I 100 ANNI DELL’AERONAUTICA ITALIANA: L’ERA DELL’AVIOGETTO

di Giuliano Da Frè -

Un secolo di innovazioni e di grandi successi ma anche di arretratezze tecnologiche, come durante l’ultimo conflitto mondiale. Nel dopoguerra l’Aeronautica Militare Italiana, nonostante i pesanti limiti imposti dal trattato di pace, avvia rapidamente la transizione verso i jet.

Esattamente un secolo fa, il 23 marzo 1923, nasceva la Regia Aeronautica, forza indipendente e autonoma dai reparti aerei creati sin dal 1911-1912 in seno a Esercito (che peraltro aveva istituito già nel 1888 la Compagnia Specialisti del Genio per gestire i primi aerostati da osservazione) e Marina. L’Italia era inoltre la prima nazione ad aver impiegato il “più pesante dell’aria” in un’operazione bellica, all’inizio della guerra italo-turca in Libia, il 23 ottobre 1911. Durante la Grande Guerra le forze aeree di Esercito e Marina conobbero una spettacolare espansione, fornendo un inestimabile contributo alla vittoria finale, mentre anche l’industria nazionale iniziava a sfornare validi prodotti, a partire dai bombardieri plurimotori Caproni.
La nascita di una forza aerea indipendente, teorizzata da tempo dal generale italiano Giulio Douhet (1869-1930), uno dei massimi – ma anche tra i più controversi – profeti del nascente “Potere Aereo”, se da un lato sanciva il ruolo fondamentale dell’aviazione alla luce delle lezioni della guerra da poco conclusasi, dall’altra finì per cancellare i reparti aerei autonomi di Esercito e Marina. Un percorso di accentramento tecnico e dottrinale che avrebbe spinto ai margini l’altrettanto necessario sviluppo della cooperazione aeronavale e aeroterrestre, con gravi conseguenze sull’innovazione tecnica (già afflitta da arretratezze industriali e limiti finanziari), e sull’operatività della Regia Aeronautica nel Secondo conflitto mondiale. Crisi giunta a dispetto dei tanti primati e delle spettacolari imprese compiute a cavallo tra anni ’20 e ’30 sotto l’egida del ministro e maresciallo dell’Aria Italo Balbo (1896-1940). La guerra combattuta dal 1940 al 1945, test fondamentale per il nascente Potere Aereo, a tutti i livelli e su scala globale, sarà un disastro per l’Arma Azzurra, drammaticamente arretrata sul piano tecnico, mal impiegata su quello strategico, e sorretta solo dal valore e dall’abilità dei suoi piloti, e dei tecnici che a terra compiranno miracoli per far volare velivoli quasi sempre surclassati dai mezzi avversari.

Dalla ricostruzione “a elica” al boom del jet

De Havilland Vampire, primo aviogetto dell'AMI nel 1949

De Havilland Vampire, primo aviogetto dell’AMI nel 1949

Il Trattato di pace siglato a Parigi nel 1947 non fu certo tenero con le Forze Armate italiane. Sebbene queste non venissero sciolte come si fece in Germania e Giappone, il combinato disposto dei tagli imposti dai vincitori, e della pessima situazione in cui versavano mezzi e reparti, non faceva sperare in una sorte molto più benevola di quella occorsa agli ex alleati dell’Asse.
Le clausole militari del trattato parlavano chiaro: l’Aeronautica Militare Italiana (AMI), erede dal 1946 della Regia Aeronautica, veniva autorizzata a far volare non più di 350 aerei, compresi quelli di riserva e i velivoli dell’aviazione per la Marina. Dei velivoli autorizzati (all’epoca ovviamente solo ad ala fissa e con motore a pistoni), 200 erano quelli armati, ma solo per la difesa aerea e la ricognizione. All’Italia veniva invece vietato di “possedere o acquistare apparecchi concepiti essenzialmente come bombardieri e muniti dei dispositivi interni per il trasporto delle bombe”, sebbene i caccia e i ricognitori potessero impiegare anche ordigni per il supporto tattico.
Ad ogni modo, se per ovviare al limite dei 150 aerei ausiliari da trasporto, collegamento, soccorso in mare e addestramento, si potevano in parte trasferire sottobanco le eccedenze a compagnie aeree nazionali e agli aeroclub (che per lungo tempo impiegheranno i monomotori addestrativi dismessi dall’AMI) creando una sorta di riserva di emergenza, anche solo alimentare la linea dei 200 aerei da combattimento autorizzati risultava tutt’altro che semplice. Dopo aver spremuto per un paio d’anni anche i caccia più vecchi ereditati dalla Regia Aeronautica (MC-200 e -202) e trasformato una trentina di superstiti bombardieri trimotori SM-79 “Sparviero” in aerei da trasporto, il nucleo di caccia nazionali moderni era incentrato su appena una cinquantina tra Fiat G-55 e Macchi MC-205V, in parte assemblati dopo la guerra, con la produzione riattivata anche per l’export in Argentina, Egitto e Siria [1]. Per alimentare i reparti superstiti si fece così ricorso nel 1946-1947 ai velivoli abbandonati, spesso in pessime condizioni, dagli alleati anglo-americani sul territorio italiano, e ai velivoli da loro ceduti durante la cobelligeranza del 1943-1945. Tra questi, un centinaio tra Bell P-39N/Q “Airacobra” e Supermarine “Spitfire”. Il P-39 era un controverso e poco amato piccolo cacciabombardiere, che sarà comunque impiegato a consumazione sino al 1950, quando in un ultimo incidente perse la vita uno dei maggiori assi italiani della guerra: il tenente colonnello Francis Leoncini, che quale direttore del NAVAR-Nucleo Addestrativo Velivoli a Reazione, stava curando il passaggio dell’AMI sui primi jet. Per quanto riguarda gli “Spitfire” resi popolari dalla vittoria nella battaglia d’Inghilterra, ai logorati caccia modello Mk-V ereditati coi P-39 dal periodo di cobelligeranza, subentrarono dal 1946 circa 140 più recenti Mk-IXE, in servizio sino al 1952 e con meno del 10% di velivoli perduti per incidente.
Durante il periodo di cobelligeranza i piloti italiani del “Regno del Sud” avevano inoltre fatto conoscenza con un caccia del tutto diverso concettualmente dai monomotori agili e leggeri ai quali erano abituati: il potente ma impegnativo bimotore P-38 “Lightning” della Lockheed [2]: i circa 100 P-38L transitati nel 1946 nell’AMI, non tutti efficienti, furono gradualmente revisionati e impiegati come caccia di scorta a lungo raggio e notturni sino al 1956, subendo tuttavia una trentina di incidenti, in parte legati all’usura, e in parte alle difficoltà di pilotaggio.
Una prima modernizzazione, che avrebbe portato alla sostituzione di G-55, MC-205, “Spitfire” e P-39, giunse con quello che resta in assoluto uno dei migliori caccia con motore a pistoni della storia, con caratteristiche tanto avanzate da far già presagire i jet: il North American P-51 “Mustang”. A parte pochi esemplari recuperati da quelli incidentati abbandonati in Italia dalle forze alleate, e sfruttati per recuperare pezzi di rispetto, dagli Stati Uniti giunsero – dopo la fine del governo di unità nazionale e la rottura con le sinistre nel maggio 1947 – 170 “Mustang” modello P-51D, quasi nuovi e ricondizionati: di questi 100 sarebbero stati consegnati dopo l’adesione italiana alla NATO, affiancati nel 1950-1951 da un nuovo lotto di 70 più recenti “Lightning” nella versione caccia-ricognitore F-5, e 75 pesanti caccia P-47D “Thunderbolt”. Se il potente ma complesso monomotore della Republic anche in Italia ebbe scarsa fortuna (già nel 1954 era stato radiato, dopo che un terzo degli apparecchi era andato rapidamente distrutto in incidenti di volo), “Mustang” e F-5 avrebbero conosciuto un’intensa vita operativa sino alla fine degli anni ’50: e i P-51 superstiti radiati nel 1958 (più di 70 quelli andati perduti) restarono in magazzino per anni, con alcuni esemplari poi destinati al mercato civile, mentre 8 furono revisionati e consegnati nel 1962 alla nascente Aeronautica della Somalia.
Tuttavia, al pari di tutte le forze aeree del mondo, vecchie e nuove, anche l’AMI da tempo guardava ai due velivoli del futuro e che, testati durante la guerra, ora iniziavano a diffondersi: l’aereo a reazione e l’elicottero. Se quest’ultimo esula dalla nostra analisi, l’adozione dei jet segnò per la rinascente aviazione italiana una svolta. Basandosi sugli studi di Secondo Campini (1904-1980), la Caproni aveva già testato un prototipo di aviogetto nazionale nel 1940, ma i limiti tecnologici italiani avevano rallentato un progetto estremamente interessante, e la guerra aveva fatto il resto [3]. Mentre a fine anni ‘40 con altri due ingegneri aeronautici di punta, Giuseppe Gabrielli (1903-1987) e Sergio Stefanutti (1906-1992), si tornava alla progettazione di aviogetti nazionali, sebbene equipaggiati con motori per lo più inglesi, proprio Londra avrebbe fornito all’AMI il suo primo jet da combattimento. Nel 1948 fu presentato a Roma un DH-100 “Vampire” della de Havilland, e furono poi acquisiti 5 esemplari Mk-5 della RAF incidentati e rimasti in Italia. Dopo essere stati positivamente testati, nel 1949 si giunse al contratto: entro il 1955 sarebbero stati prodotti su licenza da Fiat e Macchi 195 esemplari della variante FB-52 di questo caccia multiruolo a reazione di prima generazione avanzata, spinto da un turbogetto Goblin Mk-3. A questi velivoli si aggiunsero (i numeri complessivi sono ballerini, anche perché parte dei jet furono venduti all’Egitto, ma si parla di un totale di 268 “Vampire”) alcuni aerei di preserie consegnati dalla de Havilland, oltre a 20 aerei nella versione caccia notturno NF-54. Relativamente semplice e affidabile (ne andarono perduti un paio di dozzine), questo jet facilitò il passaggio dei piloti italiani dall’era del motore a pistoni a quella del reattore. Restò tuttavia in servizio per poco tempo; già nel 1954 un primo lotto fu trasferito all’Egitto, e dal 1960 l’intera flotta era stata dismessa, rapidamente sostituita da jet di 2ª generazione.
A completare infatti la transizione della flotta di aerei da combattimento, scattarono una serie di meccanismi concatenati tra loro. Nel 1949, innanzitutto, l’Italia aveva completato il suo inserimento in uno schieramento anti-sovietico (processo avviato nel 1947 con la rottura del patto di governo tra DC e sinistre) aderendo alla nascente Alleanza Atlantica a guida statunitense. Entrando nella NATO, iniziarono a cadere una dopo l’altra le clausole militari del Trattato di Parigi; anche l’Aeronautica poté così iniziare a guardare a una espansione non più sottoposta a limiti qualitativi e numerici. E il boom economico (iniziato nel 1951 e proseguito a ritmi “cinesi” sino al 1963, col PIL che aumentava in media del 6% l’anno, e picchi oltre l’8%) incise positivamente sulla prima fase di riarmo del 1947-1954, quando furono stanziati 2.800 miliardi di lire, raddoppiati grazie agli aiuti arrivati da USA e NATO. Per la rinascita dell’AMI si trattava però di una medaglia a due facce. Infatti, l’indubbia e rapida modernizzazione – in pochi anni la flotta “combat”, che qui analizziamo, passò dai caccia con motore a pistoni ai jet di 2ª generazione, mentre venivano rinnovate anche le componenti addestrativa e logistica, e introdotti i primi elicotteri – fu supportata dagli aiuti giunti via MDAP (Mutual Defense Assistance Program) soprattutto dagli Stati Uniti. Scelta che, se metteva rapidamente a disposizione dei nostri piloti ottimi mezzi di ultimo modello, dall’altra tarpò le ali all’industria nazionale e a più ampi progetti europei. Saltarono infatti sia i programmi relativi alla coproduzione in Italia di 1.000 jet de Havilland “Venom” (dopo un primo lotto di 80 già selezionati dall’AMI, coi 2 primi esemplari consegnati per le valutazioni, mentre anche i motori sarebbero stati realizzati su licenza), evoluzione dei “Vampire”, sia i promettenti progetti nazionali cui lavoravano Stefanutti (i caccia “Sagittario-2”, “Ariete” e “Leone”, realizzati dalla Aerfer in soli 5 prototipi) e Gabrielli. Quest’ultimo firmerà gli addestratori avanzati Fiat G-80 e G-82, realizzati in una dozzina di esemplari tra prototipi e piccoli lotti di preserie per l’AMI impiegati tra 1951 e 1957, e pure cancellati nonostante le grandi potenzialità: ma come vedremo per il progettista di Fiat Avio il meglio doveva ancora venire.
A mandare all’aria questi progetti che indubbiamente avrebbero supportato la crescita tecnica e industriale del paese (però almeno per quanto riguarda i “Venom” ancorando l’AMI a un velivolo di concezione già superata), furono le centinaia di aviogetti da combattimento e addestramento avanzato giunti dagli Stati Uniti. Complessivamente – facendo la tara ai soliti numeri ballerini – quasi 900, tutti di modello recente, nuovi o quasi nuovi, a costi contenuti grazie alla formula MDAP, e in linea con i migliori standard del tempo; ma con scarse ricadute per l’industria nazionale, che si limitò ad attività di manutenzione e produzione di parti di ricambio per il grosso dei velivoli, e alla costruzione/assemblaggio su licenza di 221 F-86K per l’AMI, e per le forze aeree di Francia, Germania, Olanda e Norvegia.
I primi jet americani a entrare in servizio furono 250 F-84G “Thunderjet”, consegnati nel 1951-1953, monoreattori da caccia e attacco al suolo che avevano volato la prima volta nel 1946 ed erano all’epoca impiegati nella guerra di Corea, non eccessivamente sofisticati. Nell’Aeronautica italiana prestarono servizio di prima linea solo fino al 1957, decimati dagli incidenti (circa 40 quelli gravi) e dalla loro rapida obsolescenza in termini di propulsore e avionica. Nel 1955 era d’altra parte iniziata la loro sostituzione col ben più avanzato caccia F-86 “Sabre”, vera star della guerra coreana. Grazie anche al contributo della produzione Fiat, ne sarebbero entrati in servizio entro il 1958 quasi 250. I primi 50 furono prodotti negli Stati Uniti e poi assemblati in Italia, al costo di 22,5 milioni di dollari coperti dal MDAP, più altri 13 prodotti su licenza: si trattava della variante F-86K (popolarmente chiamata “Kappone” dai piloti italiani), equipaggiata con radar AN/APG-37 per l’impiego anche notturno, un sofisticato sistema di condotta del tiro e 4 cannoni da 20 mm. Dopo il 1960, mentre per sostituire i primi 14 velivoli perduti ne venivano riacquisiti 30 di quelli prodotti dalla Fiat per Francia e Olanda, i “K” furono modificati per impiegare – primi in Italia – i missili aria/aria con guida a infrarossi AIM-9B “Sidewinder”. Nel frattempo, entro il 1958 arrivavano per lo più di seconda mano ma con pochi anni di vita operativa 179 meno sofisticati “Sabre” nella versione caccia diurno F-86E, prodotto su licenza dalla Canadair come CL-13 “Sabre” Mk-4. Entrambe le versioni saranno impiegate sino a metà anni ’70, sebbene nell’ultimo decennio il logorio di cellule e motori ne limitassero le prestazioni, lasciando come vedremo ai nuovi F-104G i compiti di prima linea, anche per l’attacco al suolo. Gli F-86E infatti mantenevano capacità secondarie di supporto tattico, impiegando razzi o bombe a caduta libera. Tuttavia, sempre dal 1955 era iniziata la consegna di una nuova versione del rapidamente dismesso F-86G “Thunderjet”: l’F-84F “Thundestreak”, ottimizzato per le missioni d’attacco, anche con razzi guidati di precisione e armi nucleari, grazie all’adozione di un apparato LABS (Low-Altitude Bombing System) di supporto alla tecnica del bombardamento in cabrata. Ne entrarono in servizio 194, cui si aggiunsero 78 apparecchi nella versione ricognitore armato RF-84F “Thunderflash”: tutti nuovi di pacca e impiegati sino al 1972, nonostante un alto rateo di incidenti – circa 130.
Proprio per supportare il brusco passaggio dei piloti italiani dai caccia a pistoni a quelli a reazione, oltre all’impiego a fini addestrativi dei rapidamente invecchiati “Vampire”, nel 1952 giunse dagli Stati Uniti anche un aviogetto da addestramento avanzato: il T-33A “Shooting Star”, derivato dal primo caccia a reazione americano F-80, prodotto dalla Lockheed nel 1944. Acquisito in 60 esemplari da addestramento e 14 da ricognizione RT-33A (più altri 25 di seconda mano giunti in seguito, anche per cannibalizzazione), sarebbe stato impiegato sino al 1982, benché dalla seconda metà degli anni ’60 relegato a compiti secondari di collegamento e traino bersagli.

Eccellenze nazionali e controversi “spilloni”

F-104, il popolare spillone, che nelle versioni g e s restera in servizio dal 1962 al 2005

F-104, il popolare spillone, che nelle versioni g e s restera in servizio dal 1962 al 2005

Come accennato, la rapida disponibilità e a prezzi stracciati di centinaia di moderni jet americani, aveva stoppato le ambizioni nazionali ed europee dell’industria aeronautica italiana, sebbene la produzione su licenza dell’F-86K rappresentasse un interessante ritorno non solo economico, ma anche in termini di know-how tecnologico.
La grande occasione per rifarsi (benché poi in parte depotenziata) giunse nel dicembre 1953, quando la NATO varò il “NATO Basic Military Requirement 1” (NBMR-1), mirato a riequipaggiare i reparti aerotattici con un cacciabombardiere leggero standard – Light Weight Tactical Strike Fighter (LWTSF) -, comune ai paesi membri, con capacità nucleare e cofinanziato via MDAP. L’Italia partecipò con l’Aerfer “Sagittario-2” di Stefanutti, e con un nuovo progetto firmato da Gabrielli: il Fiat G-91, il cui prototipo spiccò il volo per la prima volta il 9 agosto 1956. Dopo una serrata competizione con le altre 7 proposte concorrenti firmate da aziende francesi, inglesi e statunitensi, fu il piccolo e agile monoreattore della Fiat, spinto dall’affidabile propulsore inglese Bristol Siddeley “Orpheus”, ad aggiudicarsi la vittoria nel gennaio 1958. Tra non poche proteste e contestazioni (in primis l’aver giocato d’anticipo, con un progetto il cui design si ispirava – ma rielaborandolo con eleganza – al “Kappone” che la FIAT produceva su licenza), che soprattutto sul piano industriale ne avrebbero inficiato il successo commerciale. Infatti, nonostante avessero testato numerosi prototipi, non solo Stati Uniti e Francia decisero, poco sportivamente, di puntare su prodotti nazionali; ma finirono per condizionare anche Grecia, Turchia e Norvegia, che erano a un passo dall’acquisto, mentre non andarono a buon fine le promettenti trattative con i paesi non NATO (Austria, Svizzera e Iran). Solo la Germania Ovest avrebbe ordinato il caccia Fiat, con 94 apparecchi realizzati in Italia dal 1959, e altri 200 prodotti su licenza, restando in servizio sino al 1982. Altri 50 furono venduti al Portogallo, che li impiegò dal 1966 al 1993, perdendone una decina in azione durante le campagne coloniali in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau [4].
Nel frattempo, dal marzo 1958 l’aereo prestava servizio con l’Aeronautica italiana, coi primi 5 esemplari di preserie inquadrati per un ciclo di test operativi nel Reparto Sperimentale di Volo. Entro il 1966 sarebbero stati consegnati 129 tra G-91 di preserie (poi modificati per l’impiego dal 1963 al 1982 nella PAN, le “Frecce Tricolori”) e da appoggio tattico R/1A e R/1B, più 103 velivoli biposto da conversione operativa/addestramento avanzato G-91T/1. Ma non sarebbe finita qui. Si poneva infatti il problema di affiancare – e in prospettiva di sostituire dopo il 1970 – i jet di 2ª generazione con nuovi e più avanzati modelli, caratterizzati da capacità multiruolo e soprattutto ampiamente supersonici, essendo F-86, F-84 e G-91 velivoli transonici, capaci solo di sfiorare Mach 1.
L’AMI avrebbe voluto un apparecchio di produzione o coproduzione nazionale, anche bireattore e multiruolo, per rimpiazzare con un’unica piattaforma (in più configurazioni per le funzioni difesa aerea/intercettazione e attacco/strike anche nucleare, ricognizione strategica) tutti gli F-86 e F-84. Ma nel 1958 la Germania Ovest, che a soli 2 anni dall’avvio del riarmo delle sue Forze Armate ormai si poneva come uno dei mercati più importanti d’Europa, scelse il monoreattore F-104G “Starfighter” dell’americana Lockheed. Sebbene sul piano tecnico la scelta fosse controversa – lo “Starfighter” nasceva come intercettore puro di 2ª generazione, e con caratteristiche tra l’altro particolari sul piano del combattimento aria-aria, contrariamente a più versatili rivali come il francese “Mirage III” e lo svedese “Draken” [5] -, e negli anni ’70 inficiata dall’esplodere di uno dei più grandi scandali di tangenti del dopoguerra (che coinvolse prestigiosi leader europei e asiatici), l’aereo americano presentava capacità di tutto rispetto. Innanzitutto un’avionica avanzata e migliorata con la modifica dell’F-104G in un velivolo multiruolo, con configurazioni da difesa aerea, attacco anche nucleare, e ricognizione. Poi la presenza del nuovo e affidabile turboreattore General Electric J-79 – impiegato su altri eccellenti aerei come il “Phantom” e l’F-16 prima versione -; e infine la possibilità data ai paesi europei di produrre l’aereo su licenza, creando una omogenea catena manutentiva e operativa, con vantaggi logistici e di interoperabilità di impiego.
Nel 1960 anche l’Italia selezionò lo “Starfighter”, che per la particolare forma fu presto ufficiosamente ribattezzato “Spillone”; nel 1961 il contratto divenne operativo e il 3 febbraio 1962 atterrava all’aeroporto di Torino-Caselle il primo F-104G costruito negli stabilimenti Lockheed, mentre 8 mesi più tardi volava il primo velivolo realizzato su licenza dalla FIAT. Il fabbisogno stimato per sostituire i jet esistenti era di 500 macchine: ma furono ordinati in questa fase solo 105 F-104G da combattimento (assieme ad altri 900 missili “Sidewinder”, in aggiunta ai 400 già ordinati nel 1958 per l’F-86K), per metà destinati ai reparti intercettori e metà a quelli d’attacco. A questi si aggiungevano 20 RF-104G da ricognizione e 24 TF-104G da conversione operativa [6]; tutti consegnati entro il 1966 dalla FIAT, che produsse altri 75 aerei destinati a Germania e Olanda. Un notevole ritorno economico (in aggiunta al fatto che 50 aerei destinati all’AMI erano finanziati dagli USA) e industriale, oltre che tecnico. Infatti, come poi vedremo, per mandare definitivamente in pensione il “Kappone” limitando i costi sarebbe stata effettuata una scelta marcata dalla continuità, seppur tra luci e ombre.
Nel frattempo, per migliorare la preparazione dei piloti italiani (l’F-104G era un velivolo con doti eccezionali in materia di arrampicata e velocità, ma anche molto impegnativo, e con un tasso di perdite che superò il 50% nei 25 anni di impiego) fu acquisito, assieme al citato G-91T, e per affiancare e poi sostituire il datato T-33, un aereo specificamente destinato all’addestramento intermedio per i piloti di aviogetto, con limitate capacità per il supporto tattico, aumentate nelle versioni destinate al fortunatissimo export. Firmato da un altro grande progettista aeronautico italiano del dopoguerra, Ermanno Bazzocchi (1914-2005) [7], e prodotto dalla Aermacchi, il monoreattore leggero MB-326 – “Macchino” – aveva volato per la prima volta il 10 dicembre 1957, dopo quasi 5 anni di studi. Sempre propulso da un affidabile reattore inglese (l’Armstrong Siddeley “Viper”), un anno più tardi il prototipo era stato preso in carico dal Reparto Sperimentale Volo dell’AMI, che ne ordinò altri 15 di preserie, seguiti nel 1960 da 100 macchine suddivise in 10 lotti, tutte consegnate entro il 1966, assieme a 4 esemplari civili MB-326D destinati alla scuola di volo dell’Alitalia, e poi ceduti all’Aeronautica, che ottenne anche una decina di esemplari delle varianti B/E/K, armate per appoggio tattico. La versione “combat” tuttavia non fu adottata dall’AMI, mentre avrebbe avuto successo tra quelle esportate, per un totale di 630 velivoli destinati a una dozzina di paesi, in parte costruiti sino ai primi anni ‘80 su licenza in Brasile, Australia e Sudafrica, e con ancora oggi un pugno di esemplari impiegati a consumazione. In particolare il Sudafrica utilizzerà ampiamente i suoi “Impala-2” (versione customizzata da attacco) nelle guerre combattute tra anni ’70 e ’80 in Angola, Mozambico e Namibia; l’AMI invece dopo il 1981 inizierà a passare il “Macchino” ai reparti di seconda linea e di collegamento (radiandolo nel 1995), mandando definitivamente in pensione il T-33, mentre la linea addestrativa veniva modernizzata con un erede diretto dell’MB-326.
Dopo il 1970 infatti per pensionare definitivamente gli ormai spremuti e sorpassati jet americani da caccia, attacco e addestramento acquisiti negli anni ’50, l’Aeronautica decise di puntare, per risparmiare fondi sempre più scarsi a causa della crisi economica, supportando inoltre l’industria nazionale e standardizzando il più possibile linee logistiche e operative, su progetti derivati dai velivoli di 3ª generazione in servizio.
Quasi naturale fu lo sviluppo dell’eccellente Fiat G-91 nazionale, effettuato sulla base delle esperienze accumulate con la prima versione, e delle lezioni emerse durante la guerra del Vietnam, che confermavano la necessità di poter disporre di validi caccia tattici leggeri, ma meglio armati, protetti e con maggiore carico bellico trasportabile. Il G-91 fu pertanto radicalmente riprogettato, conservando gli elementi originari ancora validi: la più vistosa delle innovazioni introdotte col G-91Y fu sicuramente l’adozione della formula bireattore, grazie a 2 General Electric J-85, mentre le ali venivano irrobustite e modificate per trasportare sino a 4.000 libbre di carico bellico (in aggiunta a 2 cannoni da 30 mm nella sezione anteriore) e/o serbatoi aggiuntivi di carburante. Il nuovo G-91Y, che comprendeva anche avionica più aggiornata, volò nel 1966: la produzione dei 75 esemplari ordinati dall’AMI (poi ridotti a 65) iniziò nel 1968, per concludersi nel 1972: e se il G-91 nelle versioni monoreattore R e T sarebbe andato in pensione entro il 1992, allo “Yankee” sarebbe toccata la messa a terra nel 1994, con un tasso di incidenti ridotto, a conferma dei vantaggi della formula bireattore.
Se la scelta di sviluppare il G-91Y era stata positiva (nonostante i numeri finali ridotti, e il ripetersi del fallimento nella sua esportazione in Svizzera ed Egitto, mal supportata sul piano politico), decisamente più controversa fu quella relativa a uno “Spillone” ampiamente customizzato dall’industria italiana.
Già nei primi anni ’60 la scelta dell’F-104G era stata discutibile, sebbene meno disastrosa di quanto non si tenda a pensare. Tuttavia, paradossalmente lo “Starfighter” progettato negli anni ’50 come intercettore puro dalle caratteristiche quasi eccezionali di velocità e arrampicata (e notevoli ancora oggi, sebbene inficiate da limiti di manovrabilità e autonomia), nella nuova versione multiruolo e attacco nata dal contratto tra Lockheed e Germania Ovest aveva perso rapidamente punti quale aereo da caccia. Per fronteggiare i sempre più veloci bombardieri supersonici sovietici Bonn aveva pertanto deciso di sostituirli nel 1973 con il potente caccia bireattore F-4F “Phantom-II”, equipaggiato coi missili a medio raggio e guida radar AIM-7E “Sparrow”. Anche l’Italia aveva bisogno di missili di questo genere, ma non aveva i fondi per imitare la scelta tedesca, dovendo inoltre sostituire rapidamente i sempre più obsoleti F-86K. Sebbene proprio in quegli anni (ma ci sarebbe voluto del tempo per analizzare a fondo i dati) in Vietnam tanto lo “Sparrow” in questa prima versione, quanto il collaudato AIM-9B in servizio da tempo, ottenessero una mediocre percentuale di vittorie sui veloci e agili jet sovietici, l’Italia decise di sviluppare dal già discutibile F-104G una nuova versione da intercettazione: tornando così alle origini delle “Spillone”, ma modificato come “Sparrow-Starfighter” (poi F-104S) per impiegare “Sparrow” e “Sidewinder”, questi ultimi anche nella versione migliorata AIM-9F. Due RF-104G furono radicalmente modificati per fungere da prototipi e inviati alla Lockheed per studiare le innovazioni necessarie. Il prototipo volò nella nuova configurazione il 22 dicembre 1966 (curiosamente 10 giorni dopo il G-91Y), e due anni più tardi era pronto il terzo prototipo, questa volta nuovo di pacca e realizzato già con la nuova cellula modificata, il reattore J-79 in versione potenziata, e avionica adeguata a supportare l’impiego dei missili a guida radar, mantenendo capacità di attacco al suolo, ma eliminando il cannone da 20 mm. Seguì l’ordine per la produzione di 205 velivoli di serie, costruiti tra 1969 e 1979, oltre a 40 destinati alla Turchia, mentre nel 1969 venivano ordinati anche 1.000 missili AIM-7E “Sparrow”.
Infine, anche per affiancare e poi sostituire sia l’addestratore intermedio MB-326, sia quello avanzato G-91T, nel 1972 l’Aeronautica decise di affidarsi a un’unica macchina, che poi avrebbe anche riequipaggiato le “Frecce Tricolori”. Scartata una versione biposto del G-91Y, fu Aermacchi che, forte del successo del suo “Macchino”, tornò in corsa con due proposte, sempre firmate da Bazzocchi: la prima per il sofisticato biturbojet ad ala alta (ma con un’opzione anche su reattore singolo) MB-338V, con avionica avanzata e interessanti possibilità di ricavarne anche un velivolo da attacco al suolo. Opzione sofisticata ma costosa, cui si preferì un più economico derivato dello MB-326: l’elegante e agile MB-339A, spinto da un Rolls-Royce “Viper” inglese, e che volò per la prima volta il 12 agosto 1976. Il prototipo si dimostrò subito maturo, anche se varie modifiche migliorative furono introdotte mentre si attendeva il contratto, sbloccato dalla legge del 1977 che garantiva finanziamenti straordinari per l’Aeronautica, e siglato definitivamente nel 1980, dopo che già un lotto di 15 esemplari di preserie era stato posto in produzione, coi primi 5 consegnati all’AMI nel 1978-1979 per avviare i test operativi. Le consegne ufficiali iniziarono invece dal 1980, mentre fioccavano i primi ordini dall’estero, che se non eccezionali come per il “Macchino” (la concorrenza si era fatta sempre più forte, anche con prodotti di paesi emergenti, senza contare il connazionale S-211 di SIAI-Marchetti, presentato nel 1981), portarono comunque alla realizzazione di un centinaio di esemplari per 8 paesi, comprese le versioni da attacco al suolo impiegate in diversi conflitti, dalle Falkland nel 1982 alla guerra tra Eritrea ed Etiopia nel 1998-2000 [8]. L’Aeronautica italiana acquisì invece 101 MB-339A, consegnati entro il 1987 e destinati all’intero ciclo addestrativo su jet. Dal 1982 l’elegante aviogetto andò anche a riequipaggiare le “Frecce Tricolori”, mentre 2 gruppi venivano configurati come assaltatori per missioni CAS (Close Air Support) con cannone da 30 mm in pod, razzi e bombe; impiegabili da piste corte e semi-preparate, nel 1986 alcuni aerei furono ridispiegati a Pantelleria durante la “crisi dei missili” con la Libia, mentre nei primi anni ‘90 non andò a buon fine la conversione per missioni antinave. L’evoluzione dell’MB-339 tuttavia sarebbe proseguita, preparando la strada all’avvento dei jet di 4ª generazione. Un avvento mirato a preparare l’Aeronautica Militare alle sfide del 2000, avviato oltre mezzo secolo fa; ma facciamo un passo indietro.

Verso il XXI secolo

F-35, il più sofisticato jet del mondo in servizio con l'AMI dal 2015

F-35, il più sofisticato jet del mondo in servizio con l’AMI dal 2015

Come abbiamo visto, già alla fine degli anni ’50 i vertici dell’AMI stavano guardando all’adozione di un caccia multiruolo unico che, in più configurazioni, andasse a sostituire F-86 e F-84 nelle missioni di difesa aerea, attacco/strike e ricognizione strategica. La spinta di USA e Germania a favore degli F-104G non aveva pienamente risposto a tale esigenza, tanto da dover proseguire la costruzione di “Starfighter-S” e G-91Y più performanti; ma pur sempre sul piano tecnologico una sorta di “minestra riscaldata”, con conseguenze anche sullo sviluppo dell’industria nazionale.
Negli anni ’60 infatti soprattutto le industrie francese e inglese stavano studiando nuove tecnologie da applicare ai jet da combattimento, dall’impiego dei computer ai radar tipo TFR (Terrain-Following Radar) per i voli a bassissima quota, all’adozione delle ali a freccia e geometria variabile. Nel 1968 si formò un gruppo di studio comprendente Germania Ovest, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Belgio, Italia e Canada, per realizzare un caccia multiruolo di nuova generazione comprendente le innovazioni tecniche in fase progettuale. Un anno più tardi Bonn, Roma e Londra avrebbero formato il consorzio Panavia (da “Panther Aviation”, primo nome del futuro “Tornado”), allo scopo di lanciare entro il 1975 il Multi Role Combat Aircraft MRCA-75. Alle difficoltà tecniche si unirono tuttavia crisi economica e dissidi tra i partner: alla fine il nuovo aereo, un potente e pesante bireattore propulso da una coppia del Turbo-Union RB-199 appositamente sviluppato, sarebbe nato come cacciabombardiere da penetrazione destinato a sostituire gli F-104G nel ruolo di attacco anche nucleare [9], e con la produzione avviata nel 1979, 5 anni dopo il primo volo di un prototipo. Entro il 1998 ne sarebbero stati costruiti un migliaio, compresi 120 esportati in Arabia Saudita.
Nell’Aeronautica Militare le consegne avvennero tra 1981 e 1989, relativamente a 100 esemplari: 87 PA-200 “Tornado” IDS da attacco, più un esemplare di preserie destinato ai test e 12 da conversione operativa, sino al 1999 schierati nel polo addestrativo comune attivato nel 1981 nella base RAF inglese di Cottesmore. Dalla Germania furono anche acquistati 60 missili antinave “Kormoran-1”, per l’impiego dei “Tornado” in azioni aeronavali.
La comunanza dello sviluppo e dell’impiego del “Tornado” erano decisamente superiori rispetto a quanto realizzato in passato con F-86 e F-104. Per l’AMI poi questo primo aereo di 4ª generazione consolidava la formula bireattore iniziata col G-91Y, che ha contribuito, assieme a tutta una serie di innovazioni nella catena logistica, addestrativa e manutentiva, a limitare a una quindicina i “Tornado” perduti in 40 intensissimi anni di impiego, in pace e anche in azioni di guerra: da quella del Golfo nel 1991 (col primo jet italiano abbattuto dopo il 1945 [10]), al lungo impegno balcanico tra 1993 e 1999, alle più recenti missioni in Afghanistan, Libia e Iraq, a partire dal 2009. Il nuovo apparecchio inoltre introdusse accanto al pilota la figura del navigatore/operatore di sistemi, col quale formare un tandem affiatato e integrato, come accadeva in altre nazioni.
Sulla base delle esperienze anche belliche, inoltre, il “Tornado” è stato costantemente aggiornato. Già all’epoca della guerra del Golfo era in fase di sviluppo la modifica di parte dei “Tornado” (16 entro il 1998) nella versione ECR (Electronic Combat Reconnaissance), impiegata per localizzare e sopprimere i radar nemici con l’uso di missili antiradiazione, nel 1991 ordinati in 118 esemplari, versione AGM-88A, impiegati tutti in Kosovo nel 1999 e sostituiti da 560 AGM-88B consegnati a lotti nel 1994-2003.
Nel 1992, sulla base delle esperienze accumulate nel Golfo, dove erano state impiegate solo bombe a gravità, l’AMI avviò un graduale processo di acquisizione e integrazione sul “Tornado-IDS” di armi di precisione: GBU-16 operative dal 1995, seguite dal 2002 da 940 GBU-32 JDAM, mentre da Israele arrivarono nel 1993-2007 ben 2.600 kit di guida “Opher”, “Griffin” e “Lizzard” per bombe Mk-82/83. Nel 1999 erano poi stati avviati gli studi per varare un più organico MLU, concretizzatosi nel 2002-2006 con l’ammodernamento di una prima tranche di 18 IDS, seguiti da altri lotti; programma conclusosi con l’aggiornamento nel 2013-2018 anche di 15 ECR, e segnato dall’integrazione di nuove armi di precisione: AGM-88E, 200 missili a lungo raggio “Storm Shadow”, versioni più avanzate di GBU-12/16/32, e GBU-39 SDB.
Il “Tornado” mandò in pensione nel 1989 l’F-104G da attacco, mentre restavano in servizio TF-104G e RF-104G, riequipaggiato col pod da ricognizione “Orpheus”. Ma non essendo il nuovo bireattore Panavia anche un caccia intercettore, restava la questione di come sostituire l’F-104S: nel 1979, mentre la produzione di questo velivolo già superato stava per chiudersi, e veniva invece avviata quella del “Tornado”, i membri del consorzio Panavia, più Spagna e Francia, iniziarono a confrontarsi in merito a un nuovo aereo comune ma da difesa aerea. Erano i primi passi del futuro Eurofighter “Typhoon”, che però sarebbe entrato in servizio solo dopo un quarto di secolo. Per colmare il gap e arrivare al 2000, l’AMI aveva due strade: la più costosa – e penalizzante per l’industria nazionale – era l’acquisto di un caccia di 4ª generazione come l’F-16 americano, che peraltro data la sua versatilità avrebbe potuto tranquillamente mandare in pensione anche il G-91: ipotesi che però come vedremo avrebbe ulteriormente depresso le aziende italiane. Si preferì invece stringere la cinghia, e nel 1984 fu varato un programma di ammodernamento (ASA-Aggiornamento Sistema d’Arma) per gli F-104S, con 147 esemplari modificati tra 1985 e 1993, per una spesa di 600 miliardi di lire. Fu adottato un nuovo radar con capacità lock-down per integrare il missile aria/aria a medio raggio “Aspide”, un ottimo prodotto di progettazione nazionale già adottato dai sistemi sup/aria SAM di Marina ed Esercito (e con le batterie “Spada” dell’AMI), e largamente esportato, mentre gli AIM-7E venivano relegati a compiti secondari, e i “Sidewinder” AIM-9B/F sostituiti con 1.000 esemplari più avanzati modello “L”.
Contemporaneamente, furono ordinati altri 6 MB-339A, consegnati nel 1995 per ripianare le perdite subite, compresa quella – tragica – dei 3 aerei della PAN entrati in collisione durante un’esibizione a Ramstein, nel 1988, con 67 morti e centinaia di feriti tra gli spettatori. Nel 1995 fu quindi deciso l’acquisto di un’ulteriore tranche di 30 aerei nella più avanzata versione MB-339CD, consegnati tra 1997 e 2005 in 2 lotti, e dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 riconfigurabili come Slow Mover Interceptor (SMI), armati con gli AIM-9L e pod-cannone da 30 mm.
Come accennato, a favorire la decisione di puntare ancora sullo “Spillone” insisteva la volontà di sostituire il G-91 sempre con un prodotto nazionale. Esaurita la produzione dei 65 G-91Y, Aermacchi aveva iniziato a sviluppare un cacciabombardiere leggero, coinvolgendo già all’epoca l’Embraer brasiliana: denominato MB-340, nel 1977 divenne la base per il requisito varato dall’AMI grazie alla “legge speciale” approvata quell’anno. Il progetto, ribattezzato AM-X, crebbe rapidamente col coinvolgimento di Aermacchi e Aeritalia (nata nel 1969 dalla fusione tra FIAT Avio e Aerfer), e tenendo conto anche del know-tecnologico accumulato col progetto del “Tornado”, di cui il nuovo cacciabombardiere leggero, monoreattore e monoposto, meno costoso ma di adeguata sofisticazione, avrebbe dovuto essere il complemento, andando a sostituire non solo i G-91, ma anche i restanti F-104G – compresi quelli da ricognizione – non coperti dal dispendioso bireattore di Panavia. Nell’impresa fu poi coinvolta anche Embraer, e Italia e Brasile indicarono rispettivamente un fabbisogno di 238 e 93 macchine, che l’azienda brasiliana avrebbe realizzato localmente, con componenti costruiti con Aermacchi e Aeritalia, e interessanti prospettive di export, poi non concretizzatesi nonostante fosse stato selezionato da Thailandia e Venezuela. Il primo volo fu effettuato il 15 maggio 1984, ma purtroppo il prototipo precipitò due settimane dopo causando la morte del comandante Manlio Quarantelli, da 20 anni uno dei più esperti collaudatori italiani. Non era un evento eccezionale: i prototipi venivano testati senza misericordia proprio per individuarne i difetti, ed eliminarli. Ma sulla prima fase della vita dell’AMX, poi ribattezzato A-11 “Ghibli”, che si presentava al momento di entrare in servizio nel 1988 come un velivolo robusto, bene armato e con avionica adeguata, pesarono una serie di problemi, che causarono nei primi anni diverse perdite: al centro delle polemiche soprattutto il motore scelto, uno “Spey” della Rolls-Royce, collaudato ed economico, ma di derivazione civile e rivelatosi inadeguato per le esigenze di un più complesso aereo da combattimento.
Nel frattempo, la Guerra Fredda era finita: e questo si traduceva non solo in un drastico taglio degli ordinativi da 238 a 136 (110 monoposto da combattimento e 26 biposto da conversione operativa, mentre la quota brasiliana fu ridotta a 56 macchine), ma anche in un approccio diverso nei confronti delle perdite subite dall’Arma Azzurra in tempo di pace. Dopo aver scartato la possibilità di rimotorizzare l’aereo con un propulsore più adeguato ma anche più costoso, con 6 AMX perduti nei primi 5 anni [11], i vertici dell’AMI non solo cancellarono la conversione di alcuni aerei per missioni antiradar e antinave, ma anche misero a terra buona parte dei jet dei primi 2 lotti, concentrando risorse e interventi migliorativi su 50 monoposto e 17 biposto addestrativi. Fu un ragionevole compromesso, sebbene le polemiche non mancassero sui 63 velivoli radiati quasi nuovi e impiegati per cannibalizzazione, mentre fallivano i tentativi di piazzarli sul mercato dell’usato. In realtà nei primi rischieramenti addestrativi all’estero gli AMX modificati si comportarono bene, così come durante le missioni di guerra in Bosnia nel 1995, e soprattutto contro le efficienti difese serbe nel 1999, con 22 aerei impiegati complessivamente (10 sempre operativi), integrando per la prima volta anche “bombe intelligenti” israeliane tipo “Opher”. La perdita di altri 4 velivoli nel 2001-2002, convinse poi l’AMI a varare un programma di ammodernamento di mezza vita avviato nel 2005 e denominato ACOL (Adeguamento Capacità Operative e Logistiche), da effettuare su 42 velivoli monoposto e 10 biposto, riconsegnati a partire dal 2007, con avionica aggiornata e l’integrazione di una nuova panoplia di armi a guida laser e GPS, e nuovi pod per designazioni bersagli e ricognizione della Rafael israeliana. Nella nuova configurazione, le perdite da allora subite sono diventate fisiologiche [12], e l’aereo ha semmai partecipato a una impressionante serie di missioni operative: in Libia nel 2011 e 2016, in Iraq contro l’ISIS tra 2016 e 2019; e soprattutto la lunga missione in Afghanistan con 4 velivoli del gruppo “Gatti Neri”, con oltre 3.300 sortite per quasi 10.000 ore di volo, con un alto tasso di prontezza operativa e il plauso delle forze di terra italiane e alleate, supportate con efficacia dai raid del “Ghibli” e senza subire perdite.
A questo punto, la componente d’attacco negli anni ‘90 e 2000, grazie all’introduzione di “Tornado” e AMX (soprattutto dopo il varo dei programmi di aggiornamento e il procurement delle armi “intelligenti”), risultava ormai adeguata e allo stato dell’arte, anche grazie alla contemporanea acquisizione da parte della Marina Militare dei suoi primi jet da combattimento: 18 sofisticati caccia multiruolo VSTOL transonici AV-8B “Harrier-2 Plus” consegnati tra 1991 e 1997 con missili aria/aria “Sidewinder”, ma anche più potenti AIM-120 AMRAAM a guida radar attiva e medio raggio per la difesa aerea, e “Maverick” da attacco al suolo. Grazie all’accoppiata AMRAAM/“Harrier-2” (dotati di un potente radar AN/APG-65), nel 2000 era anzi la Marina a disporre di un assetto da difesa aerea moderno, sebbene dalle caratteristiche ottimali solo in azioni aeronavali.
Col programma per il nuovo caccia europeo arriviamo ai giorni nostri, e la storia dell’Aeronautica Militare Italiana diventa sempre più cronaca.
Nel 1983 Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna avevano lanciato il Future European Fighter Aircraft (FEFA); e nel 1986, dopo un tira-e-molla con Londra e l’uscita di Parigi – che avrebbe sviluppato da sola il “Rafale” –, venivano creati i consorzi Eurofighter per l’aereo ed Eurojet per i motori, realizzando subito un dimostratore preliminare ancora equipaggiato con i reattori del “Tornado”, e fissando in 765 gli aerei bireattori da superiorità aerea, con capacità secondarie d’attacco, da realizzare. A cavallo del 1990 la fine della Guerra Fredda, la crisi economica, i dubbi di una Germania impegnata con la costosa riunificazione, e gravi dissidi su scelte fondamentali come il radar portarono l’EFA-Eurofighter a un passo dalla cancellazione, che già colpiva tanti programmi europei, dalla fregata NFR-90 al semovente SP-70. Rielaborando il progetto attorno a un più versatile aereo di generazione 4.5 con marcate caratteristiche multiruolo e margini di crescita (anche per puntare a quel successo di export mancato al “Tornado” [13]), il programma fu salvato e rilanciato, ma con tempi più lunghi rispetto al 1995 fissato inizialmente per l’entrata in servizio dell’EFA.
Un problema per paesi che disponevano di aerei ancora prestanti come “Tornado-ADV”, “Phantom-2” e “Mirage” F-1: una catastrofe per l’Italia, che dovette spremere i suoi superatissimi F-104S-ASA, sottoposti a un nuovo aggiornamento stavolta mirato soprattutto a ringiovanire cellula e motore: 49 F-104S-ASA (e 15 TF-104G da conversione) tra 1995 e 2000 furono messi in condizioni di restare in volo, sebbene ne andassero perduti ancora una mezza dozzina, prima della definitiva radiazione effettuata nel 2005.
Un intervento limitato qualitativamente e stavolta anche nei numeri, e proprio mentre la guerra nella vicina Iugoslavia chiedeva ai jet dell’AMI (già in difficoltà per l’esodo dei piloti verso le più remunerative compagnie civili) di fare gli straordinari. Con fondi sempre inadeguati, l’idea di acquisire F-16 nuovi o di seconda mano ma recenti, anche per sostituire parte dei problematici AMX, fu scartata. Nel 1994 si decise di ricorrere a un leasing per 24 “Tornado”, nella versione appositamente sviluppata per la RAF Air Defence Variant (ADV). L’idea era che l’impiego di un velivolo simile a quello già in linea avrebbe semplificato e reso più economico il suo impiego: in realtà l’ADV presentava notevoli differenze sia logistiche che operative con gli IDS/ECR italiani, e tra l’altro non poteva integrare il missile “Aspide”, costringendo così l’AMI a impiegarne un altro, lo “Skyflash”, con ulteriori complicazioni. L’ADV si comportò comunque onestamente sino al 2004, quando fu restituito a Londra, salvo un esemplare ceduto per musealizzazione.
Questo fu l’anno della svolta per la difesa aerea italiana, sebbene altre carenze (aerei radar, una congrua flotta di moderne aviocisterne, nuovi missili SAM) siano state superate solo negli ultimi anni. Nel 2004 infatti, accanto alla restituzione dei “Tornado-ADV” si arrivò, dopo 35 anni, alla radiazione dei vetusti F-104S/ASA-M (salvo 4 rimasti per un biennio al Reparto Sperimentale Volo), e all’entrata in servizio dei primi Eurofighter F-2000A “Typhoon”: questi ultimi tuttavia erano non solo calati dai 165 inizialmente previsti per l’Italia a 96 in 3 lotti, più 25 in opzione con la tranche 3B. I 28 apparecchi del primo lotto, 22 dei quali monoposto da combattimento, sarebbero stati consegnati solo entro il 2008, e con uno standard operativo basico. Pertanto, scartato il rinnovo del leasing per gli ADV, che avrebbero dovuto essere aggiornati, si scelse il “Fighting Falcon”: ancora in affitto, per 30 F-16A Block-15 usciti di fabbrica nel 1981-1983 ma aggiornati 10 anni dopo allo standard ADF (Air Defense Fighter), con l’integrazione di nuovi sensori e del missile AIM-120 AMRAAM. Gli aerei, prelevati da un gruppo in riserva assieme a 4 F-16B da conversione operativa, furono ricondizionati dal 2001 e trasferiti all’AMI nel 2003-2004, ove restarono sino al 2012, con perdite sensibili – 6 apparecchi in 9 anni, pari al 18% del totale – ma senza vittime tra i piloti, generalmente soddisfatti di questo popolarissimo, agile e versatile caccia tuttora in produzione dopo 45 anni, sebbene quelli ceduti all’Italia non fossero né di primo, né di secondo pelo.
A ogni modo portarono la difesa aerea italiana fuori dalle secche: e così eccoci ai giorni nostri, con l’AMI che ormai schiera due dei più avanzati caccia del mondo, e dal 2019 partecipa con Gran Bretagna, Giappone e Svezia al programma per un rivoluzionario aereo di 6ª generazione, da immettere in servizio dal 2035.
Il caccia multiruolo F-2000 “Typhoon”, con i suoi 96 esemplari consegnati all’AMI tra 2004 e 2020, in 3 tranche e versioni via via più avanzate, ha completamente rinnovato la difesa dello spazio aereo nazionale, presentando anche interessanti capacità di attacco secondarie integrando alcune delle armi di precisione già impiegate dal “Tornado”, oltre ai nuovi missili aria/aria IRIS-T e “Meteor” appositamente sviluppati, che affiancano le nuove versioni dello AIM-120C. Si tratta di un aereo potente e affidabile, grazie al ritorno alla formula bireattore e all’adozione di estese ridondanze per ovviare ad avarie o danni in combattimento, che hanno migliorato i già elevati record di sicurezza del “Tornado”. A fronte infatti di un impiego sempre più intenso anche in missioni operative oltremare (dalla Libia nel 2011 alle operazioni NATO Air Policing nei Balcani e nel Baltico, divenute molto reali e rischiose dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina un anno fa), solo 2 apparecchi sono andati perduti in ben 19 anni, nel 2017 e lo scorso 13 dicembre. Nel febbraio 2023 hanno poi iniziato a girare voci relative alla possibile acquisizione di una Tranche-4, come già fatto nel 2021 da Germania e Spagna, e che proprio come per la scelta tedesca riguarderebbe 35-40 macchine di tipo più avanzato e in configurazione ECR, per sostituire dal 2026 i 15 “Tornado-ECR” e i 26 F-2000 dell’ormai superata Tranche-1, che verrebbero posti in vendita (o forse destinati all’Ucraina).
Nel frattempo, è partito un nuovo programma, mirato a sostituire anche gli aerei da attacco di 4ª generazione, “Tornado-MLU” e AMX-ACOL, questi ultimi da radiare entro il 2023, e pure questi potenzialmente girabili a Kiev.
L’Italia ha deciso di riferirsi nuovamente a un prodotto dell’americana Lockheed: non meno controverso dello “Spillone” del 1960, ma decisamente all’avanguardia, trattandosi del più sofisticato aviogetto di 5ª generazione oggi sul mercato: l’F-35 “Lighting-2”. Nato da un progetto lanciato 30 anni fa dagli Stati Uniti per un caccia monoreattore leggero e multiruolo, destinato a sostituire gradualmente F-16, F-18 e “Harrier” (Joint Strike Fighter program), l’Italia aderì nel 1998, per poi entrare come partner di 2° livello nel 2002 con un investimento di 1,2 miliardi di euro per creare a Cameri un polo FACO di assemblaggio e manutenzione, oltre alla produzione di 1.200 componenti della cellula. Inizialmente erano previsti 131 aerei: 72 F-35A e 37 F-35B VSTOL per l’AMI, e altri 22 F-35B per la Marina. La crisi economica comportò nel 2012 un drastico taglio del programma, che richiedeva quasi 13 miliardi di euro di spesa entro il 2027; furono confermati 60 F-35A per l’AMI, e 30 più costosi F-36B suddivisi tra Aeronautica e Marina. La produzione è stata avviata nel 2014, col completamento del primo F-35A il 3 dicembre 2015, mentre il primo caccia in configurazione VSTOL è stato consegnato alla Marina nel gennaio 2018. Nel frattempo veniva firmato un primo contratto per la costruzione di 29 aerei destinati all’Olanda (altri 15 sono in fase di negoziazione, al pari dei 34 selezionati dal Belgio), cui è seguito il contratto per l’assemblaggio a Cameri di 24 aerei acquistati dalla Svizzera (più 4 in opzione), mentre trattative sono in corso per alcuni dei lotti destinati a Germania, Finlandia, Polonia, Grecia e Repubblica Ceca. Ad oggi (febbraio 2023) una trentina di velivoli sono stati consegnati o sono prossimi ad esserlo, mentre dal 2021 la portaerei Cavour è la prima unità non anglo-americana a possedere la capacità di operare con gli F-35B [14]. La FOC (Full Operational Capability) sarà raggiunta dall’AMI entro il 2023, con 2 gruppi operativi, mentre sono stati ordinati anche nuovi lotti di missili “Sidewinder” nella fiammante versione AIM-9X Block-2 destinata agli F-35.
L’accoppiata “Typhoon”/F-35 come accennato fornisce alla difesa aerea italiana i velivoli più sofisticati oggi in circolazione, anche se con numeri molto risicati rispetto a quelli della Guerra Fredda (e col nuovo confronto tra NATO e Mosca, potrebbero essere necessari ulteriori lotti). A rendere la situazione migliore rispetto a quella degli anni ’80 e ’90, c’è il rinnovo della rete radar e centri di comando, e l’acquisizione avviata negli ultimi 10 anni di un’adeguata flotta di aerei di sorveglianza radar ed elettronica (integrata da droni a lungo raggio) e di aviocisterne, di recente passate da 4 a 6.
In secondo luogo, dal 2019 – mentre venivano consegnati gli ultimi “Typhoon” e andava a regime la produzione degli F-35 – l’Italia ha aderito al programma a guida britannica, a cui partecipano anche Svezia e Giappone, denominato Future Combat Air System (dal 9 dicembre 2022 Global Combat Air Programme-GCAP): o “Tempest”.
Del nuovo aereo esiste solo un mockup presentato nel 2019, ma per le innovazioni previste si presenta come ancora più rivoluzionario dell’F-35, pure predisposto per integrarle: il “Tempest” sarà infatti non solo un “sistema di sistemi” coordinando sciami di droni, ma potrà volare con o senza equipaggio, sarà caratterizzato da capacità stealth di nuova generazione, ed equipaggiato con armi a energia diretta non cinetica (laser, microonde, elettromagnetiche), e missili ipersonici. Il tutto gestito da avanzati sistemi di intelligenza artificiale e dal casco del pilota che farà da cabina di pilotaggio virtuale.
Il “Tempest” dovrebbe iniziare ad affiancare F-35 e “Typhoon” dal 2035, andando a sostituire questi ultimi entro il 2050.
Nel frattempo, e con questo chiudiamo questa lunga cavalcata nell’evoluzione dei jet da combattimento dell’Aeronautica Militare a 100 anni dalla sua nascita, non va dimenticato che anche la linea da addestramento avanzato è stata aggiornata, al fine di supportare la preparazione dei piloti destinati agli aerei di nuova generazione.
Nei primi anni ’90, mentre l’AMI acquistava come accennato altri 36 MB-339 (compresi i 30 CD con nuova avionica), Aermacchi avviava un inedito programma con il colosso russo Yakovlev per realizzare un addestratore avanzato bireattore, con capacità secondarie come caccia leggero. Nel 2000 la partnership fu sciolta: e mentre i russi proseguivano realizzando il riuscito Yak-130 (che impiega alcune tecnologie sviluppate con l’azienda italiana, come anche l’elegante design suggerisce), Aermacchi – dal 2003 Alenia Aeronautica, nel 2015 parte di Leonardo – sviluppava l’M-346 “Master”, il cui primo volo risale al 2004. Oltre a imporsi nell’export (con 80 esemplari venduti a Israele, Grecia, Polonia, Singapore, Qatar e Turkmenistan, mentre trattative per decine di aerei anche in configurazione combat FA-346 sono in corso con Nigeria, Egitto, Azerbaijan, Austria), il “Master” è entrato in servizio con l’Aeronautica Italiana, che schiera – anche nella International Flight Training School – 22 T-346A, consegnati tra 2010 e 2020 in più lotti. Il velivolo anche nella configurazione addestrativa dispone di piloni alari impiegabili, oltre che per serbatoi supplementari e armi da esercitazione, per missili aria/aria o armamento di caduta; a più riprese è stata avanzata l’ipotesi che l’AMI acquisti un ulteriore lotto di “Master” in versione FA-346, o anche in quella “ibrida” FT-346, per impieghi operativi.
Nel frattempo, dal dicembre 2020 è iniziata la consegna di 45 M-345HET (High Efficiency Trainer), un elegante monogetto leggero, derivato dallo S-211 prodotto negli anni ’80 ma radicalmente riprogettato, destinato a sostituire gli MB-339A impiegati per addestramento intermedio e dalle Frecce Tricolori. Anche per l’ultimo nato in casa Leonardo, la prospettiva è quella dell’export, con trattative in corso con vari paesi, compresa la versione armata.

Note

[1] Gli apparecchi venduti ai paesi arabi combatteranno nella prima guerra contro Israele nel 1948-1949. Sui numeri, sia in questa prima e confusa fase, sia in quella successiva e spettacolare della grande espansione degli anni ’50, i dati sono spesso ballerini e controversi.
[2] Lockheed e Lightning: un binomio di nomi inglesi oggi tornato in auge tra i piloti italiani, grazie come vedremo al sofisticatissimo Lockheed F-35A/B “Lightning-2”.
[3] Il primo volo del Campini-Caproni CC2, spinto non propriamente da un motore a reazione ma da un “motoreattore”, col compressore ancora azionato da un motore a pistoni e non da una turbina, fu effettuato il 28 agosto 1940, con ai comandi il colonnello Mario De Bernardi, asso della Grande Guerra.
[4] Nel 1973-1974 anche per missili sup/aria spalleggiabili SA-7 sovietici. Secondo alcune fonti, alcuni G-91 danneggiati sarebbero stati recuperati e impiegati per breve tempo dall’Aeronautica angolana.
[5] Che comunque non avrebbero potuto impiegare bombe atomiche americane.
[6] Nel 1983 furono acquistati dalla Germania 6 TF-104G di seconda mano.
[7] Stelio Frati (1919-2010) negli anni ’60 fu il progettista dell’altrettanto fortunato aereo da addestramento basico SF-260, prodotto sino al 2017.
[8] Anche lo S-211 ottenne qualche successo, con 58 esemplari venduti a Filippine, Singapore, Haiti.
[9] Sebbene contraddicendo le posizioni iniziali, Londra decidesse di svilupparne anche una versione da difesa aerea, poi ceduta in leasing in 24 esemplari anche all’AMI, dal 1995 al 2004.
[10] Non è confermato l’abbattimento di un P-38L in Albania, durante una missione di ricognizione nel 1951. Gli aerei perduti in Congo nel 1961 furono vittime di incidenti, mentre alcuni elicotteri impegnati nella missione UNIFIL in Libano furono distrutti nei primi anni ’80.
[11] Tra novembre 1990 e gennaio 1996, senza contare le avarie minori. A titolo di paragone nei primi 5 anni di servizio erano andati perduti solo 2 “Tornado”, entrambi nel 1984.
[12] Sebbene non sia stata del tutto cancellata la nomea di velivolo inaffidabile, l’AMX (non dimentichiamolo, un monoreattore) ha subito un tasso di perdite paragonabile al “Tornado”, e comunque nettamente inferiore ai ratei dei jet precedenti.
[13] Come accennato il bireattore Panavia è stato esportato solo in Arabia Saudita, con 120 esemplari. Il “Typhoon” invece non solo è stato acquistato anch’esso dai sauditi, ma anche da Austria, Oman, Qatar e Kuwait, in quest’ultimo caso per 28 apparecchi realizzati in Italia, per un totale di 151 macchine. Ad oggi (febbraio 2023) sono in corso promettenti trattative con Egitto, Turchia e per ulteriori ordini sauditi.
[14] Anche la portaeromobili anfibia LHD Trieste, prossima alla consegna, è predisposta per impiegare gli F-35B, anche dell’AMI.