IL PROCESSO E LA CONDANNA A MORTE DI IMRE NAGY

di Romano Pietrosanti -

Nel giugno 1958 il leader della rivoluzione ungherese veniva impiccato nella prigione centrale di Budapest in Kozma utca 13. Romano Petrosanti ha ricostruito nella sua bella e minuziosa biografia di Nagy (“Imre Nagy, un ungherese comunista”, Le Monnier) le vicende del processo farsa a cui fu sottoposto insieme agli artefici della rivolta antisovietica del 1956. Per gentile concessione dell’editore offriamo ai nostri lettori il capitolo dedicato al dibattimento e all’esecuzione di Nagy. 

cover-pietrosantiUna delle motivazioni che spiegò la decisione del presidium del PCUS il 31 ottobre 1956 per rispondere con la forza armata alla rivoluzione ungherese fu il comportamento del governo rivoluzionario. Molotov espresse l’opinione già il 23 ottobre: «Noi perderemo l’Ungheria a causa di Nagy»[1]. Chruščëv, che il 28 ottobre ancora credeva nell’abilità di Nagy di superare la crisi, non escluse la possibilità che «Nagy potrebbe ribellarsi contro di noi»[2]. Il 31 ottobre la leadership sovietica mandò un telegramma di risposta al segretario generale del PCI Palmiro Togliatti che il giorno precedente aveva inviato una lettera[3], affermando in parole povere: «Secondo le nostre informazioni Nagy fa il doppio gioco, e si trova sempre sotto l’influenza delle forze reazionarie» [4]. Tuttavia lo stesso giorno il capo del governo ungherese aveva avuto una chance, come Chruščëv dichiarò mentre si stabiliva il ‘governo provvisorio rivoluzionario’ e si premuniva di una giustificazione per l’intervento: «Se Nagy accetta [il governo provvisorio e l’intervento, N. d. A.], lo collochiamo come vice primo ministro»[5]. Nei giorni che seguirono si tentò di cercare l’accordo di Nagy con l’aiuto del presidente jugoslavo Tito. Ma, allo stesso tempo, le truppe sovietiche che muovevano verso Budapest ricevettero l’ordine di arrestare i membri del governo. Il primo ministro, che si era rifugiato nell’ambasciata jugoslava, non si dimise. Non soltanto la sua semplice presenza minacciava il ‘governo rivoluzionario operaio contadino’ di János Kádár, che si trasferì da Mosca a Szolnok il 4 novembre e poi arrivò a Budapest coi blindati sovietici il mercoledì 7 novembre, ma per di più stimolava grandemente la resistenza nazionale.

János Kádár non aveva mai avuto simpatia per Imre Nagy. Questo è un fatto palese che emerge dalla biografia dei due uomini politici. Sebbene János Kádár fosse uscito di prigione, come abbiamo visto nell’estate del 1954, il 22 luglio[6] nel corso delle riabilitazioni sotto il primo governo di Nagy, pochi mesi dopo la sua scarcerazione, nell’autunno 1954, quando Nagy cercò contatti con Kádár – al di là delle ristabilite relazioni politiche – fu respinto. Nagy era per Kádár un ‘alieno’, un genere di persona col quale aveva ben poco a che fare per molte ragioni. In primo luogo, Nagy apparteneva al gruppo dei ‘moscoviti’ che suscitava sentimenti di inferiorità in Kádár. Inoltre, Nagy era un misto irritante di funzionario ed intellettuale, mentre Kádár non aveva mai stimato gli intellettuali nel partito, specie quelli che s’intromettevano nella politica. Infine, Nagy gli sembrava un uomo indeciso, seriamente carente nelle qualità di tenacia e decisione che erano essenziali per un leader comunista. Kádár aborriva l’opposizione all’interno dell’intelaiatura ideologica e strutturale del partito; così la sua antipatia verso Nagy crebbe decisamente dal 1955 in poi. Ed era arrivata al massimo quando i due s’incontrarono il 24 ottobre 1956 nella sede centrale del partito. Kádár stava per essere eletto, il giorno dopo, segretario del partito. Ma quella notte, come abbiamo visto, Nagy fu collocato tranquillamente a capo del governo, sia per desiderio del popolino insorto, sia perché la leadership sovietica ed ungherese si aspettavano da lui la soluzione della crisi. Così Kádár era di nuovo ridotto a giocare un ruolo di secondo piano.
Si potrebbe presumere che egli abbia pensato di cambiare questa situazione già il 1° novembre mentre era sulla via per Mosca. Quando gli fu chiaro che i sovietici avevano già deciso sulla situazione ungherese, egli prese immediatamente tutte le misure per sbarazzarsi del suo potenziale rivale, anzi della sua vera e propria umbra mortis. Diventava veramente una questione di vita o di morte, ma stavolta tutto pesava a favore di Kádár, almeno nel senso della forza politica e militare. Quando egli tornò a Budapest al mattino del 7 novembre era preparato ad accordare che il gruppo riunito nell’ambasciata jugoslava emigrasse in Jugoslavia[7]. Ma i leader sovietici non volevano appesantire le relazioni sovietico-jugoslave, particolarmente cordiali prima e durante la rivoluzione, con l’invio di un gruppo di così ingombranti emigrati a Belgrado. Per Nagy non c’era più, in ogni caso, alcun ruolo politico dopo la sua presa di posizione del 4 novembre. Il suggerimento fatto agli jugoslavi fu quindi di consegnare il gruppo alle autorità ungheresi. Ma poiché di fatto, in quel momento, esse semplicemente non esistevano, ciò significava ai sovietici. E così accadde. Ancora, ciò era troppo perfino per gli jugoslavi, che erano comunque pronti a consegnare Nagy ai sovietici più tardi. Gli jugoslavi vollero, perciò, sbarazzarsi del gruppo che stava sotto la loro protezione extra-territoriale, ma in un modo che potesse essere accettabile all’opinione pubblica mondiale. Insomma, recitarono la parte degli offesi, secondo il copione stabilito sommariamente a Brioni.

A metà novembre una delegazione sovietica di alto rango, capeggiata da Malenkov, comparve a Budapest per sovrintendere al rafforzamento della posizione di Kádár. Dopo lunghi tentennamenti e ringraziamenti per le direttive sovietiche, Kádár e Münnich assicurarono gli jugoslavi con una garanzia scritta, un salvacondotto, che Nagy e tutto il suo gruppo – stabilito che essi non cercavano asilo politico – sarebbero stati condotti in salvo e sarebbero potuti tutti tornare a casa. Naturalmente si trattava di un trucco. Nagy ed i suoi non erano completamente convinti. Comunque si decisero a lasciare l’ambasciata jugoslava la sera di giovedì 22 novembre verso le 18, 30. Non appena misero piede fuori della porta dell’ambasciata furono avvisati e spinti a rimanere dentro. Vengono citate così le sue parole in quel momento: «E’ ora che guardiamo negli occhi il nostro destino»[8]. Nagy ed i suoi colleghi furono letteralmente rapiti, in spregio ad ogni norma di diritto internazionale, caricati a bordo di un autobus sovietico che si era presentato all’esterno dell’ambasciata e portati al quartier generale sovietico a Mátyásföld, nel sedicesimo distretto della capitale, zona meridionale, presso un aeroporto, anziché a casa[9]. Ferenc Münnich li incontrò lì quella stessa sera e suggerì loro o di rilasciare una pubblica dichiarazione di appoggio al governo Kádár oppure di decidere ‘liberamente’ di trasferirsi in Romania. Nagy fu ‘avvicinato’ in questo secondo senso da una sua vecchia conoscenza del periodo di Mosca, Walter Roman, funzionario del Partito comunista rumeno. La risposta di Nagy a Roman è riportata in una sua lettera a Ferenc Donáth[10]: «Gli ho detto che non lascerò l’Ungheria volontariamente. Nel peggiore dei casi, potrò essere rapito. E rifiuto di sottoscrivere qualsiasi dichiarazione. Ho veementemente protestato contro gli […] sviluppi ed affermato che spiegherò la mia posizione politica solo come una persona libera ed indipendente».
Il giorno dopo l’uscita dall’ambasciata, 23 novembre, l’intero gruppo fu trasferito in aereo in Romania, precisamente a Snagov, a 40 km ca. a nord di Bucarest, in una residenza per i funzionari del partito[11]. Ciò che sarebbe successo poi coi deportati rimase per un certo tempo una questione aperta. Gli jugoslavi si trovarono in una situazione imbarazzante, quella di fare proteste pubbliche e di coprire l’Unione Sovietica responsabile della situazione. In realtà ciò non cambiò il fatto che erano stati pienamente complici del rapimento[12].
Anche sul rapimento, ma soprattutto sulla morte di Imre Nagy, circolano ancora gravi inesattezze storiche: lo storico inglese Robert Service[13] ha recentemente scritto che i sovietici «lo presero in custodia nel novembre 1956 e lo tennero in Romania, dove poi lo uccisero dopo un processo segreto, nel 1958 [sic!]». Ci risulta veramente nuovo: non avevamo mai sentito parlare di un processo ed un’esecuzione di Nagy e dei suoi compagni di sventura in Romania! Peraltro il prof. Service non allega documenti in proposito. Invece la memoria, forse a causa dell’età, fa difetto ad un testimone indiretto dei fatti come il dirigente del PCI Pietro Ingrao, all’epoca della rivoluzione direttore del quotidiano del partito «l’Unità». Nelle sue memorie[14] così ricostruisce questi avvenimenti: «Nagy fu arrestato su una macchina dell’ambasciata jugoslava che tentava di recarlo in salvo: venne fucilato pochi anni dopo». Una breve frase che, come si può notare, assomma vari errori e molta approssimazione.
Sia Kádár che i sovietici si concentrarono inizialmente sulla responsabilità politica di Nagy. Il presidium del PCUS del 27 novembre 1956 indicò al ministro degli esteri sovietico, Šepilov di collaborare col KGB e l’esercito per riunire materiale che potesse discreditare Nagy. Nel catalogo delle violazioni compilato il 4 dicembre, oltre all’ampia esposizione delle ‘confusioni’ ideologico/teoretiche attribuite a Nagy, si trovano iscritte anche le sue connessioni del 1956 con gli jugoslavi. Egli era anche intrattabile per quanto riguarda i dati offerti ai servizi di sicurezza sovietici negli anni Trenta, il suo passato come ‘compagno Volodia’[15], per allora segretissimo. Queste informazioni affermavano semplicemente che Nagy, come responsabile del ‘dipartimento del villaggio’ del partito era stato in contatto con persone sospettate di spionaggio. Così gli allegati avrebbero potuto servire come prove di colpevolezza in un processo spettacolo di vecchio stile stalinista, ormai però fuori tempo nel 1956[16]. Nella risoluzione del comitato centrale del MSZMP del dicembre 1956 Kádár descrisse l’attività di opposizione del ‘gruppo Nagy-Losonczy’ come una delle cause, sebbene non la principale, della ‘controrivoluzione’.

La ‘responsabilità di Nagy e degli altri per gli eventi in Ungheria e le loro conseguenze giuridiche’ fu il soggetto della discussione dapprima al summit dei cinque Partiti comunisti dell’Europa dell’Est, URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania, tenutosi a Budapest dal 1° al 3 gennaio 1957. Le fonti disponibili, cioè le note delle delegazioni cecoslovacca e rumena, non ci rivelano da chi abbia avuto origine l’idea di discutere tale tematica[17], molto probabilmente dai sovietici. Sebbene Kádár ritenesse che nelle decisioni riguardanti questa materia si dovesse sempre associare quanti più numerosi soggetti possibile, come attesta un’abbondante documentazione, gli incartamenti della leadership del partito ungherese non menzionano il suggerimento originario ed il summit di gennaio lasciò poche tracce. Similmente si cercherebbe invano una risoluzione che indicasse ‘i colpevoli’ di determinate responsabilità. Chruščëv, nel mezzo della sua battaglia contro i vetero-stalinisti, voleva concludere la situazione in Ungheria con una rinnovata dimostrazione di forza e mostrare la propria potenza anche ad uno stizzito Occidente ed ad una vacillante Jugoslavia. Kádár, d’altro canto, non aveva fretta, per il momento. Il paese non dava segni di completa pacificazione e le sue deprimenti memorie dei dibattiti con i ‘revisionisti soft’ nella leadership del partito erano ancora freschi nella sua mente. Si sarebbe preso il suo tempo, al massimo tutto il tempo che occorreva.
Nel gennaio 1957 Kádár mandò Gyula Kállai a Bucarest a cercare di dividere il gruppo di Nagy e spingerli, Nagy soprattutto, all’autocritica, il classico rituale comunista. Egli non dava credito al vecchio primo ministro praticamente per nulla su questo punto, ma un’ammissione di responsabilità di Nagy avrebbe costituito un guadagno politico importante. Nagy non si lasciò minimamente persuadere: rimase fermo sulle decisioni che aveva preso in ottobre e novembre. Kállai riferì al politburo, ancora in funzione come ‘comitato esecutivo provvisorio’, al suo ritorno il 29 gennaio 1957, riguardo alla sua missione. Egli usò per primo la parola ‘tribunale’, facendo quindi presagire un processo, quando disse: «Quanto a Imre Nagy in collegamento con Jánosi, hanno svolto un ruolo serio nell’organizzazione, nella direzione e nell’orientamento ideologico della controrivoluzione, e più tardi occorrerà eventualmente esaminare se non debbano essere portati in tribunale»[18]. Kállai menzionò di aver parlato a Bucarest sia coi leader rumeni che con quelli sovietici e che «tutti i punti di vista riflettevano i suoi suggerimenti»[19]. E’ altamente improbabile che quella del procedimento legale fosse solo un’idea personale di Kállai. La formulazione del testo indica piuttosto la sua provenienza dallo stesso Kádár o da qualcuno nel circolo informale dei leader ed, in ogni caso, la scelta delle parole fa pensare ad un’iniziativa ungherese[20]. Il comitato esecutivo decise che «i fatti materiali dovevano essere raccolti esaminando le attività del gruppo Nagy in ottobre/novembre». Dopo che il comitato esecutivo provvisorio ebbe confermato quella decisione, fu pubblicato un pamphlet dal titolo: Dalla deviazione di destra al tradimento di classe: contributo alle attività teoretiche e pratiche di Imre Nagy e del suo gruppo[21]. Esso tracciava i punti di vista di Nagy ‘deviazionista di destra’ ed i suoi effetti pratici a partire dal 1947. L’intenzione era di mostrare che il leader di partito e statista Imre Nagy era stato un traditore della sua classe molto prima del 1956. Comunque è da notare che il pamphlet fu fatto circolare solo nella cerchia dei personaggi della dirigenza del partito. Era ormai chiaro che si alzava il tiro parlando di ‘tradimento’ e ‘traditore’, sempre nel tipico linguaggio marxista-leninista.

Nagy durante il processso

Nagy durante il processo

All’inizio del marzo 1957 Kállai si recò di nuovo a Bucarest, dove comunicò a Boris Ponomarev, capo del dipartimento relazioni con i Partiti comunisti stranieri del PCUS, che la maggioranza del comitato esecutivo del partito ungherese, cioè Kádár, Münnich e lo stesso Kállai, era favorevole ad organizzare un tribunale per procedere contro Nagy ed il suo gruppo. Ma gli interrogatori dovevano cominciare per primi da Losonczy, Fazekas e Szilágyi, il che suscitò a Ponomarev la domanda «se ciò significava che i leader del partito ungherese avevano derogato a qualche intento del loro piano iniziale di portare Nagy ed il suo intero gruppo alla responsabilità»[22].
Finalmente, alla fine di marzo, ci fu un aggiustamento delle posizioni. Al primo meeting sovietico-ungherese a Mosca dopo la sconfitta della rivoluzione, come Kádár riportò, «fu discussa la questione di Nagy. Noi sollevammo la questione. I compagni furono d’accordo che bisognava affrontare la questione della responsabilità con il rigore appropriato»[23]. Questa posizione fu approvata dal comitato esecutivo ed il 5 aprile anche dal comitato centrale del MSZMP. In più, Kádár patrocinò una ulteriore risoluzione del comitato esecutivo il 9 aprile 1957 che stabiliva «sulla base delle proposte del ministro dell’interno, che certi elementi[24] dovessero essere condotti in detenzione per interrogatori e per iniziare procedimenti penali»[25]. Durante la stessa riunione il ‘concetto’ di ‘interrogatorio’ e ‘procedimento penale’ fu stabilito nel modo che fu poi pubblicato in un’operetta dello stesso Gyula Kállai[26]. Le più importanti ‘determinazioni’ ivi contenute riguardano il fatto che l’insurrezione fu preparata da Nagy e dal suo gruppo ‘in collaborazione con gli imperialisti’. Questa diventerà poi la tesi standard del regime di Kádár e di tutta la pubblicistica filosovietica: una ‘controrivoluzione’ lungamente meditata e preparata con l’aiuto degli imperialisti, negando l’evidenza dei fatti dei giorni rivoluzionari, e sarà ripetuta verbatim nei rapporti e nelle minute degli interrogatori, fino all’atto di accusa e perfino nella motivazione del verdetto, trovando la sua espressione ed espansione letteraria ed in certo senso fattuale[27] nei cinque volumi del cosiddetto Libro bianco, che abbiamo avuto ampiamente modo di citare[28]. Il ‘concetto’ così adottato in aprile fu il passo in avanti decisivo che portò all’arresto degli imputati ed all’avvio della macchina giudiziaria. Da quel momento in poi il meccanismo funzionò senza veri intoppi sino alla fine. Il tenente colonnello della polizia Sándor Rajnai, un vecchio ufficiale della sicurezza, fu inviato in Romania a capo di uno speciale commando. Imre Nagy fu ufficialmente arrestato a Snagov domenica 14 aprile 1957 e trasportato a Budapest.

Chruščëv poteva ora riferirsi alla risoluzione del comitato centrale ungherese contro i traditori e alla risolutezza di Kádár nel ridurre al silenzio i suoi oppositori per tacitare chiunque cercasse ancora una volta di riportare in gioco il vecchio dittatore Rákosi. Era ora ampiamente chiaro che il suo protetto Kádár non avrebbe preso deviazioni pericolose. E sia a Mosca che a Budapest la posizione di Kádár era ormai divenuta stabile. Nella capitale ungherese lo rese visibile in modo palese la manifestazione del 1° maggio 1957[29]. Il suo profilo politico sembrò più coerente e le contraddizioni tra lo stalinista ministro degli interni successore[30] di Rajk ed il cauto e moderato antistalinista prigioniero liberato negli anni delle riabilitazioni volute dal primo governo Nagy si bilanciavano. Il vantaggio politico proveniente dal processo Nagy fu valutato insieme a Mosca ed a Budapest nell’estate 1957. Si credeva che un processo ed una possibile sentenza capitale potessero soddisfare uno stalinismo senza Stalin e senza Rákosi, mentre dimostravano al mondo l’invincibile potenza del campo socialista e ‘bruciando nella memoria’ di tutti i potenziali ribelli e dissidenti dimostravano anche che la resistenza era un’arma spuntata. I futuri imputati furono così arrestati ed il ‘concetto del processo’ rimase fissato, ma gli adempimenti preliminari andarono avanti con gradualità a causa della ‘stretta osservanza della legge’ [sic!].
Gli interrogatori erano già cominciati in Romania, le unità della sicurezza statale cercavano di procedere secondo le intenzioni di Kádár[31]. Tuttavia passarono comunque quattordici mesi dall’arresto di Nagy e dei suoi nove coimputati all’emissione del verdetto. Per completezza ricordiamo, secondo l’ordine delle fonti governative, tutti gli altri imputati oltre a Imre Nagy: Ferenc Donáth, Miklós Gimes, Zoltán Tildy, Pál Maléter, Sándor Kopácsi, József Szilágyi, Ferenc Jánosi, Miklós Vásárhelyi e Géza Losonczy che però non arriverà al processo del 1958, come sappiamo, essendo stato assassinato prima in carcere il 21 dicembre 1957 in circostanze misteriose, pare per alimentazione forzata[32].
Poiché della decisione politica sulla natura del processo era principalmente responsabile il ministero dell’interno il dipartimento preposto alla lotta al crimine politico fu forzato a cambiare completamente le primitive proposte per adattarle al nuovo piano. Quello originario era di fabbricare dei ‘traditori’ nell’esercito e nella polizia i ‘principali imputati’, sì da portarli a processo in primo luogo per ‘crimini controrivoluzionari’. Ora dopo parecchi mesi si era ben delineata la cerchia degli imputati principali. Un processo speciale fu impiantato per Pál Maléter e Sándor Kopácsi, arrestati rispettivamente il 3 novembre notte ed il 5 novembre. Ora essi vennero spostati, insieme con Miklós Gimes, che dopo il 4 novembre era stato uno dei più attivi organizzatori della resistenza ed era caduto prigioniero il 5 dicembre 1956, per divenire coimputati nel processo contro Nagy.

Per un certo tempo rimase poco chiaro se il processo sarebbe stato pubblico e chi sarebbe stato ammesso ad assistere. Così, ad es. il caso di Béla Király, che era già emigrato negli Stati Uniti, dapprima incluso nel processo a Nagy e coimputati, poi separato dal processo principale: non c’era nessun interesse nel processare un esule a porte chiuse. Zoltán Tildy stava già per essere arrestato in aprile secondo il piano originario del ministero dell’interno, ma il suo arresto fu rimandato per ragioni politiche fino a maggio. La procedura per ‘raccogliere le prove’ andò avanti lentamente poiché molti degli imputati proclamarono la loro innocenza ed a questa istanza la sicurezza dello stato, erede dell’ÁVH, non poteva usare mezzi illegali (leggi: tortura) per ottenere ammissioni di colpevolezza.
Nagy ed i coimputati furono accusati di cospirazione «mirante a rovesciare l’ordine democratico popolare ungherese»[33] al quale fine essi avevano detto di aver preso accordi già nel 1955 per ‘prendere il potere’ nel 1956 sulla base di un piano segreto. Nagy e Maléter furono anche accusati di alto tradimento. Ormai si era arrivati ai livelli massimi delle accuse per puntare con tutta facilità al massimo della pena. I punti dell’atto d’accusa si concentravano quasi esclusivamente su fatti – la loro condotta come oppositori interni al partito, le loro decisioni come responsabili ufficiali nel governo e nell’amministrazione, le loro apparizioni pubbliche, i loro documenti e la loro attività diplomatica – che vennero resi fatti criminali secondo il suesposto concetto di processo. Praticamente tutti i processi tenuti dopo il 1956 vennero condotti secondo questo metodo, quello dei fatti, diversamente dai processi spettacolo dell’era stalinista di fine anni Quaranta-primi anni Cinquanta, dove le più severe sentenze erano basate su accuse ben misere, prevalentemente ideologiche. Ma anche qui non possiamo tacere che c’è una componente ideologica dominante, potremmo chiamarla un a priori ermeneutico, e ne abbiamo seguito la costruzione, al quale poi i fatti, effettivamente avvenuti, devono piegarsi.
Il 22 giugno 1957 Kádár parlò al comitato centrale di «interrogatori lunghi e protratti». Menzionò parecchie ragioni per questo fatto, ma omise quella più importante. I leader sovietici avevano una buona ragione, poiché c’era ormai un interesse mondiale verso il processo per osservare da vicino e cercare di fare uscire dal chiuso ciò che era rimasto dentro una cornice di segretezza. I consiglieri di Mosca, probabilmente, avevano accesso a tutti i documenti importanti, anche a quelli dei quali non c’è traccia nelle udienze. Prima della summenzionata sessione del comitato centrale, Kádár ed il suo nuovo ministro dell’interno, Béla Biszku, si recarono a Mosca in visita ‘informale’ per riferire sulla preparazione del primo congresso del MSZMP e sullo stato degli interrogatori preliminari. Kádár consegnò tre documenti scritti: un rapporto sugli interrogatori che descriveva la situazione dei singoli imputati, una lista delle accuse ed una descrizione dei legami tra Nagy e gli jugoslavi. I leader sovietici, probabilmente, furono interessati soprattutto a quest’ultimo.

Un gruppo di stalinisti ortodossi, riuniti attorno a Molotov, cioé Malenkov e Kaganovič, con la complicità di Bulganin, tentò un putsch contro Chruščëv il 18 giugno 1957 nella riunione del presidium del comitato centrale del PCUS; in quel contesto essi gli imputarono anche il suo comportamento esitante durante la crisi ungherese, almeno nella prima settimana, fino al 31 ottobre. Sebbene il primo segretario del PCUS riuscisse vittorioso contro i suoi oppositori interni, dovette nuovamente sentire come ‘una dimostrazione di forza’ era ancora necessaria. Il 1° agosto 1957 l’atto d’accusa fu completato dal ministro dell’interno[34] e portato a Mosca da Béla Biszku. Questi riferì che la leadership del partito ungherese non era giunta ancora a nessuna conclusione sulla severità delle sentenze, ma che «durante la discussione della questione fu espressa l’opinione che si dovesse imporre la massima pena per Nagy, Losonczy, Donáth, Gimes, Maléter, Szilágyi e Király». Biszku aveva detto che l’atto d’accusa «era in ordine, ma doveva essere ancora sviluppato» in particolare riguardo «ai legami del gruppo di Imre Nagy con gli imperialisti»[35].
Queste formulazioni erano uno schiaffo alla routine. Chruščëv stesso era ora, probabilmente, molto meno convinto dell’importanza del processo Nagy di quanto lo fosse stato pochi mesi prima. Biszku aveva appena lasciato Mosca quando arrivò la prima richiesta sovietica di posporre il processo. Il processo era stato inizialmente messo in calendario all’epoca della sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU. Il rapporto della commissione speciale dell’ONU, detta ‘dei cinque’, quello al quale aveva molto collaborato il funzionario svedese Povl Bang- Jensen[36], istituita alla fine del 1956, riguardante gli eventi in Ungheria dell’autunno 1956, era stato pubblicato il 18 giugno 1957[37] e dopo quella data era rimasto all’ordine del giorno dell’Assemblea. Poiché la leadership ungherese aveva, a richiesta sovietica, rifiutato la collaborazione alla speciale commissione ONU, ci si aspettava che il rapporto condannasse sia l’Unione Sovietica sia il regime di Kádár per la repressione della rivolta popolare ungherese. Per cercare di evitare di danneggiare l’immagine e la posizione dell’Unione Sovietica era necessario prevenire la concorrenza del processo con la sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU. Quando la sessione dell’ONU fu completata senza eccessivi danni per l’URSS e la nuova Ungheria comunista[38] ed il processo ancora ritardato, esso venne posto all’ordine del giorno della conferenza dei Partiti comunisti in programma a Mosca per metà novembre 1957.

In una riunione a porte chiuse del comitato centrale del MSZMP del 21 dicembre 1957, le cui minute Kádár tenne accuratamente segrete fino alla propria morte, fu finalmente deciso «di dare luce verde al processo penale»[39]. En passant si noti che in questo frattempo si colloca il secondo importante intervento di Togliatti nella vicenda di Nagy, sul quale ci soffermeremo ancora[40]: un incontro previo alla conferenza moscovita dei Partiti comunisti del mondo di cui si ha notizia nei verbali della direzione del PCI del 26 novembre 1957 nel quadro del quale i due segretari parlarono del destino di Imre Nagy il giorno 10 novembre 1957[41] e del quale Kádár riferì in comitato centrale il 29 novembre[42]. L’atto di accusa fu sottolineato da Kádár in due punti. Primo, Nagy aveva «tradito la classe operaia» preparando per parecchi anni un piano segreto per «rinunciare alla guida del potere da parte della classe operaia, restaurare i partiti della coalizione ed abbandonare il Patto di Varsavia»[43]. Secondo, egli aveva commesso alto tradimento contro la Repubblica Popolare per aver perseguito questi obiettivi in quanto rappresentante dello stato[44]. Dei 51 membri del comitato centrale presenti il 21 dicembre 17 si espressero a voce e due mandarono i loro voti per scritto. Tutti furono d’accordo sulla proposta, la discussione ruotò solo sull’entità delle condanne, in particolare il numero delle condanne a morte[45].
La decisione fu discussa con Chruščëv, che diede il via libera. La sua risposta fu sorprendente: pretese di aver ‘dimenticato’ che i suoi sottoposti ungheresi erano d’accordo già in agosto per delle condanne capitali e chiese quale sarebbe stata la sentenza. Kádár riferì: «Il compagno Chruščëv affermò che era corretto ciò che era stato fatto finora, ma voleva sapere ciò che sarebbe stato fatto e come. Probabilmente si riferiva alla sentenza finale: prigione, rimproveri o cosa? Su ciò che noi avremmo fatto per il futuro, egli si dichiarava d’accordo»[46].
A questo punto Chruščëv era probabilmente più interessato all’opinione pubblica occidentale che alla repressione in Ungheria. L’esecuzione di Nagy e di altri suoi coimputati non si accordava per nulla con la sua nuova immagine assunta dopo la svolta del 1957-1958: quella di un leader simpatetico che combatte per la pace – l’uomo dell’anno della copertina di «Time»[47], con lo Sputnik come corona. Il gesto generoso di un’amnistia parziale o almeno di un gesto di generosità nel caso personale di Imre Nagy – approvato da Kádár, ma accreditato a lui – gli avrebbe molto giovato. Comunque Kádár rimase fermo sulle sue posizioni e non allentò la repressione.

Ignorando la richiesta di Chruščëv, l’atto d’accusa del procuratore generale Géza Szénási fu preparato rapidamente, reca infatti la data del 28 gennaio 1958[48] e quindi il processo poté cominciare mercoledì 5 febbraio 1958 nella prigione militare di Fő utca estesa dal numero 70 al numero 78[49]. Ma Mosca intervenne di nuovo, stavolta in modo molto più plateale. Il processo Nagy avrebbe potuto interferire negativamente con gli attuali piani politici sovietici a breve termine, per es. la proposta di un summit con le potenze occidentali. Il primo giorno effettivo del processo di Budapest, 5 febbraio 1958, il presidium del PCUS discusse del processo Nagy. Era l’unico punto in agenda ed una sola frase è rimasta nelle minute di lavoro come risoluzione: ‘Accettare la proposta (di esprimere severità e generosità)’[50]. Sebbene la ‘proposta’ non sia conosciuta, probabilmente significava che i sovietici ora favorivano una nuova soluzione, differente da quelle negoziate in precedenza. Volevano che il processo terminasse con pene severe, ma senza condanne a morte[51]. Forse questo momento può essere visto come cruciale per Nagy ed i suoi coimputati. E fu il momento nel quale Kádár, fedele alleato di Chruščëv, ebbe spazio per muoversi verso una più generosa e clemente soluzione del caso Nagy.
Kádár non poteva certo contraddire apertamente Chruščëv, ma non volle farsi nemmeno addolcire. Nel suo modo di vedere, Chruščëv non aveva prescritto nulla con esattezza, lasciando la decisione agli ungheresi. Kádár fece immediatamente sospendere il processo; esso fu interrotto formalmente su richiesta del procuratore generale Géza Szénási con la giustificazione che erano state raccolte nuove prove. La vera domanda fu posta da Kádár in una nuova sessione a porte chiuse del comitato centrale del 14 febbraio 1958: «Quali sono le nostre scelte? Primo: posponiamo; secondo: continuiamo, ma influenziamo il processo in modo che termini con un verdetto che non urti la situazione internazionale. Comunque, questa scelta sarebbe assai errata». Egli suggerì che il comitato centrale adottasse la prima proposta e rimandasse il processo. Uno dei membri candidati del comitato centrale suggerì che dopo la condanna a morte[52] avrebbe dovuto essere approvata qualche misura di clemenza. «Non è una soluzione praticabile», replicò Kádár nervosamente. E tutti furono d’accordo con lui. Così la leadership ungherese decise per un rinvio del processo, approvando implicitamente le condanne a morte[53]. E János Kádár si prese una più grande responsabilità, molto maggiore di prima, quella di compiere dei veri assassini politici, sebbene non fosse da solo.Nel marzo 1958 i membri del politburo del Partito comunista britannico, John Golan, R. Palme Durr e D. Matthews chiesero a János Kádár se la leadership ungherese volesse tenere conto della partecipazione degli altri Partiti comunisti riguardo al processo Nagy. Kádár rispose bruscamente: «Se non avessimo rispettato la partecipazione del comunismo mondiale, Nagy ed i suoi complici sarebbero stati da lungo tempo seppelliti»[54]. In modo caratteristico egli parlò ripetutamente di ritardi; così alla riunione del comitato centrale nel dicembre 1957: «Una pena sarebbe stata facile da capire il 4/5 novembre, ma dopo noi eravamo troppo deboli»[55]. E di nuovo il 14 febbraio 1958 durante la riunione del comitato centrale che discusse le proposte sovietiche sul processo: «L’aspetto più noioso della vicenda è che più il caso si complica, più il tempo passa. […] Quando avremmo dovuto concluderlo, la nostra forza non ce lo permise»[56]. D’altro canto egli era anche orgoglioso: «Siamo anche riusciti a mantenere la discrezione e questa è stata una buona cosa». Il giornale in esilio a Londra «Irodalmi Úiság» supplì quel «mantenere la discrezione» di Kádár con altre sue affermazioni e scrisse così: «Quando il processo sarà concluso opportunamente, noi avremo mancato della necessaria forza. Ora, mentre siamo abbastanza forti, il processo non è ancora opportuno»[57]. Divenne subito chiaro che Kádár era stato mal citato. Nessuno nella leadership di Budapest stava pensando ad una sentenza più mite.

La posizione di Kádár, nel frattempo, era divenuta più forte, abbastanza da perseguire il suo piano riguardo al processo Nagy fino alla fine. Poco dopo la visita di Chruščëv a Budapest in veste anche di primo ministro, dal 2 al 10 aprile 1958[58], egli disse: «Facendo conto dell’umore pubblico oggi rispetto a quello di un anno e mezzo fa, noi vediamo un chiaro successo politico come nessuno si sarebbe aspettato»[59]. Allo stesso tempo si approcciò al tema con grande cautela. Il politburo programmò una riunione del comitato centrale allargato per la fine di aprile nella quale il processo Nagy era uno degli argomenti da dibattere. Kádár rimandò l’incontro fino ai primi di giugno. Nel frattempo era stato a Mosca per essere informato del conflitto sovietico-jugoslavo che era di nuovo vicino a punti di rottura e per saggiare la risposta di Chruščëv al rifiuto degli Occidentali alle sue proposte di meeting. Il politburo ungherese si riunì il 27 maggio ed il comitato centrale il 6 giugno. La risoluzione segreta che ne scaturì stabiliva che «doveva essere chiarita la procedura per il procedimento penale contro il gruppo controrivoluzionario che deve essere ritenuto responsabile del tentativo di rovesciare l’ordine statale della Repubblica Popolare»[60]. Poiché si sarebbero potuti capire i messaggi che Chruščëv aveva mandato come suoi segnali di buona volontà per far sì che prevalesse la misericordia, Kádár adottò un atteggiamento niente affatto simile: in questo caso semplicemente fece orecchio da mercante, non volle capire il messaggio di Chruščëv.
I processi contro Nagy ed i suoi coimputati furono riaperti e stavolta portati rapidamente a termine tra il lunedì 9 giugno e la domenica 15 giugno 1958, a porte chiuse. Ritorneremo su questo svolgimento. In aprile, tra il 16 ed il 24, era stato processato e giustiziato a parte dal resto del gruppo József Szilágyi. Il processo contro Imre Nagy ed i suoi coimputati fu svolto davanti al consiglio popolare del tribunale supremo. Il giudice Ferenc Vida annunciò il verdetto, inappellabile, il 15 giugno. Imre Nagy, Pál Maléter e Miklós Gimes furono condannati a morte. Le condanne degli altri variarono: ergastolo per Sándor Kopácsi[61], dodici anni per Ferenc Donáth, otto per Ferenc Jánosi, sei per Zoltán Tildy, cinque per Miklós Vásárhelyi. Le sentenze capitali furono eseguite per impiccagione[62] poco dopo le 5 del mattino di lunedì 16 giugno nel cortile del carcere di Kozma utca 13 e l’annuncio ufficiale venne dato il giorno dopo col già citato Comunicato del Ministero della Giustizia[63].
Il prestigio di Kádár, come quello di Chruščëv, era ormai saldamente stabilito all’inizio del 1958. Egli non aveva bisogno del processo perché gli potesse capitare un attacco inaspettato da qualche settore. La motivazione originale – per segnalare alla ‘sinistra di Rákosi’ che il centro di Kádár era rimasto forte ed insegnare ai ‘revisionisti’ la lezione e, senza mezzi termini, per intimidire la società – erano impalliditi nel frattempo. Ora erano emerse all’attenzione altre considerazioni assolutamente nuove. Un processo che si fosse concluso con sentenze miti o persino con un’amnistia avrebbe rappresentato una perdita di prestigio e sarebbe stato preso come un incoraggiamento dal partito silenzioso dell’opposizione. L’effetto shock del 1956 andava metabolizzato gradualmente, tuttavia allo stesso tempo la spinta per la vendetta era crescente. Kádár era convinto che se Nagy fosse rimasto vivo non solo sarebbe stato una minaccia per lui personalmente, ma avrebbe minacciato l’intero ‘sistema’ comunista. Se il primo ministro della rivoluzione, con la quale ormai veniva identificato, fosse stato trattato con benevolenza, ciò sarebbe stato una prova vivente della perdita di legittimità di Kádár e del suo governo, si sarebbe aperta una crepa nel sistema di Kádár, le cui origini erano negli sforzi di Nagy negli anni 1953-56, una crepa irreparabile. Per Kádár il processo e quindi la morte di Nagy divenne una vera ossessione. Insistette che il comitato centrale discutesse i più piccoli dettagli e dichiarasse la sua posizione su ogni questione. Ne parlò spesso e con ampiezza, ma mai riuscì a spiegare con chiarezza il motivo per il quale il processo era davvero inevitabile. Egli parlò solamente a riguardo della giustificazione dell’atto d’accusa e della pena. Perfino nel 1989, poco tempo prima della sua morte, in particolare nell’intervento in evidente stato confusionale davanti al comitato centrale del MSZMP il pomeriggio del 12 aprile 1989, egli era ancora ampiamente coinvolto nel destino di Imre Nagy, tanto, come abbiamo accennato, da non riuscire a pronunciarne il nome, se non una sola volta verso la fine, ma da ricorrere a varie perifrasi[64]. Non si trattava solo di cattiva coscienza che lo torturava, così come lo aveva perseguitato per tutta la vita, impedendogli di pronunciare pubblicamente il nome di Imre Nagy, ma facendo ricorso, come nel caso citato al ‘necronimico’, una perifrasi per indicare il nome di un morto, ma piuttosto egli voleva in qualche modo cercare le parole ‘giuste’ per dire e ‘spiegare’ dal suo punto di vista la verità, specialmente che la decisione non era stata presa a Mosca, il che era vero, ma che era stata sua e che non c’erano state alternative perché Nagy si era rifiutato di collaborare, il che è invece falso[65] e, retrospettivamente, deve essere contata come ‘la bugia’ della vita di Kádár[66].

Ci pare opportuno concludere questa parte della ricostruzione del processo ad Imre Nagy ed ai suoi coimputati, in quella che è e resta una biografia di Nagy, con qualche breve considerazione riguardante il ruolo di Kádár in tutta la vicenda rivoluzionaria, qui arrivata al suo culmine nello scontro personale con Nagy. Chi scrive ha avuto modo di incontrare ed intervistare due dei figli dei coimputati di Nagy, cioè Julia Vásárhelyi e Ferenc Donáth jr. Entrambi hanno valutato il comportamento di Kádár come quello di un uomo assetato di potere, afflitto da complesso di inferiorità nei confronti di Nagy e della sua generazione[67], resosi burattino nelle mani dei sovietici pur di raggiungere i suoi scopi, un vero labanc, un traditore, nel gergo ungherese coniato nella guerra d’indipendenza del 1703-1711, quella di Ferenc Rákóczi II[68]. Sebbene molto duro e poi mitigato dalle capacità di governo indubbie mostrate in quasi trentadue anni di potere, il giudizio ci pare sostanzialmente condivisibile. Un autore che lo ha conosciuto ben più da vicino come George Pálóczi-Horváth ha parlato nel suo caso di ‘schizofrenia’[69]. In un articolo del marzo 1957 ricordò come Kádár fosse stato superato per la successione a Rákosi per il suo esplicito e diretto coinvolgimento nel caso Rajk. La ‘schizofrenia’, peraltro ben conscia, consisteva in un misto di illusione e di cinismo, di ossessione ed opportunismo, malattia comune a molti leader comunisti: ricerca del potere sì, ma al contempo, illusione che quel potere fosse proprio quel traguardo ideale del quale si era dibattuto tante volte nelle riunioni del partito ai diversi livelli, specie nei fervorosi inizi. Spesso uomini come Kádár e come questi leader comunisti vivevano nell’ossessione di venire continuamente giudicati, sia in pubblico che in privato, così, facilmente, la loro vita tendeva a sdoppiarsi, se non di più. Kádár è stato, per quel che ha dato a vedere, un rivoluzionario dal 25 ottobre al 1° novembre fino a prima dell’incontro coi sovietici. Dopo quell’incontro, che materialmente abbiamo illustrato[70], Kádár divenne un altro uomo, o almeno si comportò come tale, offrendo solo una blanda resistenza alle offerte dei sovietici. E’ vero che non sappiamo se sia stato esplicitamente minacciato, ma è altrettanto vero che ciò non risulta affatto[71]. E’ vero anche che nel primo degli incontri moscoviti Kádár non si mostrò favorevole ad un ‘controgoverno’, ma capì presto che aveva poco margine di scelta. I sovietici avrebbero agito anche senza di lui e la sua sorte sarebbe stata segnata non meno di quella di Nagy. In particolare i suoi interventi cronologicamente vicini alla fondazione del nuovo Partito comunista ungherese, come la dichiarazione del 30 ottobre nella quale si dichiarava d’accordo con il ritorno al governo di coalizione anche a nome del partito e l’intervista al giornalista italiano Bruno Tedeschi, inviato del «Giornale d’Italia», datata 2 novembre[72], nel giorno di nascita del MSZMP, mostrano un suo atteggiamento di condivisione dell’impulso democratico scaturito dalla rivoluzione. Al giornalista italiano che gli chiedeva quale tipo di comunismo intendesse rappresentare rispose: «Quello nuovo nato dalla rivoluzione […]. Il nostro comunismo è ungherese, è una specie di terza linea, senza alcun rapporto né col titoismo, né con Gomulka. […] E’ il marxismo-leninismo applicato alla nostra nazione, alle sue esigenze particolari […]. Questa terza linea proviene dalla nostra rivoluzione nel corso della quale, lo sapete, molti comunisti si sono battuti a fianco degli studenti, degli operai, del popolo».

Alla domanda se questo comunismo avrebbe assunto una forma democratica Kádár rispose: «La sua domanda è corretta. Vi sarà un’opposizione e non una dittatura; questa opposizione sarà ascoltata perché si esprimerà in funzione dell’interesse nazionale ungherese e non di quello del comunismo internazionale»[73]. Parole che Nagy avrebbe potuto sottoscrivere. Insomma, tutte le evidenze mostrano il Kádár ‘rivoluzionario’ di cui ha detto Pálóczi-Horváth, specie il suo famoso discorso di esaltazione della «nostra gloriosa rivoluzione» dello stesso 1° novembre. Pesò l’assassinio del suo amico Imre Mező? Certamente sì. Pressoché decisivo fu il ‘colloquio’, per così dire, con l’ambasciatore Andropov, ma soprattutto con Ferenc Münnich. Non vogliamo dire che la sua decisione non sia stata travagliata, lo ha attestato lui stesso a metà anni Ottanta per una sua biografia ufficiale[74]. Desta stupore la rapidità del voltafaccia ed il completo adeguamento ad una versione dei fatti, diciamo ad una loro ermeneutica, completamente opposta a quella sostenuta fino a tre giorni prima: la totale svendita della coscienza alla menzogna. Una rapidità opportunistica da far invidia all’eponimo contemporaneo di simili comportamenti, il norvegese Vidkun Quisling. Quanto agli aggettivi adoperati per qualificare il nuovo ‘governo’, ‘rivoluzionario’, ‘operaio’ e ‘contadino’, tratti dal lessico marxista-leninista, si veda ciò che ne scrive con vero puntiglio Méray[75] per falsificarli ad uno ad uno. Abbiamo già accennato all’ultima apparizione pubblica di Kádár il 12 aprile 1989. Al 26 maggio, giorno del suo 77° compleanno risale una sua ultima lettera, pare scritta dalla moglie e da lui firmata, nella quale si chiede di riesaminare legalmente la validità del processo Nagy, compresa la sua eventuale ingerenza perché cessassero le insinuazioni diffuse in proposito in quel periodo sul suo ruolo. Ci pare appropriata la definizione che Argentieri ed altri autori ne hanno dato di ‘Kádár Macbeth’[76], cioè personaggio eternamente tormentato dal rimorso dei propri crimini, che pure gli hanno assicurato il potere[77]. A proposito di legittimità governativa, sebbene questo sia un mero esercizio di filosofia politica astratta, non ci pare scorretto ricordare che, formalmente, il ‘governo rivoluzionario operaio contadino’, deciso al Cremlino il 3, ma costituito ‘legalmente’ il 4 novembre 1956[78] era un governo illegittimo, illegale, un vero ‘controgoverno’ nel senso dottrinale del termine (es. ‘antipapa’ o ‘antimperatore’), non essendo mai intervenuto un legittimo atto di cessazione del legittimo governo presieduto da Imre Nagy insediato dagli organi direttivi della Repubblica Popolare Ungherese la notte del 24 ottobre 1956[79]. Il punto emerse in modo imbarazzante persino davanti al tribunale[80]. Tale ‘illegittimità formale’, che, ovviamente si estende a tutto l’arco del regime comunista, a tutti governi dell’era comunista post 1956[81], non solo al primo presieduto da Kádár, è stata solo de facto sanata dal riconoscimento accordato al regime dagli altri stati sovrani, a partire da quelli del blocco comunista. Ci confortano in questa presa di posizione il giudizio di uno storico autorevole come Romsics, il quale commentando la morte di János Kádár avvenuta il 6 luglio 1989, tre settimane dopo i solenni funerali simbolici di riabilitazione di Nagy e degli altri giustiziati nel processo qui illustrato, avvenuti il venerdì 16 giugno precedente[82], per di più nel giorno nel quale la corte suprema ungherese cassava giuridicamente quello stesso processo del 1958, scrive come primo giudizio più benevolo di altri sul suo operato[83]: «[…] un uomo che usò la sua autorità indubbiamente illegittima per il bene e la prosperità della nazione ungherese»; ed ancor più la testimonianza di un diretto protagonista degli eventi rivoluzionari come Miklós Vásárhelyi che su «La Stampa» del 25 giugno 1995 ebbe a scrivere: «Krusciov [così nel testo, N. d. A.] già in quella seduta [quella del presidium del PCUS del 3 novembre 1956, quando fu decisa la formazione del ‘governo rivoluzionario operaio contadino’ ungherese da affidare a János Kádár] qualificò Imre Nagy come traditore e dichiarò che i sovietici per parte loro lo avrebbero arrestato già da tempo. […] In base ad esperienze storiche sappiamo quali conseguenze abbia nel regime sovietico il fatto che il partito comunista definisca qualcuno come traditore e sostenga la necessità del suo arresto[84]».

Infatti è ben difficile, anche in un regime autoritario come quello delle democrazie popolari, vedere la legittimità di un capo del governo che s’insedia rovesciando quello legittimo, del quale governo ha fatto parte fino a tre giorni prima, grazie alla forza d’occupazione militare massiccia di un esercito straniero. Come già dicevamo, non è certo la forza del diritto ad imporsi, ma solo il brutale diritto della forza. Radicalmente, poi, lo ‘schizofrenico’, secondo Pálóczi-Horváth, voltafaccia di Kádár ci sembra contenere già in nuce, per una sorta di autodifesa storica del proprio ruolo, sia il processo Nagy ed il suo esito mortale[85], sia anche l’ondata repressiva scatenatasi tra il 1957 ed il 1959 e sulla quale non possiamo soffermarci nel nostro testo[86]. Caso emblematico, persino leggendario, della durezza della repressione post-rivoluzionaria è divenuto quello di Péter Mansfeld (nato il 10 marzo 1941 a Pest), il giovanissimo aderente al gruppo di piazza Széna comandato dallo ‘zio’ János Szabó, tra le staffette di quel gruppo di insorti, resosi poi colpevole, in gruppo con altri giovani, dell’aggressione ad un poliziotto di guardia all’ambasciata austriaca il 17 febbraio 1958, peraltro rilasciato del tutto incolume. Di tutto il ‘gruppo criminale’ il solo Mansfeld fu condannato a morte[87] e giustiziato il 21 marzo 1959, undici giorni dopo aver compiuto i diciotto anni, per rispettare il divieto di giustiziare minorenni[88].
Quando il 22 novembre 1956 il gruppo di Nagy fu rapito all’uscita dall’ambasciata jugoslava e rapidamente deportato in Romania, essi non poterono più, sebbene in spregio del diritto internazionale, cercare asilo, ma erano veri prigionieri. Imre Nagy era stato arrestato parecchie volte nella sua vita, come abbiamo avuto modo di vedere[89], ma tranne nel primo caso come prigioniero di guerra, non aveva mai passato più che qualche settimana o solo giorni in detenzione. Il 4 novembre 1956 un uomo di sessant’anni anni cominciò una prigionia di oltre un anno e mezzo dalla quale solo la morte l’avrebbe liberato. Fino al 16 giugno 1958, giorno della sua esecuzione, la questione della sua libertà, della sua vita o della sua morte dipesero molto poco da quello che egli stesso scelse di fare o non fare. Il sentimento di agonia, di essere ridotto ormai senza speranza di aiuto, deve essere stato particolarmente tormentoso per un uomo politico che almeno negli ultimi dodici anni aveva giustamente creduto che la sua attività avesse avuto un’influenza decisiva sul destino suo personale e su quello di molti altri, a volte su quello dell’intera Ungheria.
Tuttavia la situazione non sembrò completamente senza speranza di capovolgimento. I prigionieri furono tutti sistemati a Snagov, 40 km ca. a nord di Bucarest in un complesso di vacanza usato dai membri del partito rumeno[90]. Tale uso del complesso di Snagov si prolungherà nel tempo: anche Nicolae Ceauşescu se ne servirà. Oggi un monumento a Imre Nagy, situato nella scuola, ricorda la prigionia sua e dei suoi compagni. In particolare Nagy fu separato dagli altri suoi amici e dalla sua famiglia, anche sua figlia Erzsébet e suo genero Ferenc Jánosi ed i loro figli ebbero un’altra sistemazione: lui e sua moglie Mária ebbero una casa per conto proprio. Vennero trattati bene all’inizio: venivano programmate per loro uscite così come proiezioni di film. Ricevevano libri e giornali ed avevano regolari visite mediche. Occasionalmente ricevevano anche ospiti, in particolare funzionari del partito rumeno, molto spesso Walter Roman, una conoscenza di Nagy dei tempi di Mosca. Questi cercò di coinvolgere Nagy in un dibattito ideologico e persuaderlo all’autocritica. Ma rimaneva il fatto che Nagy era un prigioniero. Lui e sua moglie non potevano allontanarsi oltre il giardino della casa, erano sotto sorveglianza da parte degli agenti della Securitate rumena, la polizia politica del regime comunista, le loro conversazioni erano ascoltate e registrate, comprese quelle con Roman e con Gyula Kállai, che lo incontrò come rappresentante di Kádár, ed ogni cosa che Nagy scriveva, anche la più insignificante, era sequestrata dalla casa e fotografata[91].

Tutto ciò rese un buon servizio al lavoro delle guardie, poiché Nagy passava la maggior parte del tempo scrivendo. Sebbene rifiutasse di sottomettersi all’autocritica, trovò assolutamente necessario fissare per scritto un sommario delle sue attività, forse pensando che fosse l’ultimo compito che gli rimaneva. Géza Losonczy ed altri avevano già cominciato all’ambasciata jugoslava a fissare ciò che era accaduto tra il 22 ottobre ed il 4 novembre. Nagy prese parte a questo sforzo, ma scrisse anche sue note indipendentemente, così da presentare materiale per un suo proprio punto di vista. Giudicando da questi frammenti e dalle parti complete egli non intese scrivere una storia della rivoluzione ungherese, ma voleva piuttosto confezionare un ritratto teoretico dell’insurrezione. I suoi scritti di Snagov[92] vanno letti come se egli stesse preparando una nuova versione di quel ‘programma’ che cominciò nel 1955, continuò nel 1956, ma non riuscì mai a terminare. Fondamentalmente il suo approccio non cambiò rispetto a quegli anni: dapprima egli discuteva le accuse, poi, sulla base di argomenti presentati ‘in modo logico’ protestava contro il trattamento inappropriato ed ingiusto che gli veniva inferto. Quei passaggi che descrivono gli avvenimenti mostrano con chiarezza il suo intento di inquadrare la sua versione dei fatti storici dentro uno schema teoretico. Egli stesso chiamò questo metodo ‘una vera analisi marxista-leninista’. Il manoscritto, intitolato originalmente in ungherese Gondolatok, emlékezések (‘Pensieri, ricordi’) rimase incompiuto[93]. Si può comunque dire che è la sua opera più importante, il suo testamento politico e ci riserviamo di riparlarne nel prossimo capitolo.
Nagy in realtà voleva solo una cosa: dire la verità sull’intera storia che aveva visto e vissuto; e ciò significava parlare di sé stesso e della rivoluzione ungherese, che erano ormai diventati un’unica e medesima realtà. Non voleva, per il tempo che gli rimaneva, concepirsi come un testimone o come un martire. Perfino a Snagov, da ‘educato’ comunista, continuò a credere di poter vincere i suoi avversari e nemici in un acceso e protratto dibattito. Si preparò per la polemica così come l’aveva condotta negli anni 1947-1949 e 1955-1956, con la differenza che ora voleva persuadere l’intero movimento mondiale per mezzo di una lezione scolastica, o qualcosa di molto simile. Scrisse anche molte lettere, che non furono mai recapitate ai destinatari[94], ma furono attentamente conservate negli archivi segreti della polizia politica e scoperte per la prima volta solo alla fine degli anni Ottanta[95]. Nagy chiedeva che l’intero gruppo fosse fatto emigrare in Jugoslavia e proponeva la costituzione di una commissione internazionale comunista di fronte alla quale lui e gli altri coinvolti nella rivoluzione ungherese si sarebbero potuti giustificare. Egli riteneva che gli avvenimenti avessero provocato la rivoluzione, che si fosse trattato di un giustificato movimento popolare comprensibile nei termini delle sue cause. Di fatto, al di là delle polemiche ideologiche, è questa la visione storiografica che si è imposta. Abbiamo ben visto quale matrice non veramente fattuale, ma ideologica, abbia la lettura ‘controrivoluzionaria’. Ma non è questo il luogo di un dibattito storiografico[96]. Ogni tanto anche Nagy aveva i suoi dubbi. Così, ad es. egli disse secondo la frammentaria trascrizione della sua conversazione registrata con Gyula Kállai il 25 gennaio 1957: «Credo che potevamo porre fine al caos con i nostri mezzi. […] Ma per l’intrusione delle forze militari sovietiche dovetti cavarmela a cercare di chiarire la situazione in Ungheria». Quando poi Kállai chiese: «C’era la rivoluzione?» Nagy rispose: «Non posso chiamarla così […] qualcosa come una rivoluzione. Ma quel che allora accadeva, posso solo chiamarla una controrivoluzione con elementi fascisti […] ma devo dire che c’era anche una rivoluzione allo stesso tempo. Ciò che si è detto in Europa, che gli avvenimenti ungheresi portavano al ristabilimento del capitalismo, questo io non l’ho visto. Non sarebbe mai potuto accadere».
E verso la fine della conversazione registrata Nagy ebbe a ripetere: «Su questo ho una ferma opinione»[97].Già all’inizio della conversazione Nagy disse a Kállai: «Se vuoi portarmi davanti ad un tribunale o mandarmi in prigione, prendimi, non ho paura». Durante quei mesi Nagy visse in uno stato di grande tensione e di elevato stress emotivo.

Ma la distanza e la reclusione lo resero spesso insicuro e lo indussero a periodi di depressione. Anche nel sonno non poteva trovare tregua dai suoi avversari. Fu udito dire casualmente a sua moglie: «Stanotte ho sognato che né io, né Kádár venivamo eletti, votavano contro di noi»[98]. Le sue note sovrabbondano di commenti negativi su Rákosi, Révai e Kádár. Li condanna nello stile dei profeti dell’Antico Testamento per i loro crimini che egli conosceva o pensava di conoscere. Il testo combina insieme giustificate lagnanze per il passato con storie inutili. Accanto a crimini davvero importanti stanno lagnanze dell’epoca dei processi spettacolo degli anni Quaranta, ad es. le supposte colpe di Kádár per lo scioglimento del KMP nel 1943. Si trovano inclusi anche rilievi sulle origini ebree di Rákosi, Gerő, Révai, tre dei quattro membri del famigerato ‘quartetto’ di quell’ epoca, supponendo che questa fosse la ragione per la quale essi non furono accettati dal popolo ungherese «come rappresentanti della nazione ed ancor meno come suoi leader»[99], perfino sebbene essi «cercassero di essere più grandi nazionalisti dei magiari»[100]. Verso la metà di febbraio 1957 Nagy interruppe bruscamente il suo sistematico ritrarre gli eventi rivoluzionari, chiaramente in relazione ai dubbi che lo colsero nella rilettura di ciò che aveva scritto riguardo ai suoi avversari politici. Si dimostrò anche sufficientemente autocritico chiudendo le sue riflessioni con queste parole[101]: «Dopo aver letto queste 550 pagine, sono giunto alla convinzione che è meglio che mi fermi qui. […] Sotto l’influenza degli eventi, che difficilmente poteva essere evitata, guardandoli da un solo lato, pregiudizi, carenza di senso critico e risultanze di false conclusioni hanno guadagnato il predominio. Cattivi sentimenti personali, offese ricevute e dolore hanno anche giocato un ruolo significativo».
Dopo la visita di Kállai a Snagov a fine gennaio 1957, Nagy scrisse una bozza di lettera alla leadership del MSZMP nella quale si dichiarava pronto a sostenere il ‘consolidamento’ del regime di Kádár. Annunciava la sua volontà di rinunziare alla sua attività di opposizione e, allo stesso tempo, si rivolgeva ai lavoratori perché rinunciassero allo sciopero come arma di lotta: certamente non poteva sapere che la resistenza dei consigli operai era già stata stroncata con la forza. Egli inoltre negò di avere una stima degli avvenimenti dell’ottobre, desiderando che si differissero più in là e protestò per le accuse apparse contro di lui sulla stampa ungherese. Forse, nel suo isolamento in un resort rumeno, pensò che la sua volontà di compromesso avrebbe potuto aiutare ad allontanare il peggio, specialmente il ritorno di Rákosi e dei suoi seguaci. Mantenne il dissenso su molti punti e con ciò la possibilità di una strada differente, ma pur sempre all’interno del partito. A quel tempo Nagy non riceveva la stampa quotidiana e ciò fu parecchie settimane prima che sapesse della risoluzione di febbraio del comitato esecutivo provvisorio del partito. Poi finalmente capì che non si doveva preparare per una discussione, ma per un processo e per la morte. Non spedì più la sua ‘lettera di compromesso’[102].

Egli fu cosciente di quanto avesse bisogno di pace interiore e di rassicurazione di fronte alle anticipate minacce ed accuse. In base a ciò egli si rivolse al passato e nelle sue ultime settimane di permanenza a Snagov cominciò a lavorare alla sua autobiografia, intitolandola Viharos emberhöltő[103]. Il sottotitolo era Schizzi della mia biografia: 1896-195…? e quel punto di domanda lo seguì per quasi due anni. Di fatto, poi ne ebbe poco più di uno. Il suo stile di scrittura è completamente differente dal gergo stilizzato marxista-leninista delle oltre 500 pagine scritte nei mesi passati. Sebbene egli avesse intenzione di cominciare ed abbia cominciato di fatto con un progetto preciso (nascita, famiglia, condizioni sociali, ecc.), presto la narrativa prese il sopravvento e Nagy, il ragazzo di Kaposvár, andò raccontando la storia della sua giovinezza, dell’infanzia, delle sue monellerie, il primo amore, i travagli della guerra e così via. Come si può leggere all’inizio del nostro lavoro[104], ed ogni lettore può giudicare dalle citazioni riportate, queste note hanno davvero un tocco personale e sono scritte in un linguaggio vivo, pittoresco, tale da sembrare di trattarsi di una persona completamente diversa dall’autore dei ‘Pensieri’. La memoria si spezza in piccole mezze frasi ricordando gli eventi del 1918, punto nel quale la narrazione s’interrompe per l’arresto operato, abbiamo visto, il 14 aprile 1957 dallo speciale commando guidato dal tenente colonnello Rajnai.
Lo stesso giorno l’intero gruppo venne condotto via in aereo da Snagov all’aeroporto militare di Tököl, presso Budapest, luogo ormai ben noto dopo la trappola del 3 novembre notte per la cattura di Maléter[105]. Di lì furono condotti, ammanettati e con gli occhi coperti come pericolosi criminali, alla prigione del ministero dell’interno in Gyorsokocsi utca, attigua alla sede della corte penale militare di Fő utca, prossima sede del processo, in uno speciale dipartimento investigativo indicato con la lettera ‘K’[106], costituito appositamente per loro come dipartimento separato della polizia politica. Sándor Rajnai, tenente colonnello, già in forza alla polizia politica, fu il diretto responsabile della parte istruttoria del processo, esaminatore diretto di ciascuna di queste persone, in tutto ottantotto, «che durante la controrivoluzione hanno esercitato una funzione guida nell’organizzazione». Steccati di legno separavano il dipartimento dalle ‘normali’ celle investigative collocate su un piano separato. Trent’anni dopo Miklós Vásárhelyi descrisse così le condizioni di quel luogo[107]: «Tutti noi che sopravvivemmo fummo tenuti dall’aprile 1957 all’agosto 1958 in completo isolamento […] confinati in celle piccole, scure con finestre chiuse da coperture di metallo, attraverso le quali solo occasionalmente penetrava un raggio di luce; nelle celle una lampada da 25 watt era accesa notte e giorno. Durante il giorno bisognava stare seduti su una cuccetta su un lungo muro, cosicché le guardie potessero sempre vederci, e, per la stessa ragione, si poteva camminare solo per la lunghezza della cella. […] Le guardie indossavano pantofole di lana, sicché non si poteva mai sapere quando essi fossero alla porta a guardare dallo spioncino. Ci era permessa una passeggiata nel giardino solo raramente – contrariamente alle regole – forse una volta al mese ed anche quella per pochi minuti in un passaggio stretto separato dal resto del giardino della prigione da un alto muro in mattoni. Naturalmente ci era permesso andare nel giardino solo uno alla volta. […] Eravamo svegliati alle sei del mattino, le luci venivano spente alle nove di sera; e nel frattempo bisognava pulire la cella, si ricevevano i pasti e c’erano gli interrogatori».
L’isolamento era così perfetto che, secondo i ricordi della maggior parte dei prigionieri, nessuno sapeva che Nagy ed il suo gruppo passarono tutto il tempo nella prigione di via Gyorsokocsi. Sebbene i processi fossero stati preparati da almeno due mesi per quel periodo, poco ‘materiale’ era disponibile per gli ufficiali addetti agli interrogatori – molti dei quali avevano una lunga esperienza nella polizia politica – tranne per il materiale ‘politico’. I metodi per gli interrogatori erano come quelli del passato, ma con differenze importanti: essi non venivano sottoposti all’uso della forza fisica o all’elettroshock, né alla privazione del sonno[108]. Nessuno di loro era già stato mai classificato come ‘sospetto’ e perciò, secondo le regole della procedura penale, era stato assegnato a ciascuno di loro un avvocato. Il principale scopo degli interrogatori era di assicurare le ‘confessioni’ secondo i piani fissati per scritto messi a punto nelle ‘sessioni di lavoro’. Le minute erano buttate giù dall’ufficiale che svolgeva l’interrogatorio alla fine dell’esame e firmate dal prigioniero, magari dopo aver cambiato una o due parole. I testimoni così prodotti permettevano soltanto di confermare una conclusione già definita riguardo a ciò che era stato appena detto.

Dalla prima domanda dei suoi interrogatori, Nagy poté vedere, come aveva sospettato da sempre, che per lui era in preparazione un processo spettacolo. Egli rimase ostinatamente in silenzio, senza rispondere a nessuna delle domande dal 15 aprile fino a metà giugno ca. e non firmando nessuna delle minute. Troviamo sue firme solo su due note al procuratore generale del 10 e 15 maggio nelle quali protestava contro la sua detenzione ed i suoi interrogatori. Ovviamente non ricevette risposta.
I prigionieri, separati gli uni dagli altri e dal mondo esterno, non resistettero alla pressione psicologica molto a lungo. Nelle udienze venivano accusati di crimini molto gravi e molti di loro riconobbero le loro ‘responsabilità’, anche quando resistettero alla maniera con la quale venivano interpretati i fatti da parte degli ufficiali accusatori. Le eccezioni furono József Szilágyi, che come Nagy si rifiutò di collaborare in qualsiasi modo, e Pál Maléter, che si rifiutò di ammettere qualsiasi tipo di colpa. D’altro canto, Géza Losonczy, già seriamente malato dal punto di vista psicologico, alla prova del suo imprigionamento perse completamente il suo equilibrio dopo uno sciopero della fame ed ammise di aver commesso una varietà fantastica di crimini. Ed anche la salute di Nagy, ovviamente, era peggiorata alla fine di maggio; era mentalmente esausto e di nuovo soffriva di problemi di cuore. Gli ufficiali che conducevano gli interrogatori gli parlavano continuamente della fluente serie di ammissioni da parte dei suoi compagni prigionieri e gli mostravano, con dei commenti, numerosi articoli di giornale sui ‘brutali atti della controrivoluzione’. Le pressioni esercitate su di lui ebbero il suo effetto, cosicché Nagy, che aveva mantenuto un ostinato silenzio, si presentò per essere ascoltato il 14 giugno 1957.
Egli fu sfidato a sostenere le accuse per le quali aveva ammesso le sue colpe e replicò soltanto: «Non mi sento in colpa in nessun modo e voglio solo riferire sulle mie attività»[109]. Dopo alcuni giorni gli interroganti notarono che i prigionieri avevano preso in mano la direzione dei loro colloqui. Essi non capivano perché i processi non si aprissero nel modo abituale: in primo luogo, la descrizione dell’imputato e della sua storia personale era seguita dai ‘fatti del caso’ e dalla valutazioni in termini dell’accusa, dopo di che ci si aspettava di spezzare la resistenza del prigioniero e la sua confessione con una sua autoaccusa, una vera abiura del suo passato comportamento. Comunque Nagy raccontò soltanto ciò che egli riteneva rilevante secondo la visione con la quale si era rappresentato i vari passaggi della sua carriera politica e si difese contro ogni aggiustamento ex post dal punto di vista delle accuse contro di lui. Alla fine, l’11 luglio, affermò che avrebbe discusso di altri argomenti solo di fronte alla corte.

Nell’atto d’accusa che venne dal ministero dell’interno il 10 agosto 1957, con l’approvazione preventiva di Mosca, Nagy era ritratto come l’istigatore di ‘un gruppo di traditori’ che aveva tentato di prendere il potere. L’accusa stabiliva che egli aveva sviluppato basi teoretiche e piani pratici per tale presa di potere, aveva impiegato mezzi illegali per la realizzazione di questi piani e si era applicato ad essi con i suoi atti nei giorni di ottobre/novembre 1956, definiti, ovviamente della ‘controrivoluzione’, secondo lo schema ideologico già visto. Non era richiamato che Nagy volesse restaurare il sistema capitalistico, solo che aveva tramato per ‘una traditrice politica nazionalistica’ insieme ‘con elementi controrivoluzionari’, dando forza alla restaurazione: il suo scopo attualmente delineato non era che la presa del potere. L’atto d’accusa, sulla scia dell’operetta di Kállai[110] cercò nientemeno che la criminalizzazione dell’intera opposizione del partito in tutte le sue manifestazioni ed azioni, cominciando dal famoso memorandum inviato al comitato centrale nell’ottobre del 1955. L’atteggiamento esitante di Nagy la sera del 23 ottobre 1956 fu dipinto come un incrocio che portava al ‘riaggiustamento degli eventi’ attraverso il politburo del 28 ottobre e la falsificazione della risoluzione del comitato centrale successivo. Non si può risparmiare una nota ironica ad una tale ricostruzione: evidentemente si attribuivano a Nagy ed al suo gruppo poteri paranormali, quelli di sapere già il 23 sera cosa fare il 28 successivo! La formazione del gabinetto era essa stessa giudicata una mossa cosciente verso la liquidazione del regime comunista. Inoltre l’atto d’accusa asseriva che la formazione della guardia nazionale paralizzò le forze di difesa nel loro insieme [sic!] e la responsabilità di questo atto ricadeva interamente su Nagy. L’atto d’accusa, poi esaminava la delicata questione della neutralità alterando e ritorcendo i fatti: si affermava che Nagy l’aveva già proclamata nel suo discorso alla folla al palazzo del Parlamento il 31 ottobre e così facendo aveva messo il gabinetto di fronte al fatto compiuto. In pratica questo avrebbe ‘legittimato’ l’intervento sovietico. Abbiamo visto sopra che le cose sono andate ben diversamente[111]. Invece la nota di Nagy del 1° novembre è descritta come un ‘appello agli imperialisti’ ed il suo messaggio radio del 4 novembre è dipinto come ‘un appello al popolino a seguitare la lotta contro le truppe sovietiche’ [sic!]. L’accusa conclusiva nell’atto consisteva nel dettagliato racconto dell’attività ostile che Nagy aveva proseguito anche nei giorni della permanenza all’ambasciata jugoslava, ‘contrariamente al consiglio dei compagni jugoslavi’. L’atto d’accusa lo incolpava del sorgere del movimento, di dirigerlo contro la Repubblica Popolare Ungherese, l’ordine democratico dello stato e di alto tradimento. Secondo le leggi in vigore tali accuse meritavano la pena di morte[112].
Alla fine degli interrogatori Nagy non fu messo a confronto né con gli altri imputati, né con nessuno dei testimoni. Il 17 agosto gli furono consegnate le confessioni degli altri imputati da leggere e ciò ebbe l’effetto forte su di lui che i suoi inquisitori si aspettavano. Non appena egli vide che gli altri imputati confermavano, anche se solo in parte, le accuse contro di lui, la sua resistenza si rafforzò. Laddove aveva in passato unicamente rigettato le accuse di attività di opposizione, come presentata nell’atto di accusa, ora discusse ogni dettaglio fattuale che pensava supportasse l’accusa di aver formato gruppi illeciti. Ora descriveva il disaccordo, che effettivamente l’aveva separato dai suoi seguaci, come particolarmente grave ed espressamente si distanziò su determinati punti dai suoi amici.

Poiché il processo, progettato per settembre, era stato rimandato per motivi formali, il dipartimento per gli interrogatori ‘K’ dovette pretendere di continuare la sua attività inquisitiva. Così i prigionieri rimasero in stato di detenzione per parecchi altri mesi, sebbene non si dovesse concretamente niente di nuovo con loro. Nagy non fu sottoposto ad un nuovo esame fino alla fine del gennaio successivo. Quando fu presentato l’atto d’accusa legalmente corretto da parte del procuratore generale il 28 gennaio 1958, il testo conteneva alcune modifiche rispetto alle accuse iniziali. Questo avveniva perché nel giorno nel quale si decideva di aprire il procedimento penale contro Géza Losonczy come ‘imputato di secondo grado’, questi era morto in carcere[113]. La formulazione dell’accusa era stata cambiata da formazione di ‘un gruppo ostile’ a formazione di ‘un gruppo chiuso’. Inoltre, non tutte le persone facenti parte del gruppo di Nagy in precedenza vennero così computate: i procedimenti penali contro alcuni di loro[114] furono scorporati dal processo principale. Ancora, al posto del termine ‘movimento’ che gli imputati erano soliti ricordare di avere iniziato, l’accusa ora adoperò il termine ‘organizzazione’. I rapporti riguardanti la preparazione del processo ricordano che la salute di Nagy era ‘soddisfacente’, ma menzionavano anche la sua affezione coronarica ed il suo costante trattamento medico. La lunga attesa per l’apertura del processo causò negli imputati una perdita dell’equilibrio mentale; alcuni si ammalarono e Nagy perse ca. 15 kg di peso dal suo trasferimento forzato da Budapest nel novembre 1956[115].
Ciò che Nagy voleva ancora era fare qualcosa per rendere una testimonianza veritiera alla scena finale del processo, dinanzi alla corte. Egli voleva presentare al processo la ‘vera’ storia della rivoluzione ungherese, il perché aveva cambiato la sua condotta nell’interrogatorio del giugno 1957. Due elementi furono decisivi per la sua versione di quella storia: la situazione rivoluzionaria eccezionale che giustificò la maggior parte delle sue decisioni ed, inoltre, lo spazio estremamente limitato di manovra disponibile per la leadership ungherese in quelle circostanze. Nagy comprese il suo ruolo come primus inter pares che, sulla base dell’esperienza di una vita lunga e delle sue convinzioni politiche, cercò di salvare ciò che era ancora salvabile. Ma la base dell’interrogatorio non fu la storia della vita di Nagy ed ancor meno la sua versione della storia rivoluzionaria, ma piuttosto la costruzione di quella storia della rivoluzione offerta dal procuratore generale. Nagy cercò di rispondere alle domande in modo da confutare le falsità e nello stesso tempo esprimere anche la propria versione della verità dei fatti. Il semplice linguaggio umano delle sue memorie di Snagov fu di nuovo rimpiazzato dal gergo tipico del partito nel trattare la tematica della rivoluzione. La personalità che si era trasformata tra Snagov e la detenzione per gli interrogatori dovette riscuotersi: «Io sto in completo isolamento (come mi è accaduto spesso) di fronte alla morte».

Il processo venne aperto mercoledì 5 febbraio 1958 alle 9 del mattino dal presidente del tribunale, il giudice Zoltán Radó[116]. Il processo fu condotto non nel palazzo della corte suprema, ma nelle aule della corte penale militare in Fő utca, come già detto, nello stesso complesso di edifici della prigione degli interrogatori. Oltre il dr. Radó la corte comprendeva quattro ‘giudici laici’, popolari, tutti funzionari del partito[117]. L’accusatore fu il vice procuratore generale József Szalai. Oltre loro, i cancellieri della corte, gli imputati ed i loro avvocati e gli ufficiali degli interrogatori che scortavano i detenuti, nessun altro era presente nell’aula della corte[118].
E’ naturale in un processo politico che le accuse formulate negli interrogatori ufficiali debbano risultare decisive. L’accusatore sostiene il caso con una cornice formale e la corte lo completa con una sorta di legittimazione. Tutti gli altri dettagli del processo (es. la difesa) sono relativamente poco importanti. Tutti gli imputati del processo Nagy erano, in diversa misura, coscienti di questo fatto. Molti di loro cercarono almeno di difendere la loro dignità umana, ma alla fine giocarono il ruolo assegnato loro in questa commedia pur di finirla il più rapidamente possibile. Solo Imre Nagy, Pál Maléter e József Szilágyi, come detto, scelsero una strada diversa. Maléter cercò di usare tutti i mezzi per rifiutare le accuse che riteneva false. Szilágyi volle soprattutto testimoniare la validità della causa che aveva concepito come rivoluzione antistalinista. Maléter, l’ultimo degli imputati politici, aveva apparentemente creduto all’ultimo momento che la verità potesse essere alla fine rivelata e così poter dimostrare la sua innocenza. Szilágyi, invece, non prestò nessuna attenzione alle considerazioni politiche. Poiché le sue esperienze lo preparavano a trarne le opportune conclusioni, si comportò in modo del tutto diverso, rifiutando di usare il ‘linguaggio simbolico’ del processo ed assumendo il ruolo dell’accusatore piuttosto che dell’accusato. Per questo fu processato e condannato a parte.
Il comportamento di Nagy fu una miscela di questi due atteggiamenti. Da un lato si comportò come Szilágyi, respingendo punto per punto l’atto di accusa. Ma voleva che si richiamasse soprattutto l’attenzione sull’illegalità del processo; di qui la sua attenzione alle formalità. Ed egli volle lasciare dietro di sé orme, tracce per il mondo futuro che potessero essere notate, ma questa volta non relativamente alla rivoluzione. Parlò di sé stesso, come per lasciare un giusto e corretto ricordo di Imre Nagy alla posterità. In tal modo si rendeva dipendente dalla struttura del processo, ne assecondava il gioco, per così dire, più di Szilágyi o Maléter. Le accuse erano riferite soltanto a Nagy come membro del partito, non come politico, patriota ungherese, cittadino o violatore della legge. Ed egli volle soltanto ricostruire l’immagine di un comunista leale, quale si sentì per tutta la sua vita, e congiungerla in armonia con la rivoluzione ungherese. Credeva in una contraddizione tra il partito, il suo Partito comunista, la sua lealtà ad esso ed il ruolo di capro espiatorio che gli era stato assegnato. Così le sue ammissioni portarono, pur senza volerlo, a confermare le argomentazioni dell’atto d’accusa e ne fu arrabbiato ed amareggiato. Egli rimase come piantato nella mente dell’accusatore – ‘Se c’è un peccatore ci deve essere anche un peccato’ – ma per ciò che era stato commesso da altri, non da lui.

Questo approccio non era del tutto appropriato al processo dei giorni 5 e 6 febbraio, non soltanto perché il giudice Zoltán Radó, per quanto possibile e senza dare luogo ad attese, conduceva il processo in modo relativamente corretto e a mala pena dando qualche segno di parzialità[119]. Nei primi giorni del processo Szilágyi, Maléter, Donáth ed anche Gimes fino ad un certo grado, si rifiutarono di fare ammissioni di colpa. Nagy rispose positivamente alla domanda se avesse capito l’atto di accusa ed alla seguente, se ammettesse la sua ‘colpa di fondo’ con un laconico ‘no’. Il giudice, quindi, stabilì che voleva limitare il processo ai fatti, poiché ‘scopi politici o ideologici non appartengono alla corte’ e non potevano quindi figurare nel processo. Nagy avrebbe potuto esprimere la sua opinione durante il processo, ma non elaborarla. «Quando hai l’ultima parola, allora puoi parlare completamente». Nagy, quindi, rispose in breve a tutte le domande e respinse tutte le insinuazioni in poche parole, ma in modo deciso. Costruì la sua difesa in modo sostanziale sulla responsabilità generale di un primo ministro secondo il diritto pubblico ungherese. Egli affermò di non aver sviluppato nessun piano per la presa del potere e respinse l’accusa di ‘iniziative intellettuali in preparazione’ a tutto ciò. Non c’era mai stato nessun ‘gruppo chiuso’, come qualsiasi criterio per una formazione[120] era mancante. Egli raccontò con ordine le sue attività del giorno 23 ottobre 1956 e chiese che cosa mostrava che qualcuno cercasse di prendere il potere. Disse che si era mosso per regolare la propria condotta secondo in base alle decisioni del partito, sottolineando che, date le decisioni prese allora, oggi avrebbe scelto differentemente rispetto a prima. Durante le testimonianze dei coimputati, specie Donáth, Tildy e Kopácsi, Nagy ingaggiò una vera guerra verbale costante riguardante sia la natura del procedimento, sia particolari dati di fatto. Quando l’accusatore, il secondo giorno del processo, chiese il rinvio, come sappiamo per ragioni politiche, e questo per dargli l’occasione di presentare ulteriore materiale, Nagy e gli altri imputati rimasero stupiti. Nagy disse: «Ho la mia opinione su questo. Ma non posso dirla». Forse aveva trovato qualche ragione di sperare, ma questi sentimenti ebbero breve durata e ricadde di nuovo nella sua vecchia letargia.
Seguì un nuovo periodo di attesa, nel quale non accadde nulla e gli imputati furono condannati ad un’inattività totale. I rapporti degli interrogatori dicono, nel caso di Nagy, come nel caso dei rapporti medici, quello del 6 marzo: «Le sue condizioni sono in notevole peggioramento: è fisicamente debole, mangia poco, è sempre depresso. Si lamenta col medico del suo mal di cuore». Quello datato 16 aprile riporta che «ha detto di non aver bisogno di medicine, ma piuttosto desidera che la sua attuale condizione possa finire». Ma non giunse ad un completo collasso. Voleva scrivere un’ulteriore nota di protesta, ma poi si astenne dal farlo. Richiese la corrispondenza con la sua famiglia e disse che se la sua famiglia non fosse tornata a casa o non avesse ricevuto nessuna lettera da loro avrebbe cominciato uno sciopero della fame. Diceva di sapere quali conseguenze ciò avrebbe comportato[121]. Le proteste di Nagy non furono senza effetto. Le condizioni dei detenuti furono migliorate e gli imputati furono trasferiti in stanze più luminose, dette ‘stanze per la scrittura’.

Le ‘indagini supplementari’ non produssero, ovviamente, nuovi fatti. Di conseguenza, alla ripresa del processo il 9 giugno davanti alla stessa corte, ma con un nuovo presidente, il giudice Ferenc Vida, al quale abbiamo già accennato, il pubblico accusatore non portò nessuna aggiunta all’atto d’accusa. Durante le sessioni veniva girato un film da parte della sicurezza dello stato, ovviamente con l’idea di offrirne poi le scene debitamente selezionate relative a determinati dettagli del processo al pubblico. Nagy protestò in termini di diritto contro ‘un processo a porte chiuse’ ed apparve in generale assai pronto al confronto. Questo era necessario per la condotta del processo da parte di Vida, un vecchio e affidabile funzionario del partito, assai differente da quella di Radó, che era stato sostituito appunto per il suo comportamento troppo indulgente[122]. Diversamente da Radó, Vida non aveva per nulla interesse ai fatti e lesse i passaggi pertinenti dell’atto d’accusa sperando che Nagy confermasse semplicemente la sua versione e la sua presentazione. Ciò che accade, invece, fu proprio l’opposto, poiché avvenivano costanti dispute sulle formulazione delle parole e Nagy regolarmente sfidava la presentazione dei fatti, insistendo che la sua presentazione fosse trascritta nelle minute. Il cancelliere della corte dovette notare più volte: «Non si può comprendere una parola, entrambi gridano nello stesso tempo»[123]. Ogni volta che Nagy sollevava eccezione ad un dettaglio o ad un altro, coglieva l’occasione di raccontare la storia per intero. Il giudice Vida cercava di non perdere il controllo, cercò ripetutamente di ricordare all’imputato che avrebbe potuto dire ‘l’ultima parola’ e così Nagy si poté esprimere in pieno solo alla fine del processo. Ma ciò era del tutto contrario alle abitudini di Nagy, il quale già il primo giorno del processo affermò[124]: «Io non voglio tutti questi problemi, le decisioni fondamentali e gli obiettivi politici da far dileguare nel retroterra nel corso del processo, sicché possa parlarne solo quando avrò l’ultima parola. […] Non desidero portare avanti qui un dibattito, né voglio che sia raggiunta una decisione su queste questioni, ma solo che sia chiaro il mio punto di vista. Quello che chiedo è questo».
Vida lo rassicurò che avrebbe potuto esprimere la sua posizione quando, dopo il verdetto (si noti!), gli sarebbe stato permesso di parlare per l’ultima volta.

Tra Nagy ed i suoi coimputati c’era un continuo e vigoroso scambio di parole, cominciato già durante la fase processuale di febbraio. E ci furono anche alcuni testimoni la testimonianza dei quali Nagy non volle ascoltare senza controbattere. Molti tra questi erano essi stessi prigionieri che aspettavano il processo e sapevano molto bene che la severità delle pene che li aspettava dipendeva da quello che avrebbero testimoniato al processo Nagy. Molti si espressero esattamente così come si leggeva nell’atto di accusa, con l’eccezione della segretaria del vecchio primo ministro, la signora Josephine Balogh, che era stata risoluta al suo fianco durante la rivoluzione e così ora nella sua testimonianza. Una presentazione filmata avvenne nell’aula della corte il 13 giugno alla richiesta della pubblica accusa. Tra i tanti film della propaganda prodotti in quel periodo venne scelto quello che riproduceva le scene più crude del massacro di Köztársaság tér del 30 ottobre 1956 di fronte alla sede del partito di Budapest[125]. Quasi tutti gli imputati presenti, ormai stanchi, reagirono con ammissioni di colpevolezza più o meno contrite, tranne Nagy che non fece alcun commento sul film[126]. Alla fine, Zoltán Szántó, condotto dalla Romania in Ungheria, fu convocato come teste. Egli era stato un tempo, ancora nella clandestinità, collega di Nagy e leader del partito durante il periodo del suo esilio a Mosca, colui che nel 1938, forse l’unico, aveva appoggiato Nagy con forza ed era sempre stato stimato da lui nella leadership del partito[127]; ora, come uno scolaretto indottrinato, ripeteva le più dure frasi d’accusa dell’atto processuale contro Nagy, quasi le leggesse dallo scritto: Imre Nagy, a partire dalla risoluzione del partito del 28 ottobre nella dichiarazione del suo governo, era responsabile della secessione dell’Ungheria dal Patto di Varsavia senza riferirne al presidium del partito; l’insurrezione armata era organizzata dal suo gruppo; essi avevano da tempo una stretta relazione con gli jugoslavi, Nagy non era solo a quei tempi dentro il partito, ma attualmente anti-sovietico, al punto che i bambini presenti all’ambasciata jugoslava avevano imparato ad usare slogan anti-sovietici. Nagy contraddisse Szántó punto per punto e tornò a ripetere ancora una volta la sua argomentazione contro l’atto di accusa, specie che nel periodo in questione era non lui, ma Kádár ad essere presidente del presidium o comitato esecutivo del partito.
La testimonianza di Szántó concluse la serie dei testimoni e fu seguita, il 14 giugno, dalle richieste conclusive della pubblica accusa e poi dai discorsi degli avvocati difensori. Gli imputati avevano avuto possibilità di scegliersi un difensore da un collegio di difesa di avvocati selezionati dalle autorità. Nagy fu rappresentato da Imre Bárd, poi sostituito da László Virágh, rimasto completamente passivo durante il processo di febbraio. Bard si comportò proprio come un vero difensore, partendo dall’affermazione che «una certa obiettività deve prevalere nel giudicare gli eventi di un anno e mezzo fa». Soprattutto egli fu chiamato a mettere in questione le intenzioni dell’imputato e cercò di contestare l’accusa di ‘iniziare e guidare un movimento organizzato’ punto per punto.

Venne poi il momento che Nagy aveva tanto aspettato: gli fu concessa ‘l’ultima parola’. A questo punto egli avrebbe potuto presentare la sua critica annientatrice e avrebbe potuto raccontare in breve la storia della rivoluzione, stendendo il suo testamento politico in una ben documentata lezione. Non fece nulla di tutto ciò, ma certamente non perché alla fine si fosse ormai rassegnato al suo destino. Le sue ultime parole furono scelte con attenzione. Si può vedere nelle poche sequenze filmate rimaste del momento come Nagy le legga da un blocco note sul quale le aveva scritte durante il processo preparando il testo di questo discorso[128]: «Signori dell’alta corte! Signor presidente! E’ un fatto sfortunato che il mio processo non includa prove supplementari; solo i testimoni della pubblica accusa sono stati ascoltati e solo le prove dell’accusa sono state ammesse. Secondo la mia modesta opinione, un processo criminale ha l’importante funzione di scoprire la verità, non soltanto di attribuire delle colpe. L’opportunità perduta di ascoltare prove parallele è rispecchiata nel discorso di chiusura del pubblico accusatore così come nell’atto di accusa, dove la mia attività e la mia responsabilità sono presentate senza riguardo ai fatti oggettivi o allo spirito della verità storica. Oltre questa determinazione generale, non desidero entrare in dettagli più precisi, sperando che quest’alta corte giudicherà le accuse contro di me ed anche la mia responsabilità riconoscendo la situazione e farà ciò al meglio della sua scienza e coscienza. Signori dell’alta corte popolare! Signor presidente! Il pubblico accusatore, nella sua requisitoria, ha richiesto per me la pena di morte. Ha sostenuto questa richiesta con l’asserzione che la nazione non accetterebbe una sentenza più mite. Perciò, io metto il mio destino nelle mani della nazione. Dopo la requisitoria del mio avvocato difensore, a prescindere da questi rilievi che io posso offrire come ultima parola di un imputato, non ho più nulla da dire in mia difesa. Mi aspetto un giusto verdetto dalla corte popolare».
Nagy aveva così anticipatamente discusso sul proprio verdetto, ma non sulle accuse contro di lui. Questo fu piuttosto l’ultimo atto di un dramma nel quale egli aveva giocato il ruolo del villano. Di fronte allo spettacolare non senso del processo spettacolo, tutti gli elementi del dramma attuale dovevano essergli sembrargli delle assurdità. Il suo discorso così pulito, la sua restrizione a rilievi di fatto, mostrano un uomo che voleva continuare a difendere la sua propria dignità, anche quando la corte aveva fatto della legalità, dell’onore e della verità una vera farsa.
Il giorno successivo, domenica 15 giugno 1958, alle cinque del pomeriggio, il giudice Ferenc Vida lesse la sentenza[129]: «In nome della Repubblica Popolare! L’imputato numero 1, Imre Nagy, nato nel 1896 a Kaposvár, da József Nagy e Rozália Szabó, sposato con Mária Égető, con una figlia, professore universitario in congedo con uno stipendio mensile di 3600 fiorini, cittadino ungherese, senza precedenti condanne, residente in via Orsó 43, riconosciuto colpevole dalla corte popolare del reato criminale di guida di un’organizzazione avente lo scopo di rovesciare l’ordine dello stato democratico popolare come pure di alto tradimento, è condannato a morte. La corte ordina la confisca della sua intera proprietà».
E’ improbabile che Nagy abbia prestato molta attenzione al verdetto sonoramente pronunciato da Vida. Tutto gli suonava ormai familiare. Molto di questo frasario lo aveva già letto nell’organo del partito «Népszabadság» già a Snagov e ne aveva fatto buona conoscenza nel ‘periodo degli interrogatori’, sia rispondendo alle domande, sia studiando attentamente l’atto d’accusa. Dopo che il giudice Vida ebbe letto le motivazioni della sentenza, a Nagy fu offerta, come a tutti gli imputati, la possibilità, obbligatoria, di presentare un appello di clemenza, la richiesta di grazia. Egli espresse così il suo messaggio finale, le sue ultime parole[130]: «L’alta corte popolare si rivolge a me per permettermi di presentare il mio punto di vista relativo alla richiesta di clemenza. Per la mia parte, ritengo la pena di morte inflittami dall’alta corte come ingiusta, insufficiente la giustificazione del verdetto e perciò non posso accettarne il giudizio, sebbene sia chiaro che per me non c’è possibilità di revisione. La mia sola consolazione in questa situazione è la convinzione che, presto o tardi, io sarò vendicato dal popolo ungherese e dalla classe operaia internazionale, assolto da tutte le gravi accuse per le quali devo sacrificare la mia vita. Io credo che verrà un tempo nel quale queste questioni saranno considerate sotto condizioni più tranquille, con un’appropriata ampiezza di visione e con un migliore rispetto dei fatti, cosicché in un caso come il mio la giustizia possa prevalere. Credo di essere una vittima di un grave errore, di un errore giudiziario. Non desidero presentare domanda di clemenza».

Questo messaggio disadorno era emblematico della pace interiore che il condannato aveva ormai trovato, indicava che era arrivato ad accettare i termini del suo destino e trovava consolazione nel pensiero di un saldo futuro. Perfino ora Nagy non aveva perso il suo ottimismo. Credeva ancora che il suo messaggio in quel momento avrebbe potuto avere un ascolto corretto e che il verdetto non sarebbe stato lo stesso emesso dal giudice Ferenc Vida. In modo caratteristico egli nominò la platea alla quale si rivolgeva con precisione. Il suo messaggio era indirizzato non al ‘movimento operaio’, ma ‘alla classe operaia’. Si può ascoltare la particolare enfasi che Nagy dà a queste parole nella registrazione. Frattanto il significato del suo messaggio radio del 4 novembre 1956 era diventato chiaro anche a lui ed era pronto a trarne le conseguenze, ma senza sentire la necessità di dubitare della correttezza della propria storia di vita. Il ‘movimento operaio’ dominato dai sovietici non era più un punto di riferimento per lui, ma la sua fede, tipicamente comunista, negli ultimi garanti dell’utopia, la ‘classe operaia’ appunto, era indiscussa. Quando il tempo nel quale aveva riposto le sue speranze era venuto, sia il movimento che la classe operaia, come lui le aveva comprese, erano svanite, si erano svaporate. Ma il popolo ungherese non aveva mai accettato la sua colpa. Essi ricevettero il messaggio di Nagy, anche se con trent’anni di ritardo, un ritardo in verità forzato, e lo ratificarono. Per usare un linguaggio biblico, Nagy si dimostrò davvero profeta.
Non appena la sentenza ottenne forza di legge in seguito alla sua proclamazione, Nagy, Maléter e Gimes furono immediatamente separati dagli altri imputati e portati alla prigione centrale di Budapest in Kozma utca 13, nel X distretto, Kóbánya. Dopo la lettura della sentenza e la chiusura della seduta, l’alta corte si ricostituì con i medesimi componenti come ‘senato di clemenza’ e concluse che l’appello per la grazia di Nagy, richiesto formalmente dal suo consiglio di difesa non era pervenuto al consiglio presidenziale della Repubblica Popolare. L’esecuzione della sentenza, quindi, ebbe effetto praticamente immediato. Alle undici di sera del 15 giugno 1958 la decisione dell’esecuzione ed il rifiuto della grazia fu annunciato da un giudice della corte municipale. Nagy ebbe esattamente sei ore a sua disposizione per l’ultima notte della sua vita e non sappiamo con precisione cosa abbia fatto. C’è una leggenda che abbia passato quell’ultima notte scrivendo. Potrebbe essere vero, sebbene non sia stata trovata nessuna sua lettera o scritto risalente a quell’ultima notte[131].

La tomba a Budapest

La tomba a Budapest- Varga József

All’alba di lunedì 16 giugno 1958, verso le cinque, Imre Nagy, Pál Maléter e Miklós Gimes dalle loro celle al patibolo, la forca in stile asburgico, un palo di legno verticale con pochi gradini che poi vengono tolti sotto i piedi del condannato. Si tratta dello stesso tipo di strumento di condanna capitale usato nella prima guerra mondiale per Cesare Battisti e gli altri irredentisti italiani. Ne abbiamo visto esemplari nel museo Terrorhaza di Andrassy ut 60. Alle 5,09 Nagy fu il primo ad essere giustiziato, seguito dopo pochi minuti da Maléter e Gimes. Il rapporto medico stabilisce che «il cuore del condannato Imre Nagy ha cessato di battere alle 5,16»[132]. Circa mezz’ora dopo la sua morte fu confermata dai medici legali. I corpi dei giustiziati furono posti a faccia in giù, coi polsi legati col filo spinato in bare fatte con assi di legno e interrate nel cortile della prigione senza alcun segno di identificazione, come ultimo oltraggio anche in morte, quello dell’anonimato più sprezzante. Sottolineiamo il metodo dell’esecuzione, quello dell’impiccagione, perché fonti internazionali, in particolare della Germania orientale, parlarono fin dall’inizio in modo erroneo di fucilazione ed errori sul modo dell’esecuzione, ed anche sul luogo (non Budapest, ma la Romania) riaffioreranno sorprendentemente a lungo in diversi autori sia storici che memorialistici[133]. Le bare vennero poi dissepolte il 24 febbraio 1961, avvolte nella carta incatramata e portate nel vicino cimitero di Rákoskeresztúr, in una zona periferica e boscosa, la parcella 301. Lì furono risepolti sotto falso nome, quello di Nagy era Piroska Borbíró. Nonostante l’anonimato praticamente assoluto, l’identificazione fu conosciuta a Budapest, sebbene non con assoluta precisione, e spesso mani pietose deponevano fiori e altri segni di pietà e di omaggio ai martiri della rivoluzione, regolarmente rimossi dalla polizia del regime. I resti delle vittime furono dissepolti nella primavera del 1989, come avremo modo di dire[134], dopo mesi di ricerche per individuarne il luogo esatto, e riesumati[135].

Note

[1] Note di lavoro della sessione del presidium del CC del PCUS del 23 ottobre 1956 in The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 217; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 221 nota 1 del cap. 12.
[2] Note di lavoro della sessione del presidium del CC del PCUS del 28 ottobre 1956 in The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 264; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 221 nota 2.
[3] Alla quale abbiamo già fatto cenno e che torneremo ad esaminare: cfr. supra, cap. VI; infra, cap. X.
[4] Cfr. F. ARGENTIERI, Ungheria 1956…, cit., p. 137; cfr. pure The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 311; questa seconda fonte è citata in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 221 nota 3.
[5] Note di lavoro della sessione del presidium del CC del PCUS del 31 ottobre 1956 in The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 308; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 221 nota 4. Si confrontino sempre le ‘carte Malin’ già citate per questa riunione: cfr. supra, cap. VI.
[6] Cfr. supra, cap. III.
[7] Per la lista completa dei rifugiati all’ ambasciata jugoslava cfr. supra, cap. VI.
[8] La fonte di queste parole di Nagy sono Miklós Vásárhelyi e la moglie di Szilágyi: cfr. J. EMBER, Menedékjog -1956…, cit., pp. 28.145; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 5.
[9] Per la descrizione dell’ avvenimento, oltre la citata monografia di J. EMBER, Menedékjog -1956…, cit., cfr. F. FEJTÖ, Ungheria 1945-1957, cit., p. 350; UNITED NATIONS, Report…, cit., pp. 28 [n. 81], 196s. [nn. 635-39], 202 [n. 651]; T. MÉRAY, Thirteen Days…, cit., pp. 252-54 [ma perché 23 novembre?; cfr. p. 252]; N.S. CHRUŠČËV, Kruscev ricorda, cit., p. 452 [un semplice accenno spudoratamente menzognero: «Nagy appena venne ricondotto nella sua abitazione, fu dichiarato in stato d’ arresto, ed era più che giusto che lo fosse!». Peraltro poi mai si fa parola della sua esecuzione, N. d. A.]; W. SHAWCROSS, Crime and Compromise…, cit., p. 241, con un’ ampia citazione dall’ articolo di G. Altman in «Borba», giornale del Partito comunista jugoslavo del 23 novembre 1956; V. MIČUNOVIČ, Diario dal Cremlino, cit., pp. 180s.; D. IRVING, Ungheria 1956…, cit., pp. 405s. [ma perché 21 novembre?]; F. ARGENTIERI-L. GIANOTTI, L’ Ottobre ungherese, cit., pp. 171.73; P. UNWIN, Voice in the Wilderness…, cit., p. 175; The Hungarian Revolution of 1956…, cit., p. 108; M. MOLNÁR, Victoire d’une defaite…, cit., pp. 316s.; J.M. RAINER, Nagy Imre…, cit., pp. 350s.; J. MARELYIN KISS-Z. RIPP-I. VIDA, Hungarian-Yugoslav Relations…, cit., in 1956: The Hungarian Revolution…, cit., p. 172; H.C. GIRAUD, Le Printemps en Octobre…, cit., pp. 762-65; J.P.C. MATTHEWS, Explosion…, cit., pp. 470s.; K.P. BENZIGER, Imre Nagy…, cit., p. 67; P. LENDVAI, One Day…, cit., pp. 167s.; G. GYARMATI-T. VALUCH, Hungary under Soviet Domination…, cit., p. 307; J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 142.
[10] Lettera di Nagy a Donáth del 23 novembre 1956 pubblicata per la prima volta nel 1982 nel periodico samizdat «Beszélő»; ora anche in I. NAGY, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit., p. 225; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit. p. 142; cfr. IBIDEM, p. 222 nota 6.
[11] Per completezza riportiamo la lista dei prigionieri di Snagov: Nagy con sua moglie; Donáth con sua madre, sua moglie e due figli; Losonczy con sua moglie e sua figlia; Szántó con sua moglie; Vas con la sua compagna; Lukács con sua moglie; Haraszti con sua moglie; la moglie e i tre figli di Vásárhelyi; Tánczos con sua moglie e sua figlia; Júlia Rajk con suo figlio; Jánosi con la moglie e due figli; Szilágyi con la moglie e due figli; Fazekas, Újhelyi e Vásárhelyi, aggiuntosi all’ uscita dall’ ambasciata jugoslava il 22 novembre: cfr. A Snagovi foglyok…, cit., p. 21 e supra, cap. VI.
[12] Il 3 dicembre 1956 Tito scrisse a Chruščëv tra le altre cose: «E’ per noi difficile, infatti, che voi trascuriate completamente il punto di vista e gli obblighi del nostro governo su questa vicenda – sia rispetto alla nostra costituzione sia alla legge internazionale. Pensiamo di essere stati molto fortunati perché voi ci avete aiutati a risolvere la situazione di Imre Nagy»; cfr. The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 457; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 7.
[13] R. SERVICE, Compagni…, p. 478.
[14] P. INGRAO, Volevo la luna, Einaudi, Torino, 2006, p. 251.
[15] Cfr. supra, cap. II.
[16] Cfr. il memorandum sul supporto dato dagli jugoslavi ad Imre Nagy steso da I. Zamchevskii, capo del dipartimento 5 del ministero degli esteri sovietico conservato nell’ Archivio del ministero degli affari esteri della Federazione Russa, F. 077, op. 37, p. 191. d. 39, pp. 82-93; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 8.
[17] Cfr. The 1956 Hungarian Revolution…, cit., pp. 489-95; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 9.
[18] La traduzione italiana è quella di F. Argentieri riportata in «MicroMega», 4/1992, p. 101s.; per l’ inglese cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 144.
[19] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt ideiglenes vezetó testületinek jegyzókőnyvei, vol. 2 a cura di K. Némethné Vágyi-K. Urbán; vol. 3 a cura di M. Baráth-I. Feitl, Intera, Budapest, 1993, vol. 2, pp. 79.76; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 10.
[20] Per la ricostruzione dell’ intero iter che porta dal processo all’ esecuzione delle condanne cfr. A. DORNBACH, Administration of Justice in the Party State and the Trial of Imre Nagy in The Secret Trial of Imre Nagy, a cura di A. Dornbach, Praeger, London & Westport, 1994, pp. 1-26.
[21] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 11 per il titolo originale.
[22] Rapporto di Ponomarev. Cfr. Hiányzó lapok 1956 tőrténetéból. Dokumentumok a volt SZKP KB Levéltárából, a cura di V.T. Sereda-A.S. Stykalin, Móra, Budapest, 1993, pp. 257-63; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 12.
[23] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt ideiglenes vezetó testületinek…, cit., vol. 2, p. 348; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 13.
[24] Per quanto possibile Kádár evitava di fare anche solo il nome di Nagy; su questa specie di rimozione, sulla quale ci soffermeremo ancora, cfr. I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., pp. 63-104, specie 63-66.88-94.
[25] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt ideiglenes vezetó testületinek…, cit., vol. 3, p. 69; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 14.
[26] Cfr. . G. KÁLLAI, The Counter-revolution in Hungary in the light of Marxism-Leninism, Zrinyi, Budapest, 1957.
[27] Meglio sarebbe dire controfattuale, perché di vera ‘controstoria’ si tratta, smentita dai documenti fin da allora presenti negli archivi.
[28] Per un confronto globale con l’ impostazione del Libro bianco cfr. infra, cap. VIII.
[29] Cfr. l’ emblematico discorso di Kádár, in J. KÁDÁR, Socialismo e democrazia…, cit., pp. 53-55, pieno della retorica della sconfitta della ‘controrivoluzione’ e del ‘trionfo dell’ Ungheria socialista’ grazie ‘all’amica Unione Sovietica’.
[30] E carnefice, come vedemmo; cfr. supra, cap. III.
[31] «Si deve cominciare un lavoro ed arrivare ad una decisione in un tempo ragionevole: non si può aspettare otto o dieci mesi o anni per estrarre un dente che fa male»: per questa citazione di Kádár cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt ideiglenes vezetó testületinek…, cit., vol. 2, p. 348; cfr. pure The 1956 Hungarian Revolution…, cit., pp. 517-23, qui p. 520; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 15.
[32] L’ elenco è tratto dal Libro bianco, cit., vol. V, pp. 10s., che, curiosamente, anziché fare una lista semplicemente numerica scrive: ‘imputato di I, II, III grado…’ in serie ordinale. Naturalmente il testo governativo si guarda bene dal menzionare la vera sorte di Losonczy, «deceduto in seguito a malattia»: cfr. IBIDEM, p. 13, Comunicato del Ministero della Giustizia; e falsifica anche quella di Szilágyi, che sembra giustiziato insieme agli altri tre, Nagy, Maléter e Gimes il 16 giugno 1958, mentre la sua condanna era stata eseguita il 24 aprile. Ma sulle incongruenze giuridiche del testo ritorneremo. Per l’ assassinio di Losonczy in carcere cfr. S. KOPÁCSI, Abbiamo quaranta fucili…, cit., pp. 326-28. Per il processo e l’ esecuzione di Szilágyi cfr., IBIDEM, pp. 347-51 [si noti l’ errore di stampa di p. 351 sulla data della morte, 24 marzo, anziché 24 aprile; cfr. invece l’ ed. inglese, p. 260 con la data corretta, N. d. A.]. Sulla morte di Losonczy e Szilágyi cfr. pure A. DORNBACH, Administration of Justice…, cit., rispettivamente p. 17 e p. 21; J.M. RAINER, Nagy Imre…, cit., rispettivamente p. 409 e p. 420. Sulla figura di József Szilágyi cfr. «Études», n° 16, gennaio-aprile 1963, pp. 42-47; M. VÁSÁRHELYI, Verso la libertà, cit., pp. 123-25. Notiamo che su József Szilágyi, a differenza degli altri quattro giustiziati nel processo, ancora non esiste una monografia, neanche in ungherese; probabilmente il suo personaggio di comunista sincero e molto immediato crea ancora parecchio imbarazzo. L’ elenco appena riportato mostra bene che non tutti i prigionieri di Snagov furono processati con Imre Nagy.
[33] Cfr. Libro bianco, cit., vol. V, p. 12, Comunicato del Ministero della Giustizia.
[34] Si noti, non dall’ ufficio della pubblica accusa!
[35] Rapporto di Andropov, Rudenko e Ivashutin al CC del PCUS, 26 agosto 1957; cfr. The 1956 Hungarian Revolution…, cit., pp. 539s.; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 16.
[36] Cfr. A. NAGY, Il caso Bang-Jensen, cit., per tutta la sua vicenda personale, ma anche complessiva del rapporto.
[37] Cfr. IBIDEM, p. 411.
[38] Sappiamo che, pur essendo abbastanza oggettivo nella ricostruzione, il rapporto fu molto mite nell’ attribuzione delle responsabilità e l’ ONU come organismo internazionale fu addirittura paralizzato. La personale vicenda di Bang-Jensen ne è un tragico esempio. La monografia di A. NAGY, Il caso Bang-Jensen, cit., ha il merito di illustrare molto bene l’ intreccio di questi aspetti di politica internazionale e di dramma di coscienza.
[39] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának 1957-1960, a cura di A. Kosztricz-K. Némethné Vágyi-I. Simon-G. Ujvári-G.T. Varga, MOL, Budapest, 1997-99, p. 168; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 17.
[40] Cfr. infra, cap. X.
[41] Come risulta dalla copia di un documento originale mostratoci da Argentieri.
[42] Cfr. MicroMega, 4/1992, cit., pp. 114-17; F. ARGENTIERI, Ungheria 1956…, cit., pp. 140-46.
[43] Cfr. Libro bianco, cit., vol. V, p. 14, Comunicato del Ministero della Giustizia.
[44] Cfr. IBIDEM, pp. 12.17s.
[45] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának…, cit., pp. 153-63; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 18.
[46] Cfr. MOL M-KS 288. f. 5/59.ő.e., p. 10; riunione del politburo del MSZMP del 28 dicembre 1957; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 19.
[47] Ironia della sorte: solo un anno dopo ‘il combattente per la libertà ungherese’ del 1956 della stessa rivista!
[48] Data nella quale una vecchia conoscenza di Nagy, Ferenc Münnich, assumeva la guida del governo al posto di Kádár.
[49] Sito oggi ribattezzato Imre Nagy tér.
[50] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 222 nota 20 per la fonte sovietica di questo testo. L’ espressione ricalca un tipico modo di esprimersi del diritto romano e cristiano: ‘giustizia con misericordia’.
[51] Questa è anche l’ opinione degli editori delle minute di lavoro del presidium sovietico; cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 21.
[52] La parola ‘morte’ non era stata mai usata da nessuno in precedenza.
[53] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának…, cit., pp. 239-44; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 22.
[54] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 23 per la fonte ungherese di questo dialogo, un articolo di una rivista del 1995 che riportava i ricordi del consigliere d’ ambasciata sovietico a Budapest Baikov.
[55] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának…, cit., p. 163; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 24.
[56] Cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának…, cit., p. 243; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 25.
[57] Cfr. l’ articolo Budapesti jelentés, (‘Rapporto da Budapest’), in «Irodalmi Úiság», [London], 1 maggio 1958; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 26.
[58] Visita commentata da T. MÉRAY, Thirteen Days…, cit., pp. 260s., come quella di «un conquistatore nella provincia umiliata», ma che «il paese, con le sue ferite ancora aperte, accolse […] con un ostinato silenzio». Chruščëv stesso non ne fa parola nell’ edizione italiana delle sue memorie, pur citando altre visite in Ungheria nel 1957; cfr. N.S. CHRUŠČËV, Kruscev ricorda, cit.
[59] MOL M-KS 288/5/75.ő.e., riunione del PB del MSZMP del 15 aprile 1958, p. 34; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 27.
[60] Non sono state conservate minute di lavoro della sessione del Politburo del 27 maggio, ma le sue decisioni sono state pubblicate in facsimile in una raccolta di documenti sull’ amministrazione della giustizia ungherese del 1992 cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 28. In base a tali documenti era stata programmata per il 2 giugno un’ altra ‘sessione informale’ del PB, ma, se mai ci fu, non ce ne sono, finora, documenti. Per i documenti della riunione del CC del 6 giugno cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt Kőzponti Bizottságának…, cit., pp. 325-417; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 28. Nella medesima nota si trova citato anche il saggio di G. LITVÁN, The political background of Imre Nagy trial, in The Secret Trial of Imre Nagy, cit., pp. 161-82.
[61] Che attribuisce l’ essere scampato alla morte al suo aver consegnato a Kádár documenti in suo possesso che provavano il coinvolgimento dello stesso nuovo leader nel caso Rajk: cfr. S. KOPÁCSI, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello…, cit., pp. 304s.
[62] Ci soffermeremo più avanti anche sul metodo e sul luogo dell’ esecuzione.
[63] Oggi in Libro bianco, cit., vol. V, pp. 12-20; originariamente in «Népszabadság» del 17 giugno 1958; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 29. In A Per Nagy Imre és társai 1958, 1989, a cura di A. Dornbach-P. Kende-J.M. Rainer-K. Somlai, 1956-os Intézet-Nagy Imre Alapítvány, Budapest, 2008, pp. 121-224 si possono leggere, per ora solo in ungherese, tutti gli atti più importanti qui citati, dalle varie fasi dell’ atto d’ accusa, mai reso noto durante il processo, sebbene citato, fino al verbale dell’ eseguita condanna a morte. Il Comunicato del Ministero della Giustizia segue alle pp. 225-30.
[64] ‘Il morto’, ‘colui che morì’, ecc.; cfr. T. HUSZÁR, Kádár. A hatalom évei 1956-1989, Corvina, Budapest, 2006, pp. 304-12; I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., pp. 63-66.88-94; I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy: The Birth of The Third Hungarian Republic 1988-2001, Social Science Monographs & Atlantic Research & Pub., Boulder (Co.) & Highland Lake (NJ), p. 189.
[65] L’ allusione alla firma per le dimissioni.
[66] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 30 per la fonte documentaria dalle minute del CC del MSZMP del 1989 dell’ ultimo discorso di Kádár. Su tutto il processo cfr. in particolare: The Secret Trial of Imre Nagy, cit.; A Per Nagy Imre…, cit. Un esame giuridico che ‘smonta’ frase per frase il Comunicato del Ministero della Giustizia si trova in The Truth about Nagy Affair, cit., pp. 37-119. Un esame del processo Nagy molto più sintetico, ma non meno preciso dal punto di vista giuridico, lo si può leggere nelle preziose sedici pagine di G. TORZSAY-BIBER, The Case of Imre Nagy. Legal Observations, The Library of Congress, Washington D. C., 1958.
[67] Cosa alla quale già in qualche modo accennavamo; cfr. supra, cap. V.
[68] Al contrario, i combattenti per l’ indipendenza, venivano chiamati kuruc. Cfr. HUNGARICUS 1956, Serie di articoli…, cit., p. 49 nota 1.
[69] Cfr. La révolution hongroise…, cit., pp. 174s.
[70] Cfr. supra, cap. VI.
[71] I tre documenti delle discussioni del 2-3 novembre 1956 al Cremlino riportati in The 1956 Hungarian Revolution…, cit., pp. 336-40.55-58 non danno per nulla un’ idea di un clima minaccioso, anzi.
[72] Riportata in La révolution hongroise…, cit., pp. 170-72.
[73] Per alcuni passaggi di quest’ intervista cfr. pure F. ARGENTIERI-L. GIANOTTI, L’ Ottobre ungherese, cit., p. 168.
[74] Cfr. IBIDEM, p. 169, che a p. 179 nota 8 cita L. GYURKÓ, Introductory biography, in J. KÁDÁR, Selected Speeches and interviews, Akadémiai Kiadó, Budapest, 1985, p. 99.
[75] Cfr. T. MÉRAY, Thirteen Days…, cit., p. 244.
[76] Cfr. «Diario», n 32, cit. Cfr. supra, cap. VI.
[77] Per una visione d’ insieme di questo momento critico nella vita di Kádár cfr. le sue due biografie: T. HUSZÁR, Kádár János…, cit., pp. 329-48; T. HUSZÁR, Kádár…, cit., pp. 9-19.303-16; R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., pp. 92-102.241-58. Per una valutazione d’ insieme della sua personalità enigmatica cfr. Ki volt Kádár? Harag és részrehajlas nélkül a Kádár-életútról, a cura di Á. Rácz, Rubicon-Aquila, Budapest, 2001.
[78] E non affatto il 3 come pretende il Libro bianco, cit., vol. V, p. 5 senza citare alcun atto o documento di quella giornata che lo comprovi!
[79] La famosa lettera antedatata appunto al 3 novembre che gli fu richiesta all’ ambasciata jugoslava, ma Nagy non firmò mai.
[80] Cfr. S. KOPÁCSI, Abbiamo quaranta fucili…, cit., p. 337.
[81] Per quelli precedenti, abbiamo notato sopra, ci sarebbe un altro discorso da fare.
[82] Cfr. infra, cap. IX.
[83] I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., p. 189.
[84] Su questo parere di Chruščëv nei confronti di Nagy cfr. The 1956 Hungarian Revolution…, cit., p. 360. Queste osservazioni sono tratte dagli appunti presi in quella seduta da Imre Horváth, il ministro degli esteri destituito da Nagy e prossimo ad essere reintegrato da Kádár, che era uno dei tre partecipanti ungheresi alla riunione, insieme con Kádár e Münnich.
[85] Almeno per l’ imputato principale: poi si doveva solo scegliere la misura delle pene per i diversi imputati.
[86] Si noti: in piena contraddizione col punto 3 del messaggio radiofonico di Kádár del 4 novembre che annunciava: «Il governo non tollererà in alcun modo la persecuzione di quei lavoratori che abbiano preso parte ai recenti avvenimenti»; cfr. La rivoluzione ungherese…, cit., p. 259. Sul periodo repressivo cfr. le monografie J. FÓNAY, Megtorlás, S. M. I. K. K., Zurigo, 1983; T. ZINNER, A kádári megtorlás rendszere, Hamvas Intézet, Budapest, 2001; L. EÖRSI, The Hungarian Revolution of 1956…, cit.; e poi The Hungarian Revolution of 1956…, cit., pp. 133-48; I. ROMSICS, Hungary in the Twentieth Century, cit., pp. 316-23; A. SZAKOLCZAI, Repression and Restoration, 1956-1963, in The Ideas of the Hungarian Revolution…, cit., pp. 167-93; M. HORVÁTH, Losses of Life…, cit., in 1956: The Hungarian Revolution…, cit., pp. 477-92; J.P.C. MATTHEWS, Explosion…, cit., pp. 503-61; G. GYARMATI-T. VALUCH, Hungary under Soviet Domination…, cit., pp. 302-21. Un bilancio dettagliato e documentato è tracciato da un articolo del samizdat «Beszélő», 19, 1987 scritto da Elék Fenyés, pseudonimo del giovane János M. Rainer, presentato e tradotto in italiano da F. ARGENTIERI in «Rivista di storia contemporanea», n° 2, 1988, pp. 326-45 che valuta a ca. 16.200 i condannati per motivi politici dopo l’ introduzione della legge marziale l’ 11 dicembre 1956, tra cui ca. 320-360 giustiziati, prevalentemente fino al 1959, con qualche strascico nel 1960-61. Numero elevato, se si pensa che dopo il 1848-1849 i giustiziati legali furono ca. 120, dopo il 1919 ca. 100 e 189 dopo il 1945.
[87] Si noti, dopo aver fatto appello! In genere le sentenze appellate in quel periodo subivano una reformatio in peius.
[88] Sulla figura ed il caso giudiziario di Péter Mansfeld, cfr. L. EÖRSI, The Hungarian Revolution of 1956…, cit., pp. 143-67; ed il film omonimo a lui dedicato cit. in bibliografia.
[89] Cfr. supra, cap. I.
[90] Comprese le famiglie, ma dividendo accuratamente gli uomini imputati, dalle donne, dodici, e dai bambini, dodici, per cui oggi esiste l’ associazione ‘bambini di Snagov’. Abbiamo avuto occasione a Budapest di conoscerne l’ attuale presidente, il dr. Ferenc Donáth jr. Sulla tematica dei figli di rivoluzionari condannati cfr. Z. KŐRÖSI-A. MOLNÁR, Carryng a secret in my heart…Children of the Victims of the Reprisal after the Hungarian Revolution in 1956. An oral history, Central European University Press, Budapest & New York, 2003, opera composta con interviste a quarantadue figli di partecipanti alla rivoluzione condannati a morte o a pene detentive.
[91] Cfr. Romániai 1956-os vonatkozású iratok gyüjteménye, 1956-os Intézet, Budapest. D’ ora in avanti citeremo quest’ opera come Romanian Documents; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 1 del cap. 13. La stessa nota cita anche la corrispondenza tra Nagy da novembre 1956 ad aprile 1957, il materiale registrato e la lettera di Nagy a Walter Roman del 9 febbraio 1957 i cui testi si trovano in NAGY TRIAL, cit., op. ir., vol 1.
[92] Raccolti in I. NAGY, Insemnări de la Snagov, a cura di I. Ioannid, Polirom, Iaşi, 2004; IDEM, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit.
[93] E’ la versione ungherese degli scritti di Snagov, appena citata, riferita in bibliografia come I. NAGY, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit. Abbiamo già avuto modo di citarla.
[94] Chruščëv, Tito, Gheorghiu-Dej, Walter Roman, fra le altre una anche a Palmiro Togliatti.
[95] Molte sono pubblicate in I. NAGY, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit.
[96] Per questo cfr. F. ARGENTIERI, Ungheria 1956…, cit., pp. 108-31; infra, cap. VIII.
[97] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 223 nota 4. Kállai riferì al comitato esecutivo del MSZMP il 29 gennaio 1957; cfr. A Magyar Szocialista Munkáspárt ideiglenes vezetó testületinek…, cit., pp. 76-79; cfr. pure «MicroMega», 4/1992, cit., pp. 98-102. Secondo Kállai Nagy affermò che «egli non si sentiva responsabile di nulla, riteneva le sue decisioni corrette e riferiva alle richieste degli operai e degli studenti quanto al ritiro delle truppe sovietiche. […] Il partito sapeva tutto sulle sue azioni di quei giorni. Egli ribadiva ciò che aveva detto a quel tempo riguardo agli eventi come un’ insurrezione rivoluzionaria e la chiamata delle truppe sovietiche attribuita retrospettivamente al nuovo governo come un errore. Negò di aver mai incoraggiato la controrivoluzione»; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., pp. 223s. nota 4.
[98] Romanian Documents, cit., materiale registrato, 10 dicembre 1956; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 5.
[99] Un giudizio, ahimè, tendenzialmente razzista, ma non proprio infondato. Si ricordino le parole di Berija il 13 giugno 1953; cfr. supra, cap. III.
[100] I. NAGY, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit., pp. 93s.; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 6.
[101] I. NAGY, Nagy Imre Snagovi jegyzetek…, cit., pp. 186s.; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 7.
[102] NAGY TRIAL, cit., op.ir., vol. 1, p. 214, bozza della lettera di Imre Nagy al comitato centrale provvisorio del MSZMP, febbraio 1957; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 8.
[103] E’ un’ opera alla quale ci siamo già riferiti più volte; cfr. supra, cap. I.
[104] Cfr. supra, cap. I.
[105] Cfr. supra, cap. VI.
[106] Abbreviazione di külőnleges, ‘speciale’, ‘separato’.
[107] M. VÁSÁRHELYI, Ellenzékben, cit., pp. 179s.; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 155; cit. in IBIDEM, p. 224 nota 10.
[108] Anche se interrogatori notturni vennero comunque praticati.
[109] Cfr. NAGY TRIAL, cit., vizsg.ir., vol. 1, pp. 51-53, minute dell’ interrogatorio di Nagy del 14 giugno 1957 mattina; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 11.
[110] Cfr. G. KÁLLAI, The Counter-revolution in Hungary…, cit.
[111] Cfr. supra, cap. VI.
[112] Cfr. NAGY TRIAL,cit., op.ir., vol. 18, pp. 69-133; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 12.
[113] Abbiamo già accennato alle drammatiche circostanze della sua morte; cfr. supra. Per una presentazione d’ insieme della figura di Losonczy cfr. la monografia G. KÖVÉR, Losonczy Géza 1917-1957, 1956-os Intézet, Budapest, 1998. Per dettagli sulle circostanze della sua morte cfr. IBIDEM, pp. 337-54; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 13.
[114] Szántó, Vas, Újhelyi, la vedova Rajk ed altri ancora.
[115] I registri della prigione contengono parecchi rapporti sulle cattive condizioni di salute dei prigionieri; cfr. NAGY TRIAL, cit., op.ir., vol. 18, rapporto del 28 dicembre 1957, cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 14. La perdita di peso di Nagy si apprezza a vista d’ occhio nella celebre foto che lo ritrae l’ ultimo giorno del processo: cfr. IBIDEM, p. 164.
[116] A partire dalle sessioni del 16, 17, 18 e 22 aprile nelle sedute per il processo a József Szilágyi, sarà sostituito da Ferenc Vida, detto ‘Tunisi’: cfr. The Secret Trial of Imre Nagy, cit., pp. 57-66 per la cronologia del processo a Szilágyi, giustiziato poi il 24 aprile; cfr. S. KOPÁCSI, Abbiamo quaranta fucili…, cit., p. 347 per il nomignolo del presidente del tribunale.
[117] Si trattava di Mihály Biró, Kálmán Fehér, la signora Péter Lakatos e György Sulyán. La signora Lakatos non era un giudice imparziale, essendo la vedova di una delle vittima del massacro di Köztársaság tér del 30 ottobre 1956; György Sulyán era un giudice di una corte militare, quindi non un ‘laico’ dal punto di vista della legge; cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 15.
[118] NAGY TRIAL, cit., bír.ir., voll. 2-3, minute delle riunioni della corte del 5 febbraio 1958 registrate dai nastri audio. Il testo dell’ atto d’ accusa e della sentenza si trovano in traduzione inglese in The Secret Trial of Imre Nagy, cit., pp. 27-66.67-119. Per la precisione a pp. 57-66 si riporta la sentenza contro Szilágyi; cfr. anche J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 16. Di nuovo in edizione ungherese questi documenti si trovano in A Per Nagy Imre…, cit., pp. 136-63.174-221.
[119] Radó aveva 56 anni all’ epoca del processo, era stato giudice militare fin dal 1948 e nell’ aprile 1957 divenne presidente del tribunale supremo; cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 17.
[120] Piattaforme di programma, disciplina, campi distinti di attività, distinzioni di ruoli, riunioni, agende programmatiche, trattative, ecc.
[121] NAGY TRIAL, cit., op.ir., vol. 18, pp. 28-33, rapporti del colonnello József Ferencsik sui detenuti del ‘gruppo speciale’; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 18.
[122] Ufficialmente la versione era stata quella di un malore di cuore del giudice Radó. Dopo il suo ricovero, Radó rimase un giudice del tribunale supremo fino al suo ritiro nel 1971. Morì nel 1977. Ferenc Vida, nato nel 1911 e morto nel 1990, era un vecchio comunista clandestino, imprigionato nel 1942. Dopo il 1945 lavorò, tra l’ altro, al ministero dell’ interno sotto Nagy. Nella primavera del 1957 divenne lo specialista per la preparazione legale dei processi contro i ‘controrivoluzionari’ e presidente del primo importante processo politico contro lo scrittore Tibor Déry ed i suoi coimputati. Cfr. OHA, F. VIDA-J. FARAGÓ, Perbe fogott ítélet. Interiúk a Nagy Imre-pertanács vezetó bírájával (‘Verdetto sotto processo: intervista col presidente del processo ad Imre Nagy’), manoscritto inedito, pp. 50-58; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 224 nota 19.
[123] I nastri registrati del processo di giugno sono rimasti in due versioni. Una versione verbale non corretta basata sulle trascrizioni audio è nelle 495 pagine in NAGY TRIAL, cit., bír. ir., dossz. 1-7. Questa versione è incompleta, secondo i ricordi di molti testimoni, ma contiene tutte le parole di Imre Nagy. Perciò ci basiamo su questa. Una versione abbreviata ed ufficiale è in IBIDEM, bír. ir., vol. 1, pp. 346-438; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., pp. 224s. nota 20.
[124] J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 161.
[125] Ricordando che la moglie di una delle vittime era tra i quattro giurati ‘popolari’.
[126] Cfr. Libro bianco, cit., vol. V, pp. 97s.
[127] Cfr. supra, capp. I-II.
[128] NAGY TRIAL, cit., bír. ir., dossier 7, p. 127; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 162; cit. in IBIDEM, p. 225 nota 21.
[129] NAGY TRIAL, cit., bír. ir, dossier 7, p. 129; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., pp. 162s.; cit. in IBIDEM, p. 225 nota 22.
[130] NAGY TRIAL, cit., bír. ir, dossier 7, pp. 129s.; riportate in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 163; cit. in IBIDEM, p. 225, nota 23. Per una critica di una versione scorretta di queste ultime parole di Nagy, con parole da lui mai pronunciate, riportate in F. FEHÉR-Á. HELLER, Ungheria 1956…, cit., p. 210; S. KOPÁCSI, Abbiamo quaranta fucili…, cit., p. 378, cfr. M. VÁSÁRHELYI, Verso la libertà, cit., p. 126; I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., p. 28.
[131] Cfr. T. MÉRAY, Thirteen Days…, cit., p. 281; M. VÁSÁRHELYI, Ellenzékben, cit., p. 188. Comunque non è impossibile che il dr. Endre Kelemen, l’ ultimo che incontrò Imre Nagy vivo e parlò con lui, come medico legale, abbia ricevuto oralmente i contenuti di una lettera o di una loro conversazione da comunicare alla famiglia anni dopo. Méray è convinto che un messaggio ‘autentico’ dalla cella della morte sia stato portato alla famiglia, ma non è in grado di indicarne il contenuto. Un articolo del 1995 di A. Kö e L. Nagy ipotizza che una lettera di Nagy sia stata sequestrata e gettata nel deposito della prigione; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 225 nota 24.
[132] Minute dell’ esecuzione della sentenza capitale, 16 giugno 1958 in NAGY TRIAL, cit., bír. ir., vol. 1, p. 393; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 225 nota 25.
[133] Esempi già citati P. INGRAO, Volevo la luna, cit., p. 251 che parla di ‘fucilazione’; R. SERVICE, Compagni…, cit., p. 478, che cita come luogo dell’ esecuzione la Romania.
[134] Cfr. infra, cap. IX.
[135] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 225 nota 26 per un articolo su una rivista ungherese che ricostruisce questa ricerca. Documentazione fotografica è offerta da 1989. Június 16. A Temétes, a cura di Nagy Imre Alapítvány, Budapest, 2009, pp. 23-30 sullo stato della parcella 301 negli anni precedenti il 1989; pp. 41-50 sulla riesumazione del 29 marzo 1989.