IL TRICOLORE SU GORIZIA (II)

di Roberto Poggi -

Domenica 6 agosto, alle 7 precise, la quiete di una mattina limpidissima fu squarciata dal fragore di tutte le artiglierie schierate attorno a Gorizia. L’attacco italiano, frutto di un’efficace cooperazione tra l’artiglieria e l’aviazione, colse di sorpresa il comando austroungarico. L’8 agosto, dopo un audace colpo di mano al sottopasso di Piedimonte, le truppe italiane entravano in città.

Mentre un reticolo di camminamenti, di ricoveri e di posti di osservazione ricopriva le pendici del Sabotino dalla vetta alla base, stringendo d’assedio le posizioni austroungariche, la riflessione sull’impiego dell’artiglieria a sostengo dell’attacco travolgente della fanteria si sviluppava e si precisava. Già a partire dal mese di marzo del 1916 Cadorna, studiando la nuova offensiva era giunto all’innovativa, e finalmente razionale, conclusione secondo cui occorreva concentrare le forze contro il pilastro del Sabotino, anziché disseminare uomini e mezzi sopra una serie di obiettivi. Aveva individuato la chiave del successo nello schieramento di una massa imponente di artiglieria, capace di entrare in azione contemporaneamente e di sorpresa, anche incrociando i fuochi tra le zone dei diversi corpi d’armata. Grazie ad una accurata e minuta preparazione di servizi di osservazione e di collegamento ogni pezzo avrebbe dovuto raggiungere il massimo rendimento e la massima precisione su bersagli predefiniti. Il lancio di un elevato tonnellaggio di proiettili nell’unità di tempo avrebbe sconvolto le retrovie austroungariche e demolito le difese della prima linea, aprendo alla fanteria ampi varchi attraverso cui irrompere. Cadorna aveva preso atto dell’impossibilità di ridurre al completo silenzio l’artiglieria nemica ed aveva raccomandato di riservare il tiro di controbatteria alla fase risolutiva dell’assalto. Prima di allora le bocche da fuoco italiane avrebbero dovuto demolire gli ostacoli allo sbalzo della fanteria.

Nelle settimane successive queste osservazioni furono condivise con i comandanti di armata e confluirono in una nuova dottrina organica sull’impiego offensivo dell’artiglieria. Secondo una logica di progressiva assunzione del predominio tattico, si delinearono tre diverse fasi di intervento dell’artiglieria. Prima un tiro preciso e selettivo avrebbe dovuto colpire i posti di comando e gli osservatori nemici, al fine di creare caos e disorientamento. Mentre i comandi austroungarici venivano isolati ed accecati i cannoni italiani avrebbero dovuto prendere di mira anche capisaldi, fortini e centri di fuoco blindati. Poi i colpi avrebbe dovuto concentrarsi nelle zone di irruzione della fanteria per spianare i reticolati, le trincee ed i camminamenti. A tal scopo acquistò credito l’idea di fare ampio ricorso alle bombarde, mortai che lanciavano a breve distanza, con traiettoria molto curva, grandi quantità di esplosivo capaci di sradicare i paletti dei reticolati. Infine, nella terza fase, l’artiglieria avrebbe dovuto fornire copertura durante l’assalto dei fanti, creando una cortina di fuoco mobile e di interdizione. Le aree di afflusso dei rinforzi austroungarici, cioè i ponti, i passaggi obbligati, l’imboccatura di caverne e ricoveri, le batterie in grado di molestare le colonne di fanteria in movimento e gli ostacoli residui rimasti sul terreno sarebbero diventati i bersagli principali. L’avanzata dei fanti sotto l’arco della traiettoria dell’artiglieria imponeva una perfetta coordinazione tra le due armi, garantita dalla presenza di ufficiali di collegamento di artiglieria presso i comandi di fanteria e viceversa.

Il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf

Il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf

Alla metà di maggio, quando i lavori di scavo sul Sabotino erano quasi ultimati e negli alti comandi la riflessione sull’impiego offensivo dell’artiglieria si era già trasformata in dottrina, il feldmaresciallo Conrad diede avvio in Trentino alla Strafexpedition, la spedizione punitiva contro l’alleato fedifrago. Cadorna, che aveva escluso, giudicandola illogica, una grande offensiva austroungarica sugli altipiani trentini, fu colto di sorpresa e per arginare lo sfondamento delle linee dovette impegnare le sue sette divisioni di riserva, oltre alle otto recentemente costituite con i coscritti della classe 1896, alle due richiamate dall’Albania ed alle dieci sottratte dal fronte isontino. Con queste ingenti forze formò la 5ª armata, agli ordini del generale Frugoni, e la schierò nella pianura tra Padova, Treviso e Vicenza. Così come Joffre, anche Cadorna non esitò a fare appello agli alleati nel momento in cui l’intero fronte dell’Isonzo rischiava di essere colpito alle spalle dall’ardita manovra austroungarica. All’inizio di giugno le armate russe, guidate dal generale Brussilov, scatenarono una poderosa offensiva in Galizia, costringendo Conrad ad allentare la pressione sugli altipiani trentini prima di essere riuscito a sfondare le ultime linee italiane a difesa della pianura vicentina.
Dopo aver scampato per un soffio il pericolo della rottura del fronte trentino, Cadorna passò alla controffensiva, senza tuttavia riuscire ad infliggere perdite rilevanti alle truppe asburgiche che effettuarono una ordinata ritirata strategica su di una linea ancorata a formidabili capisaldi. Nonostante la fragilità dell’equilibrio raggiunto nello scacchiere trentino e la gravità delle perdite subite nel corso della Strafexpedition, oltre 15.000 morti, 76.000 feriti e 55.000 prigionieri, Cadorna ritenne opportuno riprendere al più presto l’iniziativa sul fronte dell’Isonzo. A partire dalla fine di giugno incominciò a predisporre la concentrazione di tutte le artiglierie disponibili per sfondare le difese austroungariche nel tratto Sabotino-Podgora.

La tenacia offensivista del “generalissimo” fu sottovalutata da Conrad che ancora alla fine di luglio pensava che le energie combattive degli italiani fossero tanto fiacche dopo la Strafexpedition da rendere improbabili nuove iniziative sull’Isonzo prima della metà di agosto o comunque prima che la Romania entrasse in guerra a fianco dell’Intesa. L’ottimismo di Conrad era pienamente condiviso dal generale Zeidler, comandante della 58ª divisione posta a difesa della testa di ponte di Gorizia. L’abilità degli italiani nel camuffare i loro imponenti lavori di approccio e la concentrazione delle artiglierie in vista dell’assalto lo aveva tratto in inganno a tal punto da spingerlo a concedersi una licenza all’inizio di agosto. Dal giugno del 1915, con un organico di non più di 6000 uomini, Zeidler era riuscito a respingere tutti i massicci attacchi italiani sfruttando abilmente la solidità dei suoi trinceramenti, la superiorità dei suoi osservatori e la micidiale potenza delle bocche da fuoco poste alle spalle del Sabotino, pertanto si illudeva di non avere nulla di cui preoccuparsi.

Monumento ai caduti sul Monte San Michele

Monumento ai caduti sul Monte San Michele

Il 31 luglio 1916, il duca d’Aosta, comandante della IIIª armata, a cui dal mese di febbraio era stato assegnato il tratto di fronte dal settore del Sabotino sino al mare, inviò ai suoi subordinati il piano generale dell’offensiva che avrebbe dovuto determinare la caduta di Gorizia. Il 6 agosto, giorno prescelto per l’azione, le truppe del VI corpo d’armata, agli ordini del generale Capello, avrebbero attaccato “con la massima energia il nemico per ributtarlo oltre l’Isonzo e prendere, in primo tempo, saldo possesso della soglia di Gorizia”. Lo sfondamento delle linee austroungariche sarebbe avvenuto nel tratto Sabotino-Oslavia, in corrispondenza del quale erano state ammassate la maggior parte delle batterie disponibili, specialmente di grosso calibro, e degli uomini. Due giorni prima dell’inizio delle operazioni sul Sabotino il VII corpo d’armata avrebbe dovuto inscenare all’estremità meridionale del fronte carsico un’energica azione dimostrativa al fine di impegnare la maggior quantità di forze nemiche ed impedirne lo spostamento. Con lo stesso scopo diversivo, il 6 agosto, contemporaneamente all’attacco del VI corpo d’armata sul Sabotino, sarebbe scattato anche quello dell’XI corpo sul San Michele.
Senza subire la minima critica da parte di Cadorna, il duca d’Aosta destinò all’azione sul San Michele forze così ingenti da conferirle le dimensioni di un attacco a fondo anziché quelle di una semplice diversione. In particolare la suddivisione delle artiglierie tra i corpi di armata risultò squilibrata rispetto all’obiettivo di operare la rottura del fronte sul Sabotino. Ben 20 batterie di bombarde e 217 cannoni furono assegnati all’XI corpo d’armata, pari a circa la metà delle artigliere in dotazione al VI corpo, incaricato di sferrare l’attacco principale.

Dalle direttive generali elaborate dal duca d’Aosta, il generale Capello ricavò l’ordine di operazione per i suoi comandanti di brigata, che per ragioni di sicurezza fu tenuto segreto sino a poche ore prima dell’inizio dell’offensiva. Le direttrici di attacco sarebbero state tre, le due principali avrebbero dovuto investire i due perni della testa di ponte, ossia il Sabotino ed il Calvario, la terza invece, con funzione di collegamento con le precedenti, avrebbe dovuto insistere sulla linea Oslavia-Peuma. A causa della sua posizione dominante all’interno dello scacchiere, e quindi dei vantaggi non solo tattici ma anche psicologici che la sua caduta avrebbe offerto, i maggiori sforzi si sarebbero concentrati sull’alto Sabotino.
Il generale Giuseppe Venturi, comandante della 45ª divisione, che da maggio aveva sostituito la 4ª nel settore del Sabotino, individuò tre zone di irruzione: sul versante nord orientale del monte, in prossimità della cima e più in basso a ridosso dei “Massi rocciosi”, a quota 325. Data la scarsa consistenza degli apprestamenti nemici, i varchi nella prima zona di irruzione sarebbero stati ottenuti facendo brillare tubi di gelatina e stendendo appositi graticci sulle residue barriere di filo spinato. Nella seconda e nella terza zona, il martellamento dell’artiglieria, ed in particolare delle batterie di bombarde, avrebbe dovuto praticare due ampi varchi, ciascuno della larghezza di 200 metri.
Il fronte d’attacco della 45ª divisione era ampio circa due chilometri, con una profondità di oltre due chilometri e mezzo che si estendeva sino ai ponti sull’Isonzo. Venturi suddivise le sue truppe in due colonne d’attacco ed una riserva. La prima colonna, denominata “Alto Sabotino”, composta da tre battaglioni del 78° fanteria, da uno del 58°, da uno del 115°, da due compagnie di minatori, da una batteria di artiglieria da montagna e da due di bombarde, avrebbe dovuto scattare dalle posizioni tra la trincea del 139° e la conca di Dol per penetrare oltre le linee austroungariche attraverso la prima e la seconda zona di irruzione.

Agosto 1916, il generale Cadorna ispeziona le posizioni sul Sabotino

Agosto 1916, il generale Cadorna ispeziona le posizioni sul Sabotino

Il generale Capello dimostrò la sua smisurata stima nei confronti di Badoglio promuovendolo prima al grado di colonnello, poi nominandolo capo di stato maggiore del corpo d’armata, infine, in deroga alle ferree regole della gerarchia militare, assegnandogli il comando della colonna “Alto Sabotino”. I mugugni del generale Francesco Gagliani, comandante della brigata Toscana, secondo cui in virtù del grado gli sarebbe spettata la guida dell’azione principale, furono messi a tacere motivando il prestigioso incarico di Badoglio con la sua impareggiabile conoscenza del terreno, dovuta all’esperienza maturata come direttore dei lavori di approccio.
Badoglio destinò una sola compagnia all’irruzione nella prima zona ed alla conquista delle caverne situate sul ripido rovescio del monte tra il “Dentino” e la vetta, riservò invece il grosso delle sue forze per il compito più arduo: sfondare le linee austroungariche nella seconda zona ed occupare di slancio il “Fortino alto” e gli sbocchi delle caverne ed i camminamenti che lo attorniavano, in modo tale da impedire qualsiasi tentativo di reazione da parte del nemico. Per guidare questo nucleo d’assalto, composto da un battaglione del 78° e da uno del 58°, Badoglio scelse il maggiore Abelardo Pecorini. Dopo la caduta del “Fortino”, i due restanti battaglioni del 78°, agli ordini del tenente colonnello Cesare Cisterni, avrebbero dovuto lanciarsi dalla loro posizione riparata, fra quota 513 e quota 507, attraversare rapidamente la seconda zona d’irruzione e procedere verso San Valentino ed il costone di San Mauro fino a raggiungere e superare i ponti sull’Isonzo. Oltre il fiume avrebbero dovuto trincerarsi creando una piccola testa di ponte in attesa dell’arrivo da quota 325 delle riserve, cioè un battaglione del 115° e le compagnie del genio, guidate dal tenente colonnello Egidio Macaluso.
La seconda colonna d’attacco, denominata “Basso Sabotino”, composta da tre battaglioni del 77°, uno del 149°, una compagnia di zappatori, una di minatori, una batteria di artiglieria da montagna e di tre di bombarde, fu affidata al generale Gagliani con il compito di muovere dall’area compresa tra i “massi rocciosi” e Podsabotin per irrompere nella terza zona e dilagare verso sud sino all’Isonzo e quindi attestarsi oltre il fiume.

Per ridurre le perdite, ogni battaglione avrebbe dovuto lanciarsi all’assalto ad ondate, una per ciascuna delle sue quattro compagnie. Il terzo battaglione del 77° in testa alla colonna avrebbe dovuto raggiungere il costone di San Mauro, espugnare le quote 159 e 111 e trincerarsi. Subito dopo il primo battaglione del 77°, compagnia dopo compagnia, avrebbe dovuto scattare per occupare il “Fortino Basso” e bonificare le caverne e trincee della zona. Esauriti i suoi compiti principali, avrebbe dovuto posizionarsi sul rovescio del costone di rincalzo al terzo battaglione. Le ondate del primo battaglione del 149° si sarebbero scagliate alle spalle delle trincee nemiche poste tra il “Fortino Basso” e quota 310. Dopo il rastrellamento dei prigionieri, i fanti del 149° avrebbero dovuto porsi di rincalzo all’avanguardia della colonna. Il reparto di coda, il secondo battaglione del 77°, avrebbe dovuto procedere senza deviazioni per dare slancio all’azione in profondità del terzo battaglione. Per ultime sarebbero scattate le compagnie del genio, incaricate di impadronirsi del ponte di Salcano, impedendone al nemico la distruzione.
Al secondo battaglione del 149° fanteria, dislocato a Casa Abete, presso il torrente Peumica, all’estremità meridionale del settore “Basso Sabotino”, molto vicino alla trincea austroungarica, furono affidati i compiti di supportare l’azione della colonna Gagliani, e di proteggere da eventuali incursioni il fianco destro dello schieramento della 45ª divisione.

La riserva divisionale, agli ordini del generale Emilio De Bono, comandante della brigata Trapani, avrebbe dovuto muovere dalle sue posizioni tra valle Rio Mulini e Posdenica nel caso in cui le colonne di Badoglio e di Gagliani si fossero trovate in difficoltà. Se invece ogni colonna avesse raggiunto i suoi obiettivi, le forze a disposizione del generale De Bono, un reggimento ed un battaglione di fanteria, tre reparti di mitragliatrici, due compagnie del genio, due batterie di artiglieria, una da montagna ed una someggiata, avrebbero dovuto contribuire al consolidamento delle teste di ponte oltre l’Isonzo.
Nei giorni tra il 3 ed il 5 agosto le artiglierie italiane incominciarono a bersagliare con un tiro di aggiustamento, sporadico ed apparentemente casuale, i passaggi sull’Isonzo ed i principali centri di fuoco austroungarico. Le batterie più defilate che l’osservazione nemica non aveva ancora individuato invece tacquero per non rilevare anzitempo la loro posizione.
Mentre sul Sabotino gli artiglieri inquadravano i loro obiettivi in attesa dell’ordine di scatenare una tempesta di fuoco, i reparti della brigata Toscana, composti in maggioranza da bresciani e da bergamaschi, sostituivano quelli della Trapani sulla prima linea del Sabotino e si predisponevano a sferrare l’attacco. Intanto, come stabilito dal piano del duca d’Aosta, nel settore di Monfalcone i fanti del VII corpo d’armata si impegnavano in un’azione dimostrativa che riuscì a determinare lo spostamento di alcuni battaglioni dalla testa di ponte di Gorizia.

Enrico Tori

Enrico Toti

A Sablici, nei pressi di Monfalcone, morì eroicamente Enrico Toti, dopo aver scagliato contro il nemico la sua stampella. Prima della guerra Toti aveva subito l’amputazione di una gamba in seguito ad un incidente sul lavoro. La sua grave menomazione non lo aveva però trattenuto dal presentare senza successo molteplici domande di arruolamento volontario. Nel gennaio del 1916, grazie al personale interessamento del duca d’Aosta, era stato finalmente destinato al fronte come volontario civile. Nei mesi successivi, l’abnegazione e l’ardimento dimostrati gli erano valsi la consegna delle stellette e del piumetto da bersagliere.
Domenica 6 agosto, alle 7 precise, la quiete di una mattina limpidissima fu squarciata dal fragore di tutte le artiglierie schierate attorno a Gorizia. Il comando austroungarico, affidato ad interim al colonnello Dani, fu colto di sorpresa e stentò ad organizzare un efficace tiro di contropreparazione. In oltre nove ore di incessante bombardamento, dalle 7 alle 16, gli italiani subirono appena una settantina di perdite tra gli uomini della 45ª divisione, si trattò per lo più di feriti lievi tra le truppe ammassate nei ricoveri nella zona dei “massi rocciosi”. Il tiro delle artiglierie italiane fu invece molto preciso ed efficace nell’annientare i centri di comando, le batterie più insidiose ed i punti di osservazione del nemico. Il palazzo di Giustizia, che ospitava a Gorizia i comandi della 58ª divisione e della 5ª brigata da montagna, fu abbattuto dai grossi calibri italiani. Numerosi colpi andarono a segno anche nelle retrovie asburgiche, a Dornberg, sede del comando di corpo d’armata.
Tanta micidiale precisione fu il risultato della cooperazione tra l’artiglieria e l’aviazione. Prima dell’inizio delle operazioni era stato predisposto un intenso programma di voli di ricognizione per realizzare una meticolosa mappatura delle retrovie austroungariche poste sul rovescio del Sabotino ed alle sue spalle, perciò del tutto invisibili dall’osservazione terrestre. Volo dopo volo gli aviatori avevano individuato importanti obiettivi tattici: linee di rifornimento, depositi, punti di ammassamento, ordini di trincee, batterie, posti comando e di osservazione in un’area compresa tra il Sabotino e Chiapovano, oltre il Monte Santo ed il San Gabriele. Durante il fuoco di preparazione gli areoplani italiani si alzarono in volo per verificare gli effetti prima del tiro di aggiustamento e poi di quello di devastazione. Il cielo terso ed il vento che disperdeva velocemente la polvere ed i gas delle esplosioni agevolarono sia l’osservazione aerea che quella terrestre.

Il verso autografo di Gabriele D’Annunzio dedicato alla conquista del Sabotino

Il verso autografo di Gabriele D’Annunzio dedicato alla conquista del Sabotino

Dal suo osservatorio a quota 352 Badoglio si rese conto intorno alle 10,30 dell’impossibilità di lanciare all’assalto una compagnia sul ripidissimo versante del Sabotino dal lato dell’Isonzo, poiché le barriere di reticolati non erano state spazzate via. Il generale Capello, prontamente informato della situazione, autorizzò l’annullamento della manovra. Il fuoco fu quindi concentrato sulla seconda e sulla terza zona di irruzione. Per divellere i reticolati le batterie di bombarde furono avvicinate quanto più possibile alle linee nemiche. Intorno a mezzogiorno il varco destinato all’attacco della colonna Badoglio raggiunse l’ampiezza di circe 300 metri, al contrario quello in cui avrebbero dovuto gettarsi gli uomini al comando di Gagliani risultò impraticabile, misurando appena una quarantina di metri. Occorsero altre due ore di fuoco martellante per allargare il terzo varco sino alle dimensioni ritenute ottimali. Lo spettacolo della prima linea austroungarica spianata ed avvolta dalle fiamme e dal fumo strappò ai fanti grida di entusiasmo: la vittoria, dopo tanto sangue versato inutilmente, era a portata di mano.
Nell’ultima ora del fuoco di preparazione, tra le 15 e le 16, mentre le truppe venivano ammassate in prossimità delle zone di irruzione, il tiro dell’artiglieria si allungò per colpire le retrovie e l’imboccatura delle caverne in cui era ricoverata la guarnigione asburgica.
Alle 16 il primo battaglione del 78° reggimento con in testa il maggiore Pecorini scattò verso la cima del monte, sotto la protezione del tiro dei pezzi campali leggeri. Il terzo battaglione del 58° lo seguì breve distanza. Nella loro corsa non incontrarono resistenza, ed una volta giunti alla trincee austroungariche le trovarono sguarnite. Gli sbocchi delle caverne da cui avrebbero potuto affluire le forze per tentare un contrattacco furono subito bloccati dagli uomini del 58°. I fanti del 78° superarono di slancio i capisaldi del “Dentino” e del “Fortino alto”. In meno di quaranta minuti la vetta fu conquistata. D’Annunzio celebrò l’impresa con il distico “Fu come l’ala che non lascia impronte / Il primo grido avea già preso il monte”.

Ondata dopo ondata la colonna Badoglio penetrò sempre più in profondità verso gli obiettivi assegnati lungo il costone di San Valentino, fino a San Mauro. Durante l’avanzata, per consentire all’artiglieria di allungare progressivamente il suo tiro di copertura i fanti innalzavano su dei bastoni grandi dischi bianchi. Intorno alle 18,30 l’avanguardia della colonna Badoglio giunse al cimitero di San Mauro di fronte alla passerella sull’Isonzo. Nelle ore successive, fin dopo il tramonto, isolate sacche di resistenza furono sgominate lungo i costoni del Sabotino, ma non sulla cima dove le truppe asserragliate nella grande galleria presso quota 609 continuarono a combattere accanitamente.
Eguale fortuna ebbe la colonna Gagliani, scattata all’attacco pochi minuti dopo le 16. Anche nel settore del “Basso Sabotino” il fuoco di preparazione si rivelò molto efficace. Il terzo battaglione del 77° aprì la strada agli altri reparti, superò senza difficoltà le trincee nei pressi del “Fortino Basso”, poi incontrò alcuni centri di fuoco organizzati che furono espugnati ricorrendo alle bombe a mano ed agli scontri corpo a corpo. Uno dei più tenaci nuclei di resistenza si annidò in una caverna, molestando lo sviluppo della manovra italiana. Benché intrappolato, il reparto austroungarico rifiutò di arrendersi finché i fanti della brigata Toscana non diedero fuoco con i lanciafiamme, o forse con spezzoni incendiati, all’imboccatura della caverna. Gli austroungarici che non morirono intossicati dal fumo alzarono le mani e si unirono alle lunghe file di prigionieri che si stavano avviando verso le linee italiane.
Nel corso della battaglia del Sabotino gli uomini della brigata Toscana, formata dal 77° e dal 78° reggimento, diedero prova di spietata determinazione, mostrandosi degni dell’appellativo di “Lupi” che si erano guadagnati presso il nemico fin dal 1915, in occasione della conquista d’impeto del Monte Melino, in Val Chiese.

Il ferimento nei pressi dei “Massi rocciosi” del generale Gagliani, prontamente sostituito dal generale De Bono, comandante della riserva, non rallentò l’avanzata della colonna, le cui avanguardie raggiunsero, intorno alle 18,30, la passerella di San Mauro, giusto in tempo per impedire al nemico di distruggerla. Verso le 20, una compagnia della colonna Badoglio con una sezione di mitragliatrici giunse alla passerella di San Mauro per contribuire alla fortificazione della riva destra dell’Isonzo e bloccare così ogni tentativo di contrattacco nemico.
Alla sera del 6 agosto soltanto nel settore della Val Peumica gli austroungarici mantenevano ancora alcune delle loro posizioni. Infatti l’azione di completamento affidata al secondo battaglione del 149°, che da Casa Abete avrebbe dovuto avanzare per proteggere il fianco destro della 45ª divisione, non aveva avuto successo, a causa del tiro incrociato delle mitragliatrici da alcuni tratti inespugnati del “Fortino basso” e dalle linee di quota 188 che avevano retto al ripetuto assalto degli uomini della brigata Lambro della 24ª divisione, schierata nel settore contiguo a quello del Sabotino. Mentre le ultime resistenze all’interno del “Fortino basso” venivano eliminate, De Bono si era affrettato ad inviare rinforzi a Casa Abete, riuscendo così a rompere le linee austroungariche, senza tuttavia raggiungere il fondo della Val Peumica saldamente tenuto da un battaglione territoriale bosniaco.
Per quanto gravi, le minacce rappresentate dalle linee al fondo della Val Peumica e da quelle di quota 188 non offuscarono la grandezza della vittoria italiana. La divisione di Venturi con perdite molto contenute, appena un centinaio di morti e circa ottocento feriti, aveva in un solo giorno strappato al nemico posizioni formidabili contro cui si erano infrante nei mesi precedenti molteplici sanguinose offensive.
Ad accrescere l’entusiasmo del comando italiano contribuirono anche i parziali successi dell’XI corpo d’armata. In meno di due ore di accaniti combattimenti le brigate Catanzaro, Brescia e Ferrara, appartenenti alla 22ª divisione, avevano conquistato le quattro cime del San Michele, poi però non avevano potuto procedere oltre, bloccate da violentissimi contrattacchi.

BaruzziAll’estremità dello schieramento del VI corpo d’armata, le linee austroungariche sul Podgora avevano resistito, tuttavia l’11ª divisione, dopo aver conquistato il Grafenberg era riuscita a spingersi con qualche reparto sino all’Isonzo. La 12ª divisione invece si era impadronita della cresta del Calvario ed aveva espugnato alcune linee di trincee nella piana di Lucinico.
Tra le truppe dislocate nella piana di Lucinico si trovava anche il primo battaglione del 28° fanteria, a cui apparteneva un diciannovenne, nativo di Lugo di Romagna, nominato sottotenente da qualche mese: Aurelio Baruzzi. Al comando di un plotone di bombardieri a mano Baruzzi ricevette l’ordine di operare, in collegamento con la brigata Casale, a cavallo della ferrovia Udine-Gorizia. Nel primo giorno dell’offensiva il suo reparto riuscì ad avvicinarsi alla linea ferroviaria in prossimità del sottopassaggio Piedimonte, alle porte di Gorizia, ma poi dovette arretrare sotto l’intenso fuoco nemico. Il mattino seguente, 7 agosto, Baruzzi ritentò l’assalto perdendo più della metà dei suoi uomini.
Mentre il giovane ufficiale contava i suoi morti, sul fronte della 45ª divisione gli austroungarici tentavano disperati contrattacchi. Già nella notte Badoglio aveva chiesto ed ottenuto rinforzi con cui ricacciare i forti nuclei nemici che risalivano il versante nordorientale del Sabotino. Anche De Bono nel suo settore aveva subito due assalti uno a tarda notte ed un altro poco prima dell’alba. Esauritesi queste azioni di disturbo, nelle prime ore del mattino il colonnello Dani lanciò tutte le sue riserve contro le posizioni italiane. Sapeva di essere in inferiorità numerica, ma non poteva rinunciare al tentativo quanto meno di ritardare l’avanzata italiana. Il piano di Dani, approvato anche dal generale Zeidler, nel frattempo rientrato in tutta fretta in prima linea, prevedeva due colonne. La prima, forte di un battaglione e mezzo, avrebbe dovuto passare l’Isonzo sul ponte ferroviario di Salcano e puntare su San Valentino. La seconda, forte di tre battaglioni, avrebbe varcato l’Isonzo ad est di Peuma per tentare di cogliere alle spalle le posizioni di quota 111, 159 e del costone basso di San Mauro.

Nonostante il vigoroso tiro di preparazione dell’artiglieria asburgica, Badoglio non ebbe difficoltà a disperdere la colonna lanciata contro le sue posizioni, respingendola oltre il ponte di Salcano. Ben più pericolosa si rivelò invece la manovra contro le truppe di De Bono. Gli scontri furono furiosi e ravvicinati. Il 77° reggimento fanteria fu quasi sul punto di perdere la bandiera e subì perdite gravissime, circa 600 tra morti e feriti, ma non arretrò di un passo. Il tentativo austroungarico di aggiramento fallì grazie non solo alla tenace resistenza degli uomini agli ordini di De Bono, ma anche al successo della Brigata Lambro contro le posizioni di quota 188. La saldatura tra la 45ª divisione e la 24ª tolse al nemico, impossibilitato a ricevere rinforzi ed ormai a corto anche di munizioni, ogni residua speranza di ribaltare la situazione.
Nella notte tra il 7 e l’8 agosto il generale Zeidler ottenne dal comandante dell’Isonzoarmee, Boroević, l’autorizzazione ad abbandonare la testa di ponte e ad arretrare ciò che restava della 58ª divisione su di una nuova linea fortificata alla spalle di Gorizia. Le nuove posizioni assomigliavano a quelle perdute, scongiurando il rischio di una rottura del fronte, al posto della soglia di Gorizia c’era la sella di Dol, che divideva la pianura isontina dall’altopiano della Bainsizza, al posto del Sabotino e del San Michele sbarravano ora la strada alla penetrazione italiana il Monte Santo, il San Marco ed il San Gabriele con la sua propaggine verso il basso costituita dall’altura di Santa Caterina. L’ordinata e tempestiva ritirata austroungarica tolse a Cadorna, che peraltro non aveva predisposto riserve sufficienti per una vigorosa prosecuzione dell’offensiva, l’opportunità di una decisiva vittoria strategica. I successi riportati nella sesta battaglia dell’Isonzo suscitarono grande entusiasmo in Italia ed in Europa, Gorizia fu la prima città sotto il controllo degli Imperi Centrali ad essere occupata, ma non rappresentarono un colpo mortale per l’esercito di Francesco Giuseppe.

Gorizia, il sottopasso di Piedimonte appena conquistato

Gorizia, il sottopasso di Piedimonte appena conquistato

Prima di convincersi ad abbandonare definitivamente la testa di ponte di Gorizia, il generale Boroević ordinò di difendere ad oltranza il ponte di Salcano ed i passaggi di Peuma nell’ostinata illusione di garantirsi una via attraverso cui sferrare una controffensiva. La pressione italiana non tardò però a rivelarsi incontenibile
Alla mattina dell’8 agosto l’ultimo nucleo di resistenza sul Sabotino, annidato nella galleria di quota 609, fu espugnato dagli italiani, incendiando bidoni di petrolio all’imboccatura orientale. Subito dopo le truppe della 45ª divisione cominciarono ad effettuare ricognizioni in direzione di Salcano. I combattimenti andarono intensificandosi nel corso della giornata. La guarnigione austroungarica di Salcano oppose un’eroica resistenza finché non ricevette, intorno alle 23, l’ordine di ripiegare oltre l’Isonzo e di distruggere il ponte.
Poche ore prima che il fumo denso del petrolio costringesse alla resa gli ultimi difensori del Sabotino, il sottotenente Baruzzi si aggirava nella luce incerta dell’alba in prossimità della scarpata della ferrovia Udine-Gorizia, alla ricerca di un punto debole attraverso cui penetrare nel sottopassaggio fortificato di Piedimonte. La fortuna lo assistette: all’imbocco del sottopassaggio si imbatté nel corpo di una sentinella con il cranio fracassato da una granata. Capì immediatamente che l’occasione di un colpo di mano non poteva essere sprecata. Si precipitò quindi dal suo comandante di compagnia per ottenere almeno una ventina di uomini con cui tentare l’impresa. Per prudenza il suo capitano gliene assegnò non più di dieci, ma Baruzzi, che lottava contro il tempo, non riuscì a racimolare che quattro volontari armati di bombe a mano.

Sotto il fuoco sempre più intenso dell’artiglieria austroungarica, la sparuta pattuglia tornò all’ingresso del sottopassaggio sorvegliato da quella sentinella che non poteva dare l’allarme. Protetto da uno scudo antiproiettile Baruzzi avanzò nel tunnel, sorprendendo alcuni ufficiali con le armi in spalla e costringendoli alla resa. Sempre seguito dai suoi uomini continuò ad inoltrarsi senza far rumore, finché giunse in un grande locale illuminato in cui erano assiepati circa duecento soldati austroungarici intenti a conversare, fumare, dormire e mettere qualcosa nello stomaco prima di una dura giornata di battaglia. Le armi erano tutte posizionate ordinatamente nelle rastrelliere. Brandendo pistole e bombe a mano, Baruzzi ed i suoi intimarono la resa, lasciando intendere di essere solo l’avanguardia di un reparto ben più numeroso.
Il bluff riuscì in pieno, gli austroungarici intontiti dallo stupore alzarono le mani. Addirittura un soldato dalmata si offrì, in un italiano stentato, di collaborare ed indicò la stanza al piano superiore in cui si trovava il comando. Per impedire che qualcuno potesse usare il telefono e dare l’allarme, Baruzzi non esitò a fare irruzione nella stanza. Altri due ufficiali si arresero senza opporre resistenza.
Ogni minuto che passava la posizione dell’eroica pattuglia si faceva più pericolosa. Per quanto coraggiosi e determinati, cinque uomini non avrebbero potuto tenere a bada indefinitamente oltre duecento prigionieri. Ancora una volta la fortuna fece la sua parte. Perlustrando sommariamente la galleria, Baruzzi scoprì una stanza stipata di feriti italiani, uno di essi, benché avesse le mani fasciate, fu giudicato in grado di correre a cercare rinforzi.

Targa affissa sulla stazione di Gorizia dedicata ad Aurelio Baruzzi

Targa affissa sulla stazione di Gorizia dedicata ad Aurelio Baruzzi

Non appena vide giungere i primi sei uomini di rinforzo Baruzzi tirò un sospiro di sollievo ed ordinò ai prigionieri di incolonnarsi, ma per quel giorno il suo coraggio non si era ancora esaurito. Non appena giunsero i fanti del suo plotone, non più di una ventina, li chiamò a raccolta per organizzare una squadra di perlustrazione allo sbocco del sottopassaggio in direzione di Gorizia.
Dopo aver catturato ancora qualche attonito prigioniero, Baruzzi si rese conto che sino all’Isonzo non esistevano più ostacoli, se non uno: non sapeva nuotare. Dovette quindi cercare con cura il punto più agevole per il guado. Non tardò a trovarlo, grazie alla scarsa portata dell’Isonzo nel periodo estivo, e guadagnò l’altra sponda del fiume giusto in tempo per affrontare una pattuglia nemica.
Nella tasca interna della giubba Baruzzi teneva un tricolore che aveva comprato ripromettendosi, forse per una scommessa tra commilitoni, di issarlo su Gorizia. Animato da questo sogno, spronò il suo plotone ad aprirsi la strada verso la stazione di Gorizia, aspramente difesa. Una volta messo in fuga il nemico, Baruzzi si arrampicò sul comignolo più alto della stazione per piantarvi il tricolore, al grido di “Viva Gorizia! Viva l’Italia! Viva la Romagna!”.
Un mese più tardi il suo slancio patriottico sarebbe stato ricompensato con la medaglia d’oro al valor militare.

Per saperne di più
M. Cimmino, La  conquista del Sabotino. Agosto 1916 - Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2012
P. Pieri e G. Rochat, Pietro Badoglio, Maresciallo d’Italia - Milano, Mondadori, 2002
V. Tarolli, Eroi della Grande Guerra. Storie di decorati con medaglia d’oro al valor militare - Brescia, NordPress Edizioni, 2005
G. Rocca, Cadorna. Il generalissimo di Caporetto - Milano, Mondadori, 2004
M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale - Milano, Mondadori, 2009
N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo - Torino, Utet, 1995
M. Isnenghi, Il mito della grande guerra – Bologna, Il Mulino, 1989
M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945 - Milano, Mondadori, 1989