GIUGNO 1918: L’ATTACCO AUSTRIACO FERMATO SUL PIAVE

di Alessandro Frigerio -

PiaveLa battaglia del Piave è il nuovo titolo che si aggiunge alla collana “Grande Guerra” in formato e-book lanciata da Storia in Network. Come nelle uscite precedenti, lo spirito dell’iniziativa è invariato: riportare all’attenzione dei lettori, in occasione del centenario della Prima guerra mondiale, volumi di grande pregio e ingiustamente dimenticati dai grandi circuiti editoriali.
Nota anche come battaglia del Solstizio (così la chiamò D’Annunzio) o seconda battaglia del Piave (per non confonderla con quella del novembre 1917, che assestò il fronte dopo lo sfondamento austriaco a Caporetto), questo scontro rappresentò l’ultima offensiva dell’esercito austro-ungarico prima del definitivo successo italiano nell’ottobre-novembre 1918. Tra il 15 e il 22 giugno lo stato maggiore austriaco, pur consapevole delle difficoltà interne che stava vivendo l’impero, lanciò un’offensiva con l’obiettivo primario di varcare il fiume Piave e sfociare nella Pianura padana al fine di costringere il nemico alla resa. Solo così gli imperi centrali avrebbero potuto rivolgere il grosso delle loro forze sul fronte francese, dove intanto si faceva sentire, tra le file dell’Intesa, il peso delle truppe americane.
All’analisi delle operazioni di intelligence e a quelle militari che le seguirono, agli errori e alla sottovalutazione della capacità di reazione dell’esercito italiano e alle vicende drammatiche non solo nella zona del Piave ma anche in quella del Montello e del Monte Grappa, il colonnello Amelio Dupont dedicò nel 1928 questo saggio che ancora oggi merita un posto di rilievo nella memorialistica sulle grandi battaglie della Prima guerra mondiale. L’autore, infatti, riesce a ridurre le complesse vicende di quei giorni a una sintesi estremamente efficace, capace di coglierne il livello squisitamente strategico e tattico, e cioè, ad esempio, l’importanza del ruolo della logistica svolta nell’opera di contenimento messa in atto dall’esercito italiano o l’apporto dell’arma aerea (un’interessante appendice è dedicata al confronto nei cieli del Montello e del Piave, ai velivoli in campo e al loro impiego nelle operazioni di ricognizione, caccia e bombardamento). Particolarmente efficaci e drammatiche sono inoltre  le pagine che descrivono la rotta delle truppe austro-ungariche, costrette, dopo i successi iniziali, a ritirarsi sull’altra sponda del Piave su barconi sovraccarichi e sotto il fuoco del contrattacco italiano.
Accanto al quadro generale, Dupont dedicata la giusta attenzione anche alle vicende dei singoli reggimenti e ai sacrifici di tanti ragazzi gettati nella mischia nemmeno ventenni: al lettore di oggi potranno apparire ridondanti i richiami alla retorica delle medaglie d’oro, allo spirito di corpo e a tutti gli episodi di eroismo individuale e di dedizione citati dall’autore e a cui la società del benessere ci ha resi inadeguati. Eppure in quei frangenti l’esercito italiano riuscì a mettere in campo, oltre ai mezzi bellici e a una oculata gestione di uomini e riserve, anche un’insperata concordia di obiettivi tra fronte interno e prima linea. Concordia che fece la differenza rispetto all’avversario. «Dite ai borghesi che tegnin dur lori che nualter non dem manc un pass indarè!», così le parole di un semplice fante, a metà tra leggenda e realtà.  La battaglia del Piave fu vinta anche così.
Mai più ristampato, La battaglia del Piave viene pubblicato per la prima volta in formato e-book. Il volume è disponibile su Amazon e può essere acquistato cliccando sull’immagine di copertina qui sopra.
Di seguito offriamo un estratto in cui Dupont illustra le modalità di preparazione dell’attacco austriaco e la situazione tattico-strategica del nostro esercito nell’imminenza della battaglia.

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Scritta sul muro di un edificio a Sant'Andrea di Barbarana di San Biagio di Callalta nel giugno 1918

Scritta sul muro di un edificio a Sant’Andrea di Barbarana, frazione di San Biagio di Callalta, nel giugno 1918

Un insanabile dissidio di vedute teneva divisi i due massimi Capi dell’esercito nemico. Il vecchio maresciallo von Conrad, al quale conferiva autorevolezza il passato quasi interamente speso nell’appassionato studio della guerra contro l’Italia, era caldo sostenitore del disegno tanto lungamente accarezzato di un attacco in forze dai monti.
Il successo raggiunto con la spallata dell’anno precedente, lo infervorava nella sua concezione. L’offensiva del 1916, la quale, anche rilevando qualche nostra momentanea debolezza morale ed un maggior numero di nostre lacune tecniche, aveva però messo in chiara luce meridiana lo strenuo valore di moltissimi dei nostri reparti non appena essi avevano potuto superare lo sgomento causato dall’imprevista brutale potenza dell’attacco; il successo del 1916 aveva lasciato nel cuore del nostro tenace avversario solo l’incoraggiante visione della precarietà della nostra situazione tattica, che egli stesso aveva raffigurato, non senza ragione, a quella di «un naufrago aggrappato con le mani ad una tavola di salvezza, al quale sarebbe bastato mozzare le dita con un colpo d’ascia per farlo precipitare nei flutti».
A preparare quel tal colpo d’ascia erano intese tutte le facoltà del suo intelletto e del suo spirito. La subitanea e gagliarda ripresa dei nostri nello stesso 1916 e la ferrea resistenza opposta sulle medesime posizioni, divenute tanto più precarie, nell’autunno del 1917, quando si sarebbe potuto ritenere bastevole assai meno di un colpo d’ascia per far allentare la nostra stretta e il duplice sovrumano prodigio del Grappa, sul quale dapprima si inchiodò l’avanzata nemica e poi si strappò al nemico la prima augurale vittoria, tutto questo non aveva detto nulla al vecchio testardo.
Dall’altra parte il maresciallo Boroevic, forte dell’immenso prestigio che gli derivava dalla condotta innegabilmente sagace dei precedenti anni di guerra sul Carso, durante i quali aveva potuto salvare all’Impero le vie di Trieste, vedeva nello sfondamento della linea del Piave l’azione capace di più pronta e più redditizia soluzione e si adoperava a far trionfare il suo modo di vedere.
Ognuno dei due contendenti aveva delle ottime ragioni in suo favore: Conrad vedeva l’esercito italiano tagliato dalle sue linee di ritirata e costretto a rifugiarsi precipitosamente dietro qualche linea fluviale molto arretrata: l’Adige… il Mincio; Bororevic vedeva il nemico facilmente rotto ed inseguito dalle sue truppe come già nell’autunno precedente: Venezia subito occupata e quindi la prudente marina imperiale, sazia di inutilmente covare la gloriuzza di Lissa, finalmente padrona senza contrasto di tutto l’alto Adriatico…
Fra i due contendenti, entrambi irriducibili, il Comando Supremo non seppe prendere, come avrebbe dovuto, posizione di preminenza. Dapprima parve propendere verso il disegno del Conrad, ventilando un’azione principale dai monti sussidiata da un’azione concorrente nel piano, poi scelse la via di mezzo di un attacco a cavaliere del Brenta contemporaneo e concorrente ad un attacco sul Basso Piave; ed a quest’ultimo aggiunse una azione, anch’essa risolutiva, contro il Montello, che rimase affidata all’Armata dell’Arciduca Giuseppe (6a).
Così, in luogo di una sola massa potente da lanciare contro il settore nemico nel quale erano da attendersi minori difficoltà e più redditizie conseguenze, l’urto avvenne in effetto su una fronte che misurava nel complesso ben 150 chilometri.
Vero è che, siccome abbiamo ampiamente documentato più avanti, all’errore strategico, il nemico, al quale era stranamente sfuggito il risveglio della nostra virtù militare, poté essere indotto dal suo fallace apprezzamento sulla scarsezza delle nostre forze e dalla conseguente illusione di rendere impossibile, attaccando su di una fronte cosi ampia, ogni tempestiva manovra delle nostre riserve che egli sapeva di tanto inferiori al bisogno.
E forse, ancor più che l’assurdo del calcolo puramente matematico, poté l’orgogliosa disposizione degli spiriti, nutrice di illimitata fiducia, si che nell’insieme può dirsi che il piano nemico abbia obbedito a determinanti di ordine passionale, nelle quali, in fondo, erano concordi tutte le molte nazionalità dell’Impero multilingue.
Si ebbero così tre azioni – tutte tre ugualmente principali – ciascuna delle quali ottenne in maggiore o minore misura dei successi parziali, ma nessuna delle tre poté conseguire il successo capace di imprimere una fisionomia particolare e di determinare l’ulteriore corso della battaglia – dando motivo al maresciallo von Conrad, il quale aveva forse per sé il più delle ragioni, ed ai suoi zelatori, di lamentare poi che si fosse così travisato il primitivo concetto integrale, e fornendo al maresciallo Boroevic, mentre ancora durava la battaglia, l’occasione per riaffermare la sua vecchia convinzione che la fronte del Tirolo non poteva essere disimpegnata che dal Piave e che non altro che dal Piave si sarebbe dovuto cercare la soluzione al problema strategico inerente a quella situazione.

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La nostra situazione strategica non era meno delicata di quanto fosse difficile la situazione tattica.
La spiccata curvatura ad arco della nostra linea la rendeva tutta precaria: qualunque delle due ali avesse disgraziatamente ceduto, risultavano fatalmente compromessi l’altra ala ed il centro; se era il centro a cedere, le due ali sarebbero rimaste senza appoggio.
Ove si pensi al tempo che sarebbe stato necessario per poter far arretrare truppe, artiglierie e munizionamento dalle posizioni più malagevoli – Grappa e Altipiani – si vede subito come il cedimento avrebbe potuto facilmente cambiarsi in catastrofe.
Di fronte a questa situazione che anche oggi, esaminata a tanta distanza di tempo e con così diversa tranquillità d’animo, non può non apparire tale da far tremare le vene ed i polsi, al nostro Comando Supremo non rimaneva che serenamente attendere l’immancabile buon frutto della sagace, previggente, umana opera di restaurazione condotta per tanti mesi e con tanta passione sugli armamenti e negli animi e ripromettersi che ciascuno compiesse lo sforzo massimo del quale era capace.
Il Comando Supremo sancì come direttiva fondamentale quella di resistere ad oltranza sulle posizioni occupate e di applicare in ogni modo ed a qualunque costo quella «volontà aggressiva» tanto tenacemente predicata, in guisa da contenere la eventuale irruzione nemica nel minimo spazio, logorare l’avversario con controffensive locali immediate, in attesa delle più potenti azioni che agli alti comandi sarebbe stato possibile di organizzare.
Mentre ricordava alle armate degli Altipiani e del Grappa la vitale necessità che fossero conservate integralmente le loro linee ed ammetteva che potesse invece concedersi una maggiore elasticità nella difesa della linea del Piave, il Comando Supremo vivamente insisteva perché si mantenesse il più a lungo possibile un giudizioso scaglionamento delle forze in profondità, tale da assicurare il prolungarsi della resistenza fino al momento di consentire ad esso d’impiegare le riserve non sotto la pressione degli avvenimenti, ma a situazione chiarita.
Le riserve erano state così dislocate:
Delle 9 divisioni presso le Armate, quattro soltanto si trovavano dietro la fronte del previsto attacco: 52a, 24a, 48a, 53a, rispettivamente dietro le Armate 6a (altipiano d’Asiago), 4a (Grappa), 8a (Montello), 3a (Piave, a sud di Spresiano); le altre cinque (XIII C. A. e Divisioni 21a, 22a, 54a) avrebbero dovuto essere trasportate dove fosse richiesto con mezzi celeri (quattro giorni), o per ferrovia (sei giorni).
Le 10 divisioni rimanenti si trovavano tutte concentrate dietro la fronte da difendere; con 8 di esse il Comando Supremo aveva costituito un prudenziale schieramento strategico sulla fronte Cittadella, Castelfranco, Trevignano, campo trincerato di Treviso, Meolo, Sile (Corpi d’armata XXII, XXX, XXVI, XXV); alquanto più indietro, fra Mestrino e Barbarano, erano le due divisioni del Corpo d’armata d’assalto, pronte per essere trasportate nella giornata, con mezzi celeri, nel settore d’impiego.
Ma deve essere soggiunto, per la verità, storica, che delle due divisioni del Corpo d’armata d’assalto, la 1a, sebbene tuttora in corso di costituzione, poteva essere impiegata, e lo fu, e fece ottimamente; ma quella cecoslovacca non era pronta e su di essa perciò non si poteva contare; di più, le Divisioni 21a e 22a, tuttora dislocate nel settore Giudicarie, e la 54a, rimasta in Val Lagarina, avrebbero avuto bisogno di un breve periodo di riordinamento prima di essere impiegate, quindi non potevano considerarsi come unità di prontissima utilizzazione.
La riserva veramente impiegabile non era pertanto di più che 15 divisioni.
Condizione necessaria per un efficace impiego delle riserve è sempre la facilità di poterle rapidamente spostare.
Ora, il trasporto con mezzi celeri costituiva un altro problema gravissimo. Durante la ritirata dall’Isonzo era rimasta in mano del nemico una quantità ingente di autocarri; i rifornimenti dal Paese, sebbene notevoli, erano tuttavia insufficienti al bisogno, anche perché un forte quantitativo di autoveicoli doveva andare oltre frontiera in cambio di altre prestazioni degli Alleati.
La nostra disponibilità di questi mezzi era quindi piuttosto scarsa rispetto alle necessità. Bisognava con gli autocarri provvedere ai giganteschi rifornimenti necessari alle truppe in munizioni, vettovaglie, materiali del genio, sgombro dei feriti, ecc. ecc.
Esaurite, dopo i primi giorni della battaglia, le colossali provviste di munizioni che erano state accumulate in precedenza (900.000 colpi circa dei vari calibri di artiglieria) si dovette far affluire direttamente i rifornimenti dalle stazioni ferroviarie alle truppe.
Un solo autoparco che serviva le Armate 3a e 8a compì in dieci giorni 1.400.000 km di percorsi, trasportando 72.000 tonnellate di rifornimenti e sgombrando 68.000 feriti.
Bastano queste cifre a dare una chiara idea della complessità del problema sul quale gravavano contemporaneamente tante necessità tutte perentorie e spesso contraddicentesi.
A quali dare la preferenza? Al trasporto degli uomini ed al rapido traino delle artiglierie, o al trasporto delle munizioni, al rifornimento delle vettovaglie, del materiale di difesa, o allo sgombro dei feriti?
Il Comando Supremo, con ogni sforzo, riuscì a disporre di una propria riserva di 6000 autocarri, piccolissima cosa in confronto alla grandiosità dei bisogni.
Di questa riserva, 1800 veicoli furono destinati esclusivamente al trasporto delle truppe ed al traino delle artiglierie leggere, e su di essi, nei pochi giorni della riscossa, gravò il trasporto di 108.000 persone!
I conducenti di qualche sezione dovettero rimanere al volante quasi ininterrottamente per 52 ore, tanto che, per l’estrema spossatezza di taluno fra essi, si dovette anche deplorare qualche disgrazia, dolorosa ma non evitabile conseguenza della difficilissima situazione.
Malgrado queste difficoltà il giuoco delle riserve fu talmente agile e pronto che, traendo gli insegnamenti dalla battaglia, lo Stato Maggiore austro-ungarico. scrisse fra l’altro:
«Il trasporto delle riserve italiane fu eseguito con una celerità ammirevole valendosi delle ferrovie e degli autocarri, sfruttando al massimo la fitta rete di comunicazioni. Ciò che prova che nel futuro noi dovremo aspettarci non solo un rapido concentramento di tutte le riserve disponibili nel settore che il nemico crederà più minacciato dall’attacco, ma dovremo attenderci pure – durante una nostra difesa – l’apparire improvviso di importanti forze di fanteria in settori rimasti fino allora relativamente tranquilli».
Dopo lo strenuo valore delle truppe, questo sapiente e tempestivo impiego delle riserve fu uno dei maggiori coefficienti della sudata vittoria.