GAETANO BRESCI E L’INAFFERRABILE “BIONDINO” (parte 2)

di Roberto Poggi -

L’assassino di re Umberto I si assunse tutte le responsabilità del gesto omicida, negando l’esistenza di un complotto anarchico, di cui peraltro gli inquirenti cercarono invano le tracce in Italia e negli Stati Uniti.  Bresci morì suicida meno di un anno dopo l’attentato, in circostanze poco chiare. 

Re Umberto I

Re Umberto I

Il re era giunto a Monza sabato 21 luglio 1900, dopo aver salutato a Napoli il contingente in partenza per la Cina con la missione di contribuire alla repressione della rivolta dei Boxer. Ad imporre la scelta della villa reale di Monza come abituale luogo di villeggiatura estiva erano state le relazioni sentimentali del re. In una villa confinante con quella reale risiedeva infatti l’amante di Umberto, la duchessa Eugenia Litta Visconti Arese. Si frequentavano fin da prima che Umberto salisse al trono, né il matrimonio con la cugina Margherita, né le altre numerose distrazioni sentimentali che il re si era concesso avevano intaccato la loro relazione.
A Roma come a Monza il re faceva visita ogni giorno alla sua amante. Quel 29 luglio non fece eccezione. In mattinata Umberto si trattenne presso la duchessa Litta circa una mezz’ora, promettendole di tornare a trovarla dopo aver assistito al concorso ginnico in programma per quella sera. La decisione di accettare l’invito dell’associazione “Forti e Liberi” era stata resa nota la mattina precedente, precisando che il re sarebbe giunto al campo sportivo di via Matteo da Campione intorno alle 21,30 per assistere alla premiazione. La regina Margherita aveva preferito non accompagnare il consorte.
Quel giorno ricorreva anche la festa di San Giacomo, patrono dei cappellai, Monza era gremita di visitatori giunti da tutta la Lombardia, le osterie avevano ricevuto uno speciale permesso per rimanere aperte sino a tardi. In mattinata un corteo formato dai cinquecento atleti delle squadre che partecipavano al concorso ginnico attraversò le vie della città, accompagnato da bande musicali.
Alle 11,30 il re assistette alla messa nella cappella reale in compagnia della regina, dopo pranzo si ritirò per riposarsi sino alle cinque, dedicò la parte restante del pomeriggio a leggere nel suo studio i dispacci che erano giunti nelle ultime ore, riguardanti l’aggravarsi della situazione dei diplomatici europei asserragliati nel quartiere delle Legazioni a Pechino. Umberto cenò in compagnia della regina, poi si recò al campo sportivo, dove giunse, come previsto, alle 21,30.

Secondo le testimonianze raccolte dal “Corriere della Sera”, Bresci alle 21,15 si trovava da solo al Caffé Romano di via Carlo Alberto, pochi minuti più tardi era in prossimità del monumento a Vittorio Emanuele II. E’ quindi verosimile che entrò nel campo sportivo poco prima o poco dopo l’arrivo del re. Non ebbe difficoltà a mescolarsi alla folla, prendendo posto in terza fila sulla sinistra del palco reale.
Il concorso si concluse alle 22 con la vittoria della squadra monzese “Forti e Liberi”, il secondo ed il terzo posto spettarono rispettivamente ai Pompieri di Milano ed ai ginnasti di Trento. A questi ultimi Umberto durante la premiazione riservò una frase di circostanza sulla loro italianità che suscitò l’applauso del pubblico e grida inneggianti all’unità d’Italia ed a Trento italiana. Consegnate le coppe, il re dopo aver scambiato qualche battuta con il sindaco Corbetta e con il deputato Pennati scese i gradini della tribuna stringendo tutte le mani che gli venivano porte, poi montò in carrozza in compagnia dei generali Avogadro Di Quinto e Ponzio Vaglia. Il cielo era coperto di nubi, l’afa opprimente.
Alle 22,30 la carrozza reale si era appena messa in movimento, il re ancora si sporgeva per rispondere ai saluti della folla quando Bresci a circa tre metri di distanza estrasse la rivoltella, distese il braccio e fece fuoco almeno tre volte in rapida successione, colpendo il suo bersaglio. Un proiettile raggiunse il cuore, un altro la clavicola sinistra, un terzo si conficcò nello sterno. Umberto si accasciò tra le braccia dei suoi generali, riuscì a pronunciare qualche parola per rassicurarli sulle sue condizioni, poi perse conoscenza. I cavalli della carrozza si impennarono e partirono al galoppo. Quando giunse alla villa reale il re aveva gli occhi aperti, ma non dava più nessun segno di vita. I medici accorsi fecero allontanare la regina, che si era gettata sul corpo del marito macchiando di sangue il suo abito bianco, poi non poterono fare altro che constatare la morte del sovrano. Nella stanza da letto reale, adornata di fiori e di ceri, fu allestita la camera ardente.

attentatoLa folla di ginnasti e spettatori accalcata attorno alla carrozza reale impiegò qualche istante prima di comprendere quanto era accaduto. Il fragore dei proiettili fu scambiato per quello prodotto da qualche castagnola, poi gli occhi di molti videro il re crollare ed un uomo armato a pochi passi da lui e non ebbero più dubbi. Alcuni, tra cui l’atleta Piovano, il cocchiere Lupi, il maresciallo dei carabinieri Salvadori, si avventarono contro Bresci che subito tentò di protestare la propria innocenza, poi non poté fare altro che incassare i pugni e le bastonate che gli piovevano addosso da ogni parte. Soltanto l’intervento dei carabinieri lo sottrasse al linciaggio della folla. Per trasferirlo rapidamente alla più vicina caserma fu requisita la carrozza di un passante. Un corrispondente del “Corriere della Sera” poté vedere il regicida poche ore dopo il suo arresto. Aveva gli abiti a brandelli, il volto tumefatto, il corpo coperto di graffi ed ecchimosi, le mani sporche di sangue, in cella se ne stava a torso nudo avvolto in una coperta, ostentando uno sguardo impassibile, quasi compiaciuto. Riuscì persino a prendere sonno.
Mentre l’attentatore veniva immobilizzato e la vettura reale partiva al galoppo, il sindaco Corbetta, sopraffatto dalle emozioni, svenne, ruzzolando sulle scale della tribuna. Si scatenò il panico, sulla folla che abbandonava disordinatamente il campo sportivo si abbatterono le prime gocce di un violentissimo temporale. Nella calca un ragazzino raccolse da terra la rivoltella di Bresci e la diede ad un pompiere che a sua volta la consegnò ai carabinieri.
La mattina seguente sotto il palco reale, dalla parte opposta a quella in cui il re era stato assassinato fu rinvenuta una rivoltella Flobert di piccolo calibro, completamente carica. Tale ritrovamento alimentò l’ipotesi della presenza di un secondo attentatore, finché non si appurò che la rivoltella apparteneva ad un ciclista di Monza che l’aveva smarrita nella confusione.

Non si può tuttavia escludere con certezza l’ipotesi che Bresci al campo sportivo non fosse solo. Come dimostra il registro della locanda del Mercato, Granotti lasciò Monza la mattina del 30 luglio e non prima. Secondo la testimonianza del gestore della locanda, Paolo Brigada, e di sua moglie, Giuseppa Portalupi, la sera del 29 luglio, circa mezz’ora dopo il regicidio, Granotti, che era uscito a metà pomeriggio, rientrò in stato di grande agitazione, bevve qualche boccale di birra senza fare commenti su quanto era appena accaduto, poi si ritirò nella sua camera. La mattina del giorno seguente, intorno alle otto ordinò un caffè ed un quarto di vino rosso, pagò il conto e se ne andò, dicendo di essere diretto a Milano.
Non è impossibile che in circa mezz’ora Granotti abbia coperto, magari correndo, la distanza tra il campo sportivo e la locanda in cui alloggiava. Pertanto la sua presenza sul luogo del delitto rimane una eventualità da considerare.
Dal canto suo Bresci fin dal primo interrogatorio dichiarò di aver agito da solo e di non aver confidato a nessuno, né in Italia, né negli Stati Uniti, il suo proposito omicida. Inizialmente finse di non ricordare il cognome di quel Luigi che gli aveva inviato un telegramma mentre si trovava a Bologna in compagnia di Teresa Brugnoli, poi nell’interrogatorio svoltosi nel carcere di Milano il 10 agosto si decise finalmente a dare al suo conoscente un cognome: Granotti, precisando però di non aver mai fatto parola con lui della sua idea di assassinare il re, ritenendolo un uomo inaffidabile ed incapace di simili azioni. Negò di averlo mai incontrato a Bologna, ma confermò di essere stato in sua compagnia prima a Milano e poi a Monza. Disse di non sapere dove Granotti avesse dormito la notte di venerdì 27 luglio e di averlo visto per l’ultima volta la mattina di sabato in gelateria.
Né le dichiarazioni di Bresci, né la sua professione di fede anarchico individualista trattennero gli inquirenti dall’avviare indagini alla ricerca di complici. Un taccuino rilegato in pelle verde trovatogli addosso al momento dell’arresto fornì un elenco di indirizzi e di nomi, tra cui comparivano anche quelli di Emma Quazza ed Antonio Laner. Una minuziosa perquisizione, condotta la mattina del 30 luglio, della stanza al terzo piano di via Cairoli presa in affitto da Angela Cambiaghi portò al sequestro, insieme ad alcuni oggetti di scarsa rilevanza, come alcuni capi di biancheria, un paio di scarpe gialle e qualche fotografia, di cinque cartucce e di una lettera di Nicola Quintavalle del 22 giugno.

Gaetano Bresci

Gaetano Bresci

Alcune frasi poco chiare di quella lettera, dovute probabilmente alla scarsa dimestichezza del barbiere toscano con la penna, destarono negli inquirenti il sospetto dell’esistenza di una qualche rete di complicità. La sera del 30 luglio i carabinieri di Capoliveri procedettero all’arresto di Quintavalle ed alla perquisizione della sua abitazione, da cui emersero ulteriori prove della sua fede anarchica e della sua amicizia con Bresci. Trasferito a Milano, Quintavalle fu interrogato per la prima volta il 3 agosto, ostentò un atteggiamento freddo e tranquillo, dichiarò di essere del tutto all’oscuro delle intenzioni omicide di Bresci, che frequentava a Paterson la sua bottega, e negò di essere un anarchico militante. Soprattutto su questo ultimo punto gli inquirenti non gli credettero, per tanto lo trattennero in carcere per oltre un anno, senza trovare alcun elemento che provasse la sua complicità nel regicidio. Assolto nell’agosto del 1901 per insufficienza di prove, Quintavalle fu condannato nell’ottobre dello stesso anno per eccitamento all’odio di classe. Scontò per questo reato un anno di reclusione e gli fu poi negato il rilascio del passaporto per rientrare negli Stati Uniti. Soltanto nel 1942 il suo nome fu radiato dallo schedario dei sovversivi della prefettura di Livorno.
Anche su Emma Quazza si concentrarono senza successo le indagini. Arrestata insieme allo zio dai carabinieri di Mosso Santa Maria, nei pressi di Biella, non fece mistero delle sue simpatie anarchiche, confermate dai giornali e dai libri trovati nella sua abitazione, raccontò di aver conosciuto Bresci, Quintavalle e Laner durante la traversata a bordo del “La Gascogne”, di aver trascorso con loro un breve soggiorno a Parigi e di non aver mai affrontato con nessuno di loro discussioni riguardanti il regicidio. Respinse indignata l’insinuazione di essere stata l’amante del regicida. Gli inquirenti non stentarono a crederle, il 18 agosto 1900 Emma Quazza fu scarcerata, ed un anno più tardi fu definitivamente assolta per insufficienza di prove. Nell’autunno del 1901 poté ripartire per Paterson insieme alla madre. Nel 1909 rientrò in Italia e nel 1915 si sposò con un imprenditore tessile, abbandonando ogni interesse per la politica. Nel 1924 il suo nome fu radiata dallo schedario dei sovversivi della prefettura di Novara.

Altrettanto infruttuose furono le indagini condotte sul panettiere Antonio Laner. Arrestato il 31 luglio ad Ivrea, fu trasferito a Torino e qui interrogato. Disse di essere rientrato in Italia per rivedere i suoi parenti, che vivevano a Trento, ed il suo ex datore di lavoro, Valentino Aprato, che lo aveva ospitato ad Ivrea. Presso il panificio di Aprato aveva svolto il suo apprendistato a Torino e poi aveva lavorato per lui anche a New York. Laner affermò di essere legato da profonda amicizia e riconoscenza al suo ex principale, ma negò di aver intenzione di sposarne la sorella, Maria. Con la stessa fermezza respinse anche la nomea di anarchico che gli derivava dall’aver frequentato in gioventù a Torino alcuni amici anarchici. Confermò di conoscere Quintavalle che gli aveva presentato Bresci, aggiunse che entrambi, l’uno schierato su posizioni individualiste e l’altro collettiviste, non nascondevano le loro simpatie anarchiche, ma in sua presenza non avevano mai fatto affermazioni sediziose o inneggianti al regicidio. Spiegò la corrispondenza intrattenuta con Bresci dopo la loro separazione a Modane facendo riferimento al prestito di una maglia di lana. In un messaggio andato perduto, il pratese si era offerto di spedirgli la maglia di lana ricevuta in prestito, ma Laner gli aveva chiesto di non prendersi tanto disturbo, dal momento che avrebbe potuto restituirgliela in occasione del loro viaggio di ritorno negli Stati Uniti.
Una perquisizione condotta nell’abitazione di Laner a New York aggravò la sua posizione. In un baule furono ritrovate una rivoltella ed una lettera di Valentino Aprato che sembrava celare un codice. Tale debole sospetto fu sufficiente a trattenerlo in carcere per un anno. L’Unione Panettieri Italiani di New York si mobilitò per la sua liberazione, scrivendo al Tribunale di Milano per testimoniare al buona condotta di Laner e la sua estraneità agli ambienti anarchici. In assenza di ulteriori indizi, nell’agosto del 1901 Laner fu prosciolto e poté rientrare negli Stati Uniti, dove prese parte ad alcune conferenze, organizzate dai circoli anarchici di Paterson, West Hoboken e New York, per raccontare la sua vicenda giudiziaria. Nel 1936 fu radiato dallo schedario politico della provincia di Torino.

Gaetano Bresci spara a Umberto I, di Flavio Costantini, 1974

Gaetano Bresci spara a Umberto I, di Flavio Costantini, 1974

Neppure i familiari di Bresci furono risparmiati dall’ombra del sospetto di complicità. In qualità di ufficiale dell’esercito Angelo non ebbe difficoltà ad allontanare da sé ogni sospetto, si limitò a rilasciare ai giornali alcune affrante interviste in cui ribadiva la sua sincera fede monarchica e descriveva il fratello regicida come un ragazzo intelligente, di animo mite, traviato dalle cattive compagnie e dalla predicazione anarchica. La dignità con cui affrontò il disonore ispirò in larghi settori dell’opinione pubblica pietosa solidarietà e rispetto. Con regio decreto Angelo fu autorizzato ad adottare il cognome della madre, Godi, e poté rimanere nell’esercito, garantendo ai suoi due figli un avvenire sereno.
L’abitazione dei Bresci a Coiano fu perquisita il 31 luglio, i carabinieri trovarono tre assicelle che presentavano alcuni fori di proiettili e quattordici bossoli. Le prove materiali che il regicida si era esercitato al tiro durante il soggiorno a Coiano bastarono a determinare l’arresto di suo fratello Lorenzo, di sua sorella Teresa e del marito, Augusto Marocci, che abitavano sotto lo stesso tetto. Fin dai primi interrogatori risultò evidente l’estraneità ad ogni complicità di Teresa e di suo marito che furono scarcerati dopo qualche settimana e poterono riabbracciare le loro figlie. La posizione di Lorenzo invece si aggravò a causa dell’accusa mossagli da un compaesano, Tito Benelli, che dichiarò di averlo udito, l’8 giugno 1900, affermare che un modo sicuro per racimolare qualche soldo sarebbe stato quello di “entrare nella lega per ammazzare re Umberto”. Lorenzo protestò la propria innocenza, ma prima di essere creduto dagli inquirenti dovette trascorrere in carcere circa diciotto mesi, che minarono il suo equilibrio mentale. Tornato in libertà si chiuse in sé stesso, rifiutandosi di parlare con chiunque non fosse un animale da cortile. A Coiano si guadagnò ben presto il soprannome di “Piripio”, il verso che era solito fare per richiamare i suoi polli. Nel 1904, oppresso dalla miseria e dalle sue fobie tentò il suicidio, ma non vi riuscì.

Oltre ad arrestare ed interrogare tutti coloro che avevano avuto contatti con Bresci nelle ultime settimane o comparivano sul suo taccuino, le forze dell’ordine non rinunciarono all’occasione per infliggere un duro colpo a tutte le forze antimonarchiche. Con l’accusa di apologia di regicidio nell’arco di qualche mese furono deferite all’autorità giudiziaria e condannate oltre duemila persone in tutta Italia, anarchici, socialisti, repubblicani, ubriachi e squilibrati, operai, contadini, artigiani, camerieri, macellai, studenti, commercianti, venditori ambulanti, soldati e marinai, medici, farmacisti e persino sacerdoti, vittime di meschine delazioni o della loro sciocca imprudenza.
Già all’indomani del 29 luglio la ricerca di complici varcò i confini italiani e si estese oltre oceano. In un primo momento le autorità americane si mostrarono riluttanti a collaborare con la giustizia italiana, nel timore di accreditare una immagine degli Stati Uniti come covo dei terroristi provenienti da ogni parte della vecchia Europa. Addirittura il capo della polizia di New York affermò pubblicamente di non aver mai sentito parlare dell’esistenza di gruppi anarchici attivi sul suolo americano. Appena quattro giorni dopo l’assassinio di Umberto I, il procuratore generale dello stato del New Jersey fece sapere ai magistrati italiani di aver accertato l’inesistenza di qualunque complotto.
Irritati dalla sbrigativa superficialità americana gli inquirenti italiani sollecitarono l’ambasciatore a Washington, il barone Saverio Fava, affinché raccogliesse dei pareri legali circa la possibilità di ottenere dagli Stati Uniti l’estradizione di eventuali complici di Bresci. L’avvocato Allen Gaves di Denver e lo studio legale Condert Brothers di New York chiarirono che se fossero state raccolte prove schiaccianti della complicità di cittadini residenti negli Stati Uniti con l’assassinio del re d’Italia le autorità americane difficilmente avrebbero potuto negare l’estradizione. Non potendo svolgere indagini direttamente e diffidando della collaborazione della polizia americana, i magistrati milanesi ingaggiarono un investigatore privato, George McClusky, con l’incarico di redigere un dettagliato rapporto sulle attività dei circoli anarchici di Paterson.

Paterson, New Jersey, a fine '800

Paterson, New Jersey, a fine ’800

McClusky, intuendo i desiderata della committenza, consegnò nel settembre del 1900 una rappresentazione di Paterson come “quartier generale” dell’anarchia mondiale, luogo ideale in cui i cospiratori potevano trovare solidarietà, lavoro, prosperità e godere di una pressoché totale impunità, grazie alla distratta tolleranza della polizia locale che non comprendeva né la lingua in cui i sovversivi tenevano le loro riunioni pubbliche, né la pericolosità delle loro idee. Il poeta Pietro Gori era stato uno dei primi anarchici italiani a giungere a Paterson nel 1891, la sua intensa predicazione aveva attirato altri compagni dall’Italia e dato vita ai primi gruppi organizzati. Otto anni più tardi l’arrivo di Errico Malatesta aveva determinato una ulteriore radicalizzazione dei circoli anarchici. Pur in assenza di prove certe, McClusky sosteneva che Bresci e Malatesta fossero legati da profonda amicizia e che quest’ultimo fosse l’ispiratore del complotto per uccidere il re d’Italia. Tali frettolose conclusioni furono accolte con soddisfazione dai magistrati milanesi, che esercitarono pressioni sulle autorità americane affinché si decidessero ad avviare indagini approfondite. Alla fine di settembre del 1900 la Suprema corte di New York accettò di interrogare per rogatoria alcuni residenti a Paterson. Decine di anarchici o presunti tali che avevano avuto qualche legame con Bresci furono convocati a deporre, tra gli altri Bartoldi, il proprietario dell’hotel in cui aveva soggiornato, alcuni suoi conoscenti come Luigi Prina e Federico Aimone, Giuseppe Granotti, il fratello del latitante Luigi Granotti, la pasionaria nera Ernestina Cravello e Sophie Knieland, da cui il pratese aveva avuto due figlie, una delle quali non poté mai conoscere suo padre. Da tutte le deposizioni raccolte sino al gennaio 1901 dal giudice James Trimble, assistito dal professor Ravaioli in qualità di cancelliere, non emerse alcun elemento che suffragasse l’ipotesi del complotto, pertanto i magistrati milanesi dovettero rassegnarsi a non poter spiccare nessun mandato di cattura.
Nel settembre del 1900 l’affannosa ricerca di complici si spostò dal New Jersey al Canton Ticino. In carcere Bresci ricevette dalla Svizzera una lettera anonima di congratulazioni per il suo gesto. Nell’arco di un paio di settimane la polizia elvetica riuscì ad individuarne l’autore, Vittorio Maffei, un anarchico anconetano residente a Bellinzona. Estradato in Italia, Maffei fu interrogato dai magistrati di Milano a cui poté dimostrare di non aver avuto alcuna relazione con Bresci. Nell’agosto del 1901 fu prosciolto per insufficienza di prove dall’accusa di complicità nel regicidio.

Mentre le indagini alla ricerca di complici in Italia ed all’estero durarono più di un anno, l’istruttoria ed il processo di Bresci furono condotti con esemplare celerità. Il ministro della Giustizia Gianturco affidò la reggenza della Procura generale di Milano al procuratore di Roma, Nicola Ricciuti, noto per la sua efficienza. Il 17 agosto 1900 fu conclusa l’istruttoria e fu formulato l’atto d’accusa contro Bresci.
L’articolo 36 dello Statuto prevedeva che per giudicare i delitti contro la sicurezza dello stato, tra cui rientrava anche il regicidio, il senato dovesse costituirsi in alta corte di giustizia. Per attivare tale procedura mancava però un decreto reale che la disciplinasse. Il governo e la corona, attenendosi ai precedenti rappresentati dai casi Passannante ed Acciarito, preferirono affidare il processo Bresci alla corte d’assise di Milano. La classe dirigente liberale, interpretando le aspettative dell’opinione pubblica, riteneva che la gravità del reato commesso imponesse una punizione del colpevole rapida e severa che fosse di monito ad eventuali emulatori. Un processo celebrato in senato non solo sarebbe stato più lento, ma avrebbe anche offerto al regicida una miglior tribuna da cui esaltare il suo gesto.
La richiesta avanzata da alcuni giornali conservatori di celebrare il processo a porte chiuse non fu neppure presa in considerazione.
Per parte sua Bresci non ricorse ad alcun espediente dilatorio, ammise le proprie responsabilità dichiarandosi pienamente capace di intendere di volere, non invocò nessun atto di clemenza nei suoi confronti. Tale atteggiamento spavaldo era ispirato dalla profonda quanto ingenua convinzione che il suo gesto avrebbe avviato un rapido processo rivoluzionario che lo avrebbe ben presto trasformato da ergastolano ad eroe popolare.
Bresci accettò il difensore d’ufficio assegnatogli, Mario Martelli, presidente dell’ordine degli avvocati di Milano ed ex deputato liberale, ma volle anche nominare un difensore di sua fiducia. La sua scelta cadde su Filippo Turati, forse con l’intento di evidenziare difronte alle classi popolari il contrasto tra lo sterile attendismo riformista e la coraggiosa capacità d’azione dell’individualismo anarchico. Il leader socialista accolse con sorpresa e disappunto tale nomina, rendendosi conto dei danni politici che il socialismo riformista e legalitario che rappresentava avrebbe subito dalle inevitabili accuse di indulgenza se non di commistione con i conati rivoluzionari di matrice anarchica. In una lettera alla compagna Anna Kuliscioff del 18 agosto, Turati commentando la sua nomina scrisse: “Oh! Che animale! Dopo aver tirato tre colpi alla monarchia, volle tirare il quarto al socialismo.”
Prima di decidere se accettare o meno la nomina, Turati, cedendo ai suoi scrupoli umanitari, volle, il 20 agosto, incontrare Bresci nel carcere di Milano. Il regicida dichiarò, come aveva già fatto sin dal momento del suo arresto, di aver voluto uccidere un principio e non un uomo e di essere preparato a subire una condanna all’ergastolo. Verso la compagna Sophie e le figlie gettate sul lastrico dal suo gesto non mostrò alcun senso di colpa. Turati gli fece presente le sue perplessità, rappresentava un partito che da tempo aveva preso nettamente le distanze dall’anarchia, in più non esercitava la professione forense da una decina d’anni. Bresci si ostinò a non considerare tali perplessità come un impedimento insormontabile e Turati fu costretto a riservarsi altro tempo per riflettere sulla sua decisione.

Confidandosi con i compagni di partito il leader socialista tracciò un lucido ritratto psicologico del regicida, riportato in una lettera inviata da Alfredo Bertesi a Camillo Prampolini: “Oggi Filippo è stato per quasi due ore di seguito con Bresci. E’ tornato a casa (io ero ad attenderlo con Treves, Romussi e altri) perfettamente smontato. L’impressione di Filippo è che Bresci sia un microcefalo, una testa non sviluppata, un incosciente. Immagina che egli non si preoccupa della sorte che lo attende: aspettava gioioso la rivoluzione dopo l’attentato; l’aspetta ora fra qualche mese o anno. Ha speso mezz’ora per spiegare a Filippo che gli devono aver rubato un bottoncino, che gli hanno tagliato la camicia, e una quantità di cose piccine a cui egli annette molta importanza. Non ha alcuna dottrina politica o sociale. Dice che pensò al regicidio dal ’95, quando avvennero le condanne per i fatti di Sicilia; ruminò il delitto sempre, tacque per non essere segnalato. Non ha complici inutile cercarne. Crede che sarà condannato a vita, ma che sarà liberato dalla rivoluzione. (…) Concludendo, Turati ha smarrito per via quella compassione che gli aveva fatto pensare di accettare la difesa.”
Le pressioni della Kuliscioff e di altri compagni come Bertesi non convinsero Turati, che il 21 agosto comunicò al presidente della corte di assise di Milano il suo rifiuto dell’incarico di difensore, tuttavia non abbandonò Bresci a sé stesso, consigliandogli di rivolgersi all’avvocato Francesco Saverio Merlino, che in gioventù era stato vicino a Malatesta, aveva a lungo militato nel movimento anarchico e recentemente aveva aderito al partito socialista, seppur su posizioni critiche rispetto all’ortodossia marxista.
Per i lettori della “Stampa” Luigi Einaudi tracciò un profilo biografico di Merlino, cercando di spiegarne la complessa ed insolita evoluzione politica: “Anarchico in un’età troppo giovane per poter avere una soda e profonda cultura, propagandista convinto di idee troppo velocemente apprese e credute vere, in mezzo ad una vita rumorosa ed agitata d’azione, non perse mai l’abitudine di leggere e di studiare. Fu questa abitudine, ignota ai più dei rivoluzionari, di leggere, un po’ alla rinfusa, libri di anarchici, di socialisti, di economisti ortodossi, di economisti della scuola pura austriaca, fu questa abitudine, congiunta con una buona dose di ingegno e di capacità di osservazione individuale, che ha condotto l’uomo il quale ancora nel 1890 scriveva: ‘uccidere un tiranno o tradirlo è vera gloria…; il furto si deve ammettere come necessità di lotta’, ad essere un curioso impasto in cui si fondono tutte le idee nel tentativo di creare una nuova scuola evoluzionistica e pacifica.”
In attesa che la nomina di Merlino venisse formalizzata, il difensore d’ufficio Martelli presentò un’istanza di rinvio del processo che fu respinta, a causa dell’opposizione del procuratore Ricciuti. Come stabilito, il processo si celebrò, in un solo giorno, il 29 agosto 1900, ad un mese esatto dall’assassinio del re. Su Milano incombeva un cielo grigio e piovoso.

Furono adottate imponenti misure di sicurezza, con la mobilitazione di quasi cinquecento uomini. Una compagnia di fanteria e due plotoni di cavalleria furono schierati a difesa del tribunale e delle vie circostanti, poliziotti e carabinieri furono incaricati di vigilare sui trasferimenti del detenuto e sull’aula. Per evitare incidenti Bresci fu tradotto in tribunale prima dell’alba, intorno alle quattro, scortato da una decina di carabinieri. Il ristretto pubblico di una ottantina di giornalisti italiani e stranieri fu ammesso in aula dopo il rilascio di uno speciale permesso. Poliziotti in borghese si mescolarono ai giornalisti ed ai pochi curiosi ammessi. Alla vigilia del processo il ministro della Giustizia si era incaricato di ricordare che i giornali che avessero pubblicato il ritratto del regicida, offendendo così il sentimento popolare, sarebbero incorsi nei rigori della legge.
La formalizzazione della nomina di Merlino come difensore giunse soltanto la sera prima dell’avvio del processo, impedendo all’avvocato appena nominato di conferire con il suo assistito, di studiare le carte, di ricercare testimoni e di elaborare una strategia. Avendo viaggiato tutta la notte in treno da Roma a Milano, Merlino ebbe appena il tempo di un colloquio di una mezz’ora con il collega Martelli.
I tentativi di Merlino di ottenere un rinvio del processo furono vani. Il presidente della corte di assise Gatti ignorò senza esitazioni sia la protesta di Merlino per i tempi ristretti concessi alla preparazione della difesa, sia il suo rilievo riguardo al fatto che la fissazione della data del processo, sovvertendo la procedura prevista, era avvenuta dopo il sorteggio della giuria. Tuttavia anche con più tempo a disposizione né Martelli, né Merlino avrebbero potuto fare molto di più di quanto fecero a difesa di un imputato orgogliosamente reo confesso, macchiatosi del più grave delitto in un regime monarchico.
Respinte le richieste di rinvio, il dibattimento ebbe inizio intorno alle 11,30. Dopo la lettura dell’atto di accusa, fu data la parola a Bresci che ammise di aver premeditato l’assassinio del re, di essersi esercitato al tiro, sia a Paterson, sia a Prato, e di aver lavorato i proiettili della sua rivoltella per renderli più letali. Vennero quindi introdotti i dieci testimoni presentati dal procuratore Ricciuti, il maresciallo Salvadori, il generale Avogadro Di Quinto, la guardia Olivieri, lo staffiere Lupi ed il chimico Galimberti che descrissero la sparatoria e l’arresto del regicida, gli affittacamere Antonio Ramella ed Angela Cambiaghi, la lattaia Carenzi, l’inquilino Del Savio e la focosa Teresa Brugnoli che ricostruirono gli spostamenti di Bresci nei giorni precedenti il 29 luglio.
Per la difesa furono chiamati a deporre cinque cittadini di Prato, indicati dallo stesso Bresci. Quattro suoi ex datori di lavoro, Divini, Vecchioli, Magnolfi e Livi, ed un suo ex compagno della scuola festiva di tessitura meccanica, Bruschi, che non riuscirono a far emergere elementi che potessero suscitare pietà per l’imputato in una giuria già indignata dalla fredda premeditazione del regicida.
Merlino e Martelli, dietro insistenza del loro assistito, chiesero di sentire anche il tenente dei carabinieri Borsarelli che riferì sulle circostanze dell’arresto del regicida, respingendo l’accusa di avergli sputato in faccia e di averlo volutamente esposto alle percosse dei ginnasti inferociti.

Esaurite le deposizioni dei testimoni, prese la parola il procuratore Ricciuti che escluse l’attenuante dell’infermità mentale, peraltro non invocata dalla difesa per volontà dello stesso Bresci. L’orrendo crimine perpetrato a Monza non era l’opera di un demente solitario, ma il prodotto di un complotto anarchico concepito a Paterson, dove “…l’anarchia ha i suoi capi…” ed il regicidio “…le sue apoteosi..” A sostegno della testi del complotto Ricciuti non poté esibire altro che vaghi indizi, le testimonianze secondo cui Bresci e Granotti erano stati insieme prima a Milano e poi a Monza ed i telegrammi che si erano scambiati nei giorni precedenti il 29 luglio.
Quanto poi alla pietà, Bresci non ne meritava alcuna, dal momento che aveva premeditato il suo gesto e non aveva manifestato alcun rimorso dopo averlo compiuto. Il procuratore concluse la sua requisitoria ricordando alla giuria chi era la vittima “…il più buono, il più popolare, il più leale dei Re.”
Poco dopo le quattro del pomeriggio Merlino pronunciò la sua arringa. Richiamò il principio del diritto alla difesa per chiunque, tornò a criticare la fretta ed il mancato rispetto delle formalità procedurali, invitò la giuria a non lasciarsi sopraffare da sentimenti di odio e di vendetta, ma di amministrare la giustizia con calma, con serenità e soprattutto con la consapevolezza che il regicidio affonda le sue cause nei mali sociali e non si previene con la pura repressione. Rifiutò poi l’immagine di Paterson come un covo di assassini e dell’anarchia come dottrina omicida. Affermò che il regicidio “…non è un’invenzione degli anarchici, è un’idea che ricorre nella mente di uomini che lottano contro una dato ordine sociale, che si illudono di poter colpire quest’ordine sociale in colui che esteriormente lo rappresenta…” Con grande abilità dialettica Merlino mise sotto accusa i governi liberali per cercare attenuanti al gesto del suo assistito. Offrì una spiegazione dell’innegabile inclinazione degli anarchici italiani a ricorrere al regicidio facendo riferimento alla violenza perpetrata dai governi italiani nei loro confronti. Privati del diritto di esprimere le loro idee, di pubblicare i loro giornali, oppressi e perseguitati da governi liberticidi, gli anarchici italiani avevano reagito con pari violenza.
Il presidente Gatti intervenne prontamente richiamando più volte l’avvocato ad attenersi al caso senza indulgere né nelle divagazioni teoriche, né nella propaganda politica. La crescente irritazione del presidente, del pubblico e della giuria convinsero Merlino ad affrettarsi a concludere, chiedendo in nome della giustizia che all’imputato non fosse inflitta la pena massima.

L’arringa dell’avvocato Martelli fu più asciutta e misurata. Espresse il suo profondo ribrezzo per il delitto commesso, evitò ogni accusa al governo, poi descrisse il suo assistito come un uomo vittima di una ossessione: “Avrebbe capito che il suo era un delitto inutile, se la mente sua non fosse stata ossessionata. Poteva confondere con la persona del re l’opera del suo governo? Le confuse in causa della sua ossessione. Egli sacrificò il suo avvenire, tendenze, speranze, amori; lo avrebbe fatto a mente sana? Voi giurati, dovete pensare che il Bresci abbia di tutta sua volontà compiuto un fatto a mente sana o se questa volontà non fu al servizio di una forza arcana.”
Difronte al tentativo di dare corpo alla tesi dell’infermità mentale, Bresci dalla gabbia in cui era confinato insorse gridando: “Avvocato io non sono pazzo. Io non voglio essere giudicato per un atto di follia, ma per un atto rivoluzionario.”
Incurante delle proteste del suoi cliente, Martelli riprese la parola e concluse la sua arringa affermando che solo l’ossessione, e non la volontà, aveva spinto il suo cliente ad uccidere, perciò meritava comprensione e clemenza.
Il presidente Gatti diede quindi facoltà di parlare a Bresci che volle ancora una volta puntualizzare di aver agito da solo, di non temere alcuna condanna e di riporre tutte le proprie speranze nella prossima rivoluzione.
Qualche minuto prima delle diciotto la giuria, composta da impiegati e da consiglieri comunali, si ritirò in camera di consiglio. Il regicida attese il verdetto ostentando la stessa espressione annoiata ed assonnata che lo aveva accompagnato per tutta la giornata. Appena una decina di minuti più tardi i giurati rientrarono in aula, l’imputato fu dichiarato colpevole senza attenuanti. In circa quindici minuti la corte formulò la sentenza di cui fu data lettura dal presidente Gatti. Bresci fu condannato alla pena dell’ergastolo con sette anni di segregazione cellulare, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, al pagamento delle spese processuali, alla perdita del diritto di testare ed al sequestro dell’arma del delitto.
Nei mesi successivi alla sua condanna la stampa calò il silenzio sulla sorte di Bresci. Il luogo della sua detenzione fu reso noto soltanto nella primavera del 1901. Nel timore che gli anarchici potessero organizzare un colpo di mano per liberarlo, le autorità ritennero più prudente non lasciar trapelare informazioni.
Fino al dicembre del 1900 Bresci non fu trasferito dal carcere di San Vittore a Milano, qui rimase guardato a vista giorno e notte, assicurato alla parete da una lunga catena. Le lettere inviategli da Sophie Knieland non gli furono recapitate, poté solo conferire con l’avvocato Merlino per la presentazione del suo ricorso in cassazione. Il 2 dicembre Bresci fu trasferito notte tempo da Milano a La Spezia e da qui via nave a Forte Longone sull’isola d’Elba. Gli fu assegnata la stessa cella situata sotto il livello del mare che aveva ospitato Passannante per otto anni, al termine dei quali, a causa del precipitare delle sue condizioni mentali, era stato internato nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. L’arrivo del regicida a Forte Longone fu accolto dagli altri detenuti con minacciose grida di solidarietà che convinsero le autorità a ricercare un luogo di detenzione ancora più remoto e sicuro.

Il penitenziario di Santo Stefano

Il penitenziario di Santo Stefano

La scelta cadde sul penitenziario di Santo Stefano, che era stato edificato dalla monarchia borbonica nel 1795, secondo i principi del Panopticon, enunciati dal filosofo inglese Jeremy Bentham. Le celle erano disposte a semicerchio e potevano essere agevolmente sorvegliate dalle guardie poste in un corpo centrale. Il direttore dell’istituto di pena fu incaricato di preparare una cella speciale sul modello di quella riservata sull’isola del Diavolo al capitano Dreyfus. Accanto alla direzione fu eretto un muro di recinzione a protezione di tre celle affiancate, una, quella centrale, riservata al regicida, le altre ai lati alle guardie, che da apposite feritoie potevano sorvegliare il condannato notte e giorno. Un impianto di illuminazione regolabile dall’esterno consentiva di illuminare la cella centrale, di tre metri per tre, anche di notte. L’arredamento era ridotto all’essenziale, un tavolaccio di legno con un materasso, da legare alle parete durante il giorno, uno sgabello fissato al pavimento, un catino ed un bugliolo.
Bresci sbarcò sull’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago delle isole Ponziane, il 23 gennaio 1901, gli fu assegnato il numero di matricola 515 ed un modesto corredo composto da una divisa a righe bianche e nocciola con il colletto nero, che identificava i detenuti macchiatisi dei delitti più atroci, come il parricidio ed il regicidio, un tascapane di tela, un pettine, una spazzola, un fazzoletto, un tovagliolo, una maglia e qualche capo di biancheria.
Il regicida sembrò adattarsi al duro regime carcerario, non ebbe crisi violente, né si rese protagonista di atti di insubordinazione, anche se le sue giornate sull’isola di Santo Stefano erano vuote, monotone, silenziose e strettamente vigilate. La sveglia suonava alle sei del mattino, alle undici veniva servito l’unico pasto della giornata, una minestra di legumi e pasta con una pagnotta di pane bigio, la domenica la dieta veniva variata con un brodo di carne ed un pezzetto di manzo. Ai reclusi era concesso di acquistare un sopravvitto. Bresci disponeva di un fondo di circa sessanta Lire, ciò che restava della rimessa di venti Dollari che Sophie Knieland gli aveva inviato da Paterson al carcere di San Vittore. Grazie al quel piccolo gruzzolo, poté concedersi un po’ di tabacco, qualche bicchiere di vino e qualche pezzo di formaggio. Alle diciotto i detenuti potevano coricarsi.
Le misure di sicurezza adottate furono minuziose. Per contrastare eventuali incursioni anarchiche fu appositamente trasferito sull’isola un distaccamento di fanteria, incaricato di pattugliare le coste. In applicazione della sentenza, molta attenzione fu riservata a mantenere Bresci nel più totale ed alienante isolamento. Le guardie carcerarie che effettuavano i turni di sorveglianza avevano ricevuto l’ordine di non parlare mai per nessun motivo con il regicida, che trascorreva in perfetta solitudine anche la quotidiana ora d’aria, protetto dalla vista degli altri detenuti da un muro di cinta. Nessuna comunicazione con l’esterno gli era consentita, non poteva né inviare, né ricevere lettere. L’unica distrazione che gli era concessa era la lettura. La biblioteca del carcere offriva però soltanto la Bibbia, un volume sulla vita dei santi, il Bollettino di disciplina carceraria ed un dizionario di francese. Bresci non ebbe esitazioni a preferire ai temi religiosi e carcerari il dizionario francese, a cui incominciò a dedicare molte ore delle sue giornate.

Anche l’ultimo giorno della sua vita, mercoledì 22 maggio 1901, Bresci fu visto dal secondino Antonio Barbieri intento a leggere il suo dizionario di francese. Erano le tre meno un quarto. Una decina di minuti più tardi lo stesso secondino aprì nuovamente il suo spioncino e lo vide penzolare dalle inferriate della finestra con un tovagliolo stretto attorno al collo. Barbieri chiamò il suo collega Giovanni De Maria che sonnecchiava nella cella accanto ed un detenuto addetto nelle vicinanze a lavori di manutenzione, Leonardo Tamorria. I tre si precipitarono nella cella cercando di rianimare Bresci, ma era ormai troppo tardi. Il medico del carcere, Francesco Russolillo, constatò il decesso, evidenziando che il cadavere presentava un solco profondo attorno al collo, i suoi occhi erano sporgenti ed iniettati di sangue e la cavità orale era cianotica.
Due giorni più tardi, quando il corpo presentava già evidenti segni di decomposizione, fu praticata l’autopsia da tre professori inviati appositamente dall’Università di Napoli. I segni della morte per soffocamento apparvero evidenti così come l’assenza sul corpo di lesioni, contusioni o ematomi compatibili con una aggressione.
Il 26 maggio 1901 Bresci fu seppellito nel cimitero del carcere di Santo Stefano. Oggi della sua tomba non c’è più traccia.
Il tenente Angelo Bresci, intervistato da un giornalista dell’”Adriatico” all’indomani della condanna di suo fratello, alla domanda se sarebbe stato capace di resistere all’ergastolo rispose: “Non è possibile. E se la morte non viene spontanea a liberarlo dall’ergastolo, non esito a credere che egli troverà il modo di finirla.” Al di là delle certezze espresse da Angelo Bresci, il suicidio del regicida presenta alcuni elementi che lo rendono quanto meno sospetto.
Nel suo ultimo giorno di vita Bresci si preoccupò, come faceva da quando era recluso a Santo Stefano, di non consumare tutta la minestra ricevuta alle undici per conservarne una parte per la cena. Fino all’ultimo giorno lesinò sui suoi magri risparmi depositati presso la direzione del carcere. Infine, riuscì in pochi minuti a provocarsi la morte impiccandosi con un fazzoletto o con un tovagliolo senza emettere alcun lamento che destasse l’attenzione dei due carcerieri che lo guardavano a vista.

Il presidente del consiglio Giolitti incaricò l’ispettore delle carceri Alessandro Doria di condurre un’inchiesta sulle circostanze della morte di Bresci. Non conosciamo le conclusioni a cui giunse, poiché la documentazione è scomparsa dagli archivi. Dalle poche informazioni che abbiamo risulta però che Doria era presente sull’isola di Santo Stefano il 18 maggio, quattro giorni prima della morte di Bresci per condurre una non meglio precisata ispezione sulle condizioni della sua detenzione. Doria si era già segnalato negli anni precedenti come un funzionario senza scrupoli. Nel tentativo di estorcere all’attentatore di Umberto I, Pietro Acciarito, i nomi dei suoi presunti complici non aveva esitato ad esercitare illecite pressioni ed a produrre falsi documenti. Il suo subdolo tentativo di raggiro era stato scoperto, ma anziché essere condannato per gli abusi commessi Doria era stato promosso ad ispettore generale delle carceri. Lo stesso prodigioso avanzamento di carriera si verificò dopo la morte di Bresci. Nel luglio del 1901 gli fu affidata la direzione generale delle carceri del Regno che gli valse il raddoppio del suo stipendio. Il sospetto che tanta rapidità nel percorrere la gerarchia burocratica fosse un segno della riconoscenza in alto loco per l’abilità dimostrata nel provocare il suicidio di Bresci o nell’occultare le reali circostanze della sua morte è legittimo.

Luigi Granotti, il "Biondino"

Luigi Granotti, il “Biondino”

Né la condanna, né la morte di Bresci fermarono la ricerca dei suoi presunti complici. Nell’arco di circa un anno tutti i vari filoni di indagine di cui abbiamo già dato conto si esaurirono, tranne quello legato al misterioso “Biondino”, Luigi Granotti. Dopo l’identificazione dell’accompagnatore di Bresci a Milano ed a Monza, gli inquirenti, seguendo uno schema investigativo consolidato, procedettero all’arresto ed all’interrogatorio dei suoi famigliari rimasti nel biellese. Il cugino di Granotti, Giacomo Bussetti, dopo estenuanti e forse energici interrogatori, nel settembre del 1900, fornì le conferme tanto attese. Il 30 luglio rincasando da una serata trascorsa a bere con gli amici, Bussetti aveva trovato ad attenderlo nel cortile Granotti, tremante, in preda ad una forte agitazione, lo aveva rincuorato ed invitato ad entrare. Il giorno seguente Granotti aveva convinto il cugino ed un suo amico, Cornelio Gerodetti, a fare una gita a Gressoney, qui si erano rivolti ad una guida, Carlo Squinto, che li aveva condotti sino al confine con la Svizzera. Granotti lo aveva attraversato, gli altri erano tornati sui loro passi. Durante la lunga camminata verso il confine Bussetti aveva raccolto le confidenze di Granotti che gli aveva confessato di essere stato presente a Monza sul luogo del regicidio. Il suo compito sarebbe stato entrare in azione se Bresci avesse fallito. A conferma delle sue affermazioni gli aveva regalato la sua rivoltella, Bussetti, non appena era rimasto solo, se ne era sbarazzato inorridito gettandola nel fiume Lys.
I carabinieri cercarono invano la rivoltella, altrettanto vano fu la ricerca di Granotti, contro cui fu spiccato un mandato di cattura. L’unica foto di cui gli inquirenti disponevano risaliva dieci anni prima, era stata scattata durante il suo servizio militare. Quella foto fu inoltrata a tutte le questure, fu mostrata durante gli interrogatori per rogatoria a New York, ma non fornì elementi utili alla sua cattura.
Il 25 novembre 1901 si celebrò il processo contro il contumace Luigi Granotti per correità nel regicidio. Su incarico dei parenti, la difesa fu assunta dall’avvocato Elio Rivera che presentò alla corte di assise di Milano una memoria difensiva nella speranza di ottenere un rinvio. Mise in dubbio la veridicità e la spontaneità della deposizione di Bussetti, elencò alcuni testimoni biellesi pronti a giurare che Bussetti dopo la liberazione aveva confessato loro di essere stato indotto ad accusare ingiustamente il cugino. Dichiarò di poter esibire prove che il 29 luglio Granotti si trovava, non a Monza, ma ad Alessandria presso alcuni parenti. Contestò infine anche la più granitica certezza degli inquirenti, Granotti non era affatto biondo, ma aveva capelli, ciglia e baffi “neri come l’ebano”.
La corte di assise, presieduta da Rossignoli, ignorò i rilievi della difesa, non solo non concesse alcun rinvio, ma non volle neppure ascoltare i testimoni indicati. Basandosi unicamente sulla testimonianza di Bussetti, nel frattempo emigrato in Argentina, dichiarò Granotti colpevole del delitto ascrittogli e lo condannò all’ergastolo, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla perdita del diritto di testare ed al pagamento delle spese processuali.

Negli anni successivi la caccia all’inafferrabile “Biondino” continuò imperterrita. Da ogni parte del mondo, dagli Stati Uniti, dal Sud Africa, dall’Australia, dal Sud America e persino da Hong Kong giunsero segnalazioni più o meno attendibili della presenza del “Biondino”. Tutti i riscontri si rivelarono un completo fallimento. Fino al 1942 il fascicolo di Granotti si arricchì di tanto in tanto di laconiche e desolanti annotazioni che tradivano l’impotenza degli inquirenti: “Niente da segnalare”. Soltanto nel 1952 la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza radiò Granotti dal casellario dei sovversivi.
E’ probabile che Granotti trascorse tutta la sua vita negli Stati Uniti, non lontano da Paterson, protetto dall’omertà dei compagni. Nel 1949 il settimanale anarchico di New York “L’adunata dei refrattari” diede l’annuncio della sua morte: “il 30 ottobre u.s. ha cessato di vivere il compagno Luigi Granotti, conosciuto da mezzo secolo sotto il nome di “Biondino”, all’età di 82 anni. Nel darne l’annuncio desideriamo esprimere la nostra gratitudine ai compagni solerti e generosi che di lui ebbero cura fraterna durante gli ultimi anni della sua vita.”
(fine)

 

Per saperne di più

GIUSEPPE GALZERANO, Gaetano Bresci. Vita, attentato, processo, carcere e morte dell’anarchico che giustiziò Umberto I, Salerno Galzerano Editore, 2001.
ERIKA DIEMOZ, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Torino, Einaudi, 2011.
ARRIGO PETACCO, L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I, Milano, Mondadori, 2000.
PAOLO PASI, Ho ucciso un principio. Vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re, Milano, Elèuthera, 2014.
ROBERTO GREMMO, Gli anarchici che uccisero Umberto I. Gaetano Bresci, il “Biondino” e i tessitori biellesi di Paterson, Biella, Storia Ribelle, 2000.
FRIEDRICH ENGELS, PAUL LAFARGUE, KARL MARX, Anarchici e Marxisti. L’Alleanza della democrazia socialista e l’Associazione internazionale degli operai, Roma, Editori Riuniti, 1988.
UMBERTO LEVRA, Il colpo di stato della borghesia: la crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano, Feltrinelli, 1976.
RAFFAELE ROMANELLI, L’Italia liberale 1861-1900, Bologna, Il Mulino, 1990.
DENIS MACK SMITH, I Savoia re d’Italia, Milano, Rizzoli, 1990.
CARLO M. FIORENTINO, La corte dei Savoia (1849-1900), Bologna, Il Mulino, 2008.