IL RAZZISMO ITALIANO IN A.O.I.

di Michele Strazza -

In Africa gli italiani inseguivano l’Impero, ma quello che portarono alla luce fu il loro “cuore di tenebra”.

Fu dopo la guerra d’Etiopia che nacque la prima normativa italiana razzista con disposizioni di legge indirizzate alle colonie. Proprio il conflitto abissino, secondo lo storico George Mosse, fece nascere nella coscienza degli italiani il concetto di “razza”. Questo, però, a differenza della Germania, non venne rivolto verso gli ebrei ma verso i neri.
Conquistata, dunque, Addis Abeba, il 5 agosto 1936 il Ministro Lessona indirizza al vicerè Rodolfo Graziani le seguenti direttive sui rapporti “tra nazionali e indigeni”: «La conquista dell’impero ci impone obblighi di carattere morale e politico sui quali è necessario portare subito e con la dovuta energia la massima attenzione. Nel settore politico abbiamo instaurato la norma della politica indigena separata da quella nazionale ma attentamente seguita, aiutata e vigilata al fine di poter servirsi di essa per scopi nazionali ed umanitari cui si tende e che non sono inconciliabili. Nel settore sociale, conseguentemente, si deve mantenere, per obbedire alle direttive politiche, netta separazione di vita se pure si voglia, come si vuole, armonica e redditizia collaborazione. La razza bianca deve imporsi per superiorità affermata non pure assiomaticamente, ma praticamente. Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera; ciò non significa spregio ed umiliazione dei neri, significa invece differenziazione tra gli uni e gli altri. Nell’AOI i bianchi devono condurre vita nettamente distinta da quella degli indigeni. Codesto governo generale disporrà pertanto: a) che si arrivi gradualmente a tenere separate le abitazioni dei nazionali da quelle degli indigeni; b) che sia evitata ogni familiarità tra le due razze; c) che i pubblici ritrovi frequentati da bianchi non siano frequentati dagli indigeni; d) che sia affrontata con estremo rigore – secondo gli ordini del duce – la questione del “madamismo” e dello “sciarmuttismo”».

Nel 1937 vengono, poi, emanati alcuni decreti governatorali (n. 620208 e n. 41675 del governatore dell’Eritrea, n. 12723 del governatore della Somalia) con tutta una serie di prescrizioni per assicurare una netta separazione tra razza bianca e nera come la divisione delle abitazioni (“per ragioni di ordine pubblico e di igiene”) e dei locali pubblici. Contemplata anche l’espropriazione delle case e dei negozi dei nativi qualora prossimi a quelli degli europei. Viene, altresì, vietata la vendita diretta, “o per tramite di commessi nazionali”, di merci agli indigeni. A questi ultimi è, inoltre, interdetto l’accesso a luoghi e uffici dell’area bianca, ai mezzi di trasporto riservati ai bianchi. Posto anche il divieto agli autisti italiani di mettersi al servizio di indigeni proprietari di automezzi o di dare un passaggio a un nero.
Lo stesso avviene per l’Etiopia dove i tassisti italiani non possono trasportare etiopi. In campo commerciale agli indigeni è consentito dare licenze per aprire negozi ma in via subordinata agli italiani. Nei negozi per bianchi agli italiani è vietato servire un indigeno cui si dedicano speciali commessi etiopici.
Nei ristoranti, bar, panetterie e pensioni non è consentito assumere etiopici per preparare cibi e bevande ma solo per svolgere lavori “umili”. Se un italiano è colto a compiere lavori “degradanti” per un etiopico può essergli irrogata una multa fino a lire 5.000.
Determinati lavori, poi, come facchino o lustrascarpe, sono riservati solo agli indigeni. A questi ultimi, inoltre, è precluso l’esercizio di determinate imprese commerciali, così come diventare impiegati di concetto, avere un impiego statale, diventare operai specializzati. Tutte le attività della vita sociale vengono divise su base etnica.
Gli stessi cinema sono separati. In quelli riservati ai nativi possono essere proiettate solo pellicole attentamente visionate dalla censura che controlla eventuali tracce poco consone di immagini femminili bianche o qualsiasi altra cosa che possa mettere a repentaglio il prestigio dei colonizzatori.
Così una signora italiana in Somalia esprimeva il timore che la visione di alcune pellicole potesse compromettere l’immagine di prestigio degli italiani: «Perché dunque noi dobbiamo mostrare a questi poveri esseri lontani, il lato desolante della nostra umanità […] e non mostriamo invece tutte le nostre bellezze naturali e morali, tutte le grandezze del nostro genio, tutte le sublimità della nostra raffinata civiltà? Perché ci sottoponiamo al giudizio di questi esseri a noi tanto inferiori, senza invece cercare di destare soltanto la loro ammirazione per averne un più completo, profondo e convinto rispetto?»

Persino nella sistemazione dei centri urbani i progettisti pongono attenzione alla separazione delle due comunità. Come già avvenuto per Tripoli e Bengasi, in Libia, anche in Etiopia la costruzione degli edifici è espressione della segregazione razziale, arrivando addirittura a prevedere strade per i soli indigeni o, come nel progetto del palazzo imperiale di Addis Abeba, due entrate e due cortili, facendo in modo che da nessuna parte dell’edificio adibito ai bianchi si possa scorgere il traffico dei nativi.
Eppure, nonostante tutto questo, la legislazione razziale non ebbe mai un’applicazione piena. Eccezioni, ad esempio, vennero sempre fatte per i notabili etiopici che non era raro vedere nei ristoranti e bar serviti da italiani.
La cronica scarsità di abitazioni rese, poi, piuttosto difficile una totale separazione tra bianchi e neri. Lo stesso afflusso delle famiglie italiane in Etiopia aumentò tale difficoltà e pure il duca d’Aosta dovette ammettere, con realismo, che una effettiva separazione restava una utopia. Nel 1940, ad Addis Abeba per i 40.000 italiani (con circa 4.000 famiglie) vi erano solo 600 case disponibili.
Un ultimo riferimento alla percezione di tutto questo in Italia. Un approccio razzista venne inculcato dal Regime già nelle scuole elementari italiane. Così in terza elementare, nel testo di “Religione Storia, Geografia, Aritmetica” si spiegavano nel 1938 le colonie: «Che cosa sono le colonie? In Africa, nell’Asia, nelle Americhe, vi sono grandi estensioni di terre, ricche di prodotti naturali, ma abitate da popolazioni indigene ancora barbare o selvagge, che non le sanno sfruttare. I popoli bianchi invece, grazie alla loro civiltà, conoscono il valore di quei prodotti, e ne usano per dare maggiore sviluppo alle industrie ed ai commerci dei propri paesi di cui accrescono così la prosperità e la potenza. E’ quindi ben naturale che i popoli bianchi si siano adoperati ad occupare quelle terre».
Sempre nello stesso anno venne introdotto in quinta elementare un nuovo libro di “Storia” interamente dedicato alle conquiste coloniali del fascismo, vero erede della grandezza dell’impero romano, dove si sottolineava: “L’Italia, per virtù del fascismo, riprende dopo una pausa di quindici secoli, il suo imperio nel Mediterraneo e nel Mondo”.
Del resto, anche dopo la caduta del fascismo e la fine del secondo conflitto mondiale non cessarono le tendenze “razziste” degli italiani. Così, infatti, si esprimeva uno dei massimi storici “ufficiali” del colonialismo italiano, il lucano Raffaele Ciasca, esponente della Democrazia Cristiana, in un suo intervento al Senato del 26 ottobre 1949: «… non si può, senza fare oltraggio alla verità, accusare noi italiani di aver portato in Africa violenza, oscurantismo e metodi incivili. E’ una turpe violenza alla verità. I nostri pionieri, i nostri missionari, i nostri studiosi, i nostri scienziati, i nostri esploratori, i nostri organizzatori e i nostri soldati, anche se spesso ignoti o mal noti, hanno recato sempre nobiltà di cuore, hanno portato dappertutto sentimenti di umanità e di correttezza nei rapporti con gli indigeni. Essi hanno lottato per diffondere la luce della civiltà che è la luce di Cristo, hanno redento popoli primitivi e selvaggi o abbrutiti dal paganesimo e da riti spesso osceni. Mentre portavano anche molto lontano dalla patria i loro sentimenti e le loro passioni nazionali, essi furono pure missionari della fede, della civiltà. E questo dovrebbe assicurare a tutti gli Italiani, agli oscuri e agli altissimi, ai pionieri ed agli altri venuti dopo, non solo la gratitudine dei connazionali, ma anche la riconoscenza del mondo che s’intitola civile. Le migliaia di chilometri di strade costruite in terre aspre ed ancora selvagge fino ai limiti del deserto, le case sorte numerose dov’erano il vuoto e la solitudine, le trasformazioni agrarie, le industrie create da italiani, l’organizzazione civile, amministrativa, economica delle nostre colonie, l’avanzata del lavoro umano per la conquista della terra contro il deserto e la ghibla, tutto ciò dimostra come gli italiani, non degeneri dalla propria grande tradizione domestica, abbiano saputo portare la vita dov’era la morte, l’ordine e il composto vivere dei popoli civili dove era disordine e barbarie. Tutti sanno – e meglio di ogni altro gli inglesi, vecchi ed esperti colonialisti – che cosa ha fatto in Africa questo nostro popolo generoso ed ingenuo, del quale ogni operaio è un pioniere e ogni contadino si attacca alla terra coltivata come ad un’amante adorata».

Per saperne di più
Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale. La caduta dell’Impero, Milano, Oscar Storia Mondadori, 2008.
Mosse G. L., Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Pankhurst R., Lo sviluppo del razzismo nell’impero coloniale italiano (1935-1941), in “Studi Piacentini”, n. 3/1988.
Sbacchi A., Il colonialismo italiano in Etiopia 1935-1940, Milano, Mursia, 1980.
Strazza M., Le colpe nascoste. I crimini di guerra italiani in Africa, Montorso Vicentino, Saecula Ed., 2013.