non si compie solo il destino di due condottieri, ma quello della città piú potente al mondo.

M. Strazza, Il Cristianesimo antico. Nascita e mutamenti di una religione – Edizioni Saecula, pp. 196, euro 18,00
È dal I al IV sec. d.C. che il Cristianesimo si sviluppa in maniera decisiva, modificando le proprie strutture organizzative di pari passo con la costruzione di un impianto dottrinario che utilizza modelli teoretici e linguaggi della filosofia greca, filtrati e reinterpretati alla luce della verità rivelata.
Questo incontro con la cultura grecoellenista comporta sia un definitivo distacco dalla tradizione giudaica, sia l’inizio del lungo cammino di ellenizzazione della nuova religione, con l’assorbimento della cultura greca nella nascente teologia cristiana. Tutto questo non può non avere conseguenze sulla stessa trasmissione della figura di Gesù e, quindi, del contenuto del suo messaggio. L’autore esplora, in questo saggio, quanto del Cristianesimo sia rimasto fedele all’insegnamento originale e alla predicazione delle prime comunità, quanto sia il prodotto di una complessa interpretazione dottrinaria e, infine, quanto costituisca la conseguenza di un raffinato processo di ellenizzazione, interrogandosi sui rapporti tra il Cristianesimo e le altre culture religiose e filosofiche, tra una religione e l’ambiente socio-culturale della sua propagazione.

E. Carrère, Un romanzo russo – Adelphi, Milano 2018, pp. 283, euro 19,00
«La follia e l’orrore hanno attanagliato la mia vita» scriveva Carrère presentando Un romanzo russo ai lettori francesi. «Di questo, e di nient’altro, parlano i miei libri». Un giorno, però, dopo aver concluso la stesura dell’Avversario, alla follia e all’orrore decide di sfuggire. Trova un nuovo amore e accetta di realizzare un reportage su un prigioniero di guerra ungherese dimenticato per più di cinquant’anni in un ospedale psichiatrico russo. Arriva così in una cittadina a ottocento chilometri da Mosca, dove tornerà poi una seconda volta, ad aspettare, quasi in agguato, che accada qualcosa. Qualcosa accadrà: un delitto atroce. La follia e l’orrore l’hanno dunque «riagguantato». Anche nella vita amorosa: un racconto erotico scritto per gioco, per «fare irruzione nel reale», precipita lui e la sua compagna in un incubo destinato a devastare le loro vite e il loro amore. Nel frattempo, il viaggio in Russia ha messo fatalmente in gioco le sue origini e il suo rapporto con la lingua della madre – e così Carrère comincia a indagare su quello che, non solo implicitamente, gli «è stato proibito raccontare»: la storia del nonno materno, il quale, dopo un’esistenza segnata dal fallimento e dalle umiliazioni, è scomparso nell’autunno del 1944, ucciso probabilmente per aver collaborato con l’occupante. «È il segreto di mia madre, il fantasma che ossessiona la nostra famiglia». Per esorcizzare quel fantasma lo scrittore compie «un oscuro percorso nell’inconscio di due generazioni», che lo porterà alla resa dei conti con un retaggio «di paura e di vergogna» e al tempo stesso alla riconciliazione con l’incombente genitrice – e marcherà la disfatta (sia pur soltanto provvisoria) di quel nemico ghignante, crudele e mostruoso che da sempre lo assedia.