GAETANO BRESCI E L’INAFFERRABILE “BIONDINO” (parte 1)

di Roberto Poggi -

 

Chi era il tessitore toscano venuto dagli Stati Uniti che uccise re Umberto I a Monza? Quali reti di connivenze rese possibile l’attentato? Ma soprattutto, lui e il suo complice erano veramente degli anarchici esaltati?

Gaetano Bresci

Gaetano Bresci

La mattina di venerdì 27 luglio 1900 dal treno proveniente da Milano scesero alla stazione di Monza, insieme a tanti altri viaggiatori accaldati e frettolosi, due trentenni di bell’aspetto, uno bruno e l’altro biondo. Osservandoli, neanche il poliziotto più sospettoso si sarebbe allarmato, ma almeno uno di loro aveva in valigia una rivoltella e la ferma intenzione di usarla contro il re d’Italia, l’altro o era un complice o un ignaro accompagnatore.
Intorno alle undici i due giovani presero un tavolo al Caffè del Vapore, affacciato sul piazzale della stazione. Ordinarono una minestra, un secondo di carne con contorno, formaggio, frutta e vino. Consumarono il pasto scambiandosi poche parole. Il proprietario del locale, Luigi Merisio, il cameriere, Antonio Bovisio, ed un avventore, Ermenegildo Cozzi, dichiararono ai giornalisti che li intervistarono dopo il regicidio, di essere rimasti colpiti dall’atteggiamento misterioso dei due giovani, in particolare di quello biondo che parlava poco ascoltando attentamente il compagno, teneva il cappello calato sugli occhi e sembrava guardarsi attorno di tanto in tanto.
Alle dodici e trenta si alzarono da tavola, pagarono il conto di 4,90 Lire, lasciando una mancia di dieci centesimi, e si incamminarono per la città, alla ricerca una sistemazione per la notte. A pochi passi dal Caffè, in via Cairoli 14, notarono l’insegna di una pensione. Chiesero due camere, ma non poterono essere accontentati poiché era rimasta soltanto una camera libera, quindi preferirono continuare la loro ricerca altrove. Un’ora più tardi, verso le cinque del pomeriggio, quello bruno, il più alto ed elegante dei due, che rispondeva al nome di Gaetano Bresci, si ripresentò alla pensione e prese per sé l’unica camera disponibile. Disse che si sarebbe fermato almeno otto giorni, aggiunse di essere in cerca di un’occupazione e di avere l’intenzione di stabilirsi a Monza. Concordò un prezzo di due lire al giorno, comprensivo anche di un pasto. Quando l’affittacamere, Angela Cambiaghi, vedova Rossi, gli chiese notizie del suo amico, Bresci rispose che aveva trovato un’altra sistemazione. Agli inquirenti la vedova descrisse l’amico di Bresci che non aveva potuto ospitare come un giovane pallido con baffi e capelli biondi, con “boschetto” al mento, vestito di chiaro, dall’aspetto di un operaio. Alle sei Bresci lasciò la pensione e vi fece ritorno verso le nove e mezza portando con sé una valigia.
Giuseppa Portalupi, moglie dell’oste Paolo Brigada, gestore della Locanda Del Mercato di Monza, dichiarò che la sera del 27 luglio entrarono nel suo locale due giovanotti che chiesero di cenare, poi uno dei due prese per cinquanta centesimi una camera. Era in possesso di regolari documenti e fu registrato come Luigi Granotti. Nei giorni seguenti i coniugi Brigada non videro più l’accompagnatore di Granotti in cui gli inquirenti vollero riconoscere Gaetano Bresci.
Lo stesso misterioso “Biondino” descritto dalla vedova Rossi comparve in compagnia di Bresci anche a Milano. Cesira Ramella, la figlia ventunenne degli albergatori di via San Pietro all’Orto, dove il regicida soggiornò dal 24 al 26 luglio, tratteggiò come un operaio vestito a festa il giovane che il 25 luglio divise la camera con Bresci. Il “Biondino” parlava stentatamente italiano intercalando il discorso con vocaboli in dialetto piemontese e milanese, mostrava un atteggiamento sottomesso nei confronti dell’amico. Bresci lo presentò ai Ramella come un amico con cui aveva lavorato in America di passaggio in Italia. Pattuito il raddoppio del prezzo del pernottamento, da una lira e mezzo a tre, la signora Ramella non fece obiezioni alla richiesta di Bresci di ospitare l’amico nella propria camera.

Luigi Granotti

Luigi Granotti

Bresci e Granotti provenivano entrambi da Paterson nello stato del New Jersey dove avevano lavorato come tessitori e condividevano la fede anarchica. A partire dagli anni ottanta la crisi dell’agricoltura, generata dall’afflusso sul mercato europeo, grazie alla diffusione della navigazione a vapore, del grano americano aveva costretto centinaia di migliaia di italiani a cercare fortuna oltre oceano. Alla fine dell’ottocento, solo a Paterson, fiorente centro di produzione della seta, si contavano, su una popolazione complessiva di centomila abitanti, oltre diecimila italiani, provenienti sia dalle regioni settentrionali che da quelle meridionali. Secondo un’inchiesta condotta nel 1898 dal “New York Times”, almeno un quarto degli italiani di Paterson professava idee anarchiche. Certamente molti di essi avevano scelto di emigrare spinti non soltanto dalla miseria, ma anche dal desiderio di sottrarsi all’inasprimento adottato dal governo Crispi delle misure repressive nei confronti di quanti fossero sospettati di intenzioni sovversive.
A Paterson, come altrove negli Stati Uniti, definirsi anarchici, invocare l’abbattimento dello stato e l’instaurazione di una società senza né classi, né sfruttamento e persino glorificare gli attentatori di capi di stato stranieri come eroici giustizieri non destava alla fine dell’ottocento, grazie anche alle barriere linguistiche, l’immediata reazione repressiva delle autorità di polizia. Ciò favorì la proliferazione di giornali in lingua italiana, di associazioni e ritrovi anarchici. Da Paterson era partito nel 1897 il foggiano Michele Angiolillo Lombardi per vendicare con l’assassinio del primo ministro Antonio Canovas del Castillo l’arbitraria deportazione di decine di anarchici messa in atto dal governo spagnolo, a seguito di un attentato dinamitardo verificatosi a Barcellona durante la processione del Corpus Domini.
A Paterson la maggior parte degli anarchici italiani era iscritto alla “Società per il diritto all’esistenza”, che aveva sede nell’hotel Bertoldi’s. Uno dei principiali animatori della “Società” era il tessitore vercellese Giuseppe Ferraris. Quando nel gennaio del 1898 Gaetano Bresci giunse, dalla nativa Coiano, alla porte di Prato, a Paterson trascorse qualche giorno ospite di un suo compaesano, Gino Magnolfi, poi non appena trovò, senza troppa fatica, un impiego presso lo stabilimento Hamil and Booth, che gli offriva, come decoratore di seta specializzato, un salario di quattordici dollari alla settimana, prese alloggio presso l’hotel Bertoldi’s, per la modica cifra di ottanta centesimi al giorno.

In breve tempo Bresci si integrò perfettamente nella comunità anarchica locale. La condanna a quindici giorni di carcere scontata nel 1892 per aver oltraggiato due vigili urbani di Prato intenti a multare il garzone di una macelleria, reo di aver violato il regolamento relativo agli orari di chiusura, e l’anno di confino trascorso a Lampedusa nel 1895 per aver contribuito all’organizzazione di uno sciopero nella fabbrica tessile in cui lavorava, gli valsero la calorosa accoglienza dei compagni d’oltre oceano. Una settimana dopo la sua assunzione presso Hamil and Booth si iscrisse alla “Società per il diritto all’esistenza”, un mese più tardi acquistò dieci dollari di azioni della casa editrice “Era Nuova”, che diffondeva negli Stati Uniti ed in Europa la propaganda anarchica. La sua partecipazione agli affollati dibattiti politici che si tenevano al mercoledì sera all’Hotel Bertoldi’s fu subito assidua. Come testimoniano le lettere inviate al fratello Lorenzo in Italia, l’esperienza per lui del tutto nuova di poter esprimere le proprie opinioni e di confrontarsi con altri compagni senza temere né il carcere, né il confino lo entusiasmava.
La vivacità della comunità anarchica d’oltre oceano attirava personaggi di grande carisma come l’ideologo Errico Malatesta, discepolo di Michail Bakunin. Dopo la sua avventurosa fuga dal confino di Lampedusa nell’aprile del 1899, Malatesta riparò a Paterson, dove assunse la direzione del settimanale “La Questione Sociale”, ingaggiando una vivace polemica contro la corrente individualista del movimento anarchico, che si riconosceva nel foglio “L’Aurora”, diretto da Giuseppe Ciancabilla. Gli individualisti di Paterson dopo essere stati messi in difficoltà dall’abilità oratoria di Malatesta, che predicava la necessità di procedere ad una organizzazione del movimento anarchico, lasciando da parte la vana idealizzazione dell’impulso individuale come motore della lotta contro la tirannia borghese, organizzarono al Tivoli and Zucca’s Saloon di West Hoboken un confronto tra il direttore della “Questione Sociale” e quello dell’”Aurora”. Come nelle attese, il dibattito, a cui assistettero nel novembre del 1899 alcune centinaia di anarchici, per lo più italiani, si fece subito infuocato. Tra il pubblico, eccitato dall’oratoria violenta e rabbiosa di Ciancabilla, scoppiarono alcune zuffe, più volte furono rivolti contro gli oratori grida, sberleffi ed insulti, a nulla valsero gli inviti alla calma rivolti da Ferraris in veste di moderatore. Fu un crescendo di tensione bruscamente interrotto da due colpi di rivoltella, sparati dalla platea. Malatesta si accasciò sul palco ferito ad una gamba. Prima che l’attentatore, il barbiere ventenne Domenico Pazzaglia, potesse fare fuoco nuovamente, Bresci, convinto sostenitore della tesi individualista sostenuta da Ciancabilla, ma contrario al ricorso alla violenza tra compagni, gli strappò di mano la rivoltella e lo abbatté con un pugno al volto.

Benché Bresci fosse un militante appassionato del movimento anarchico, capace di rischiare senza esitazione la propria vita, come dimostra l’episodio della sparatoria al Tivoli and Zucca’s Saloon, mal si adattava al modello del rivoluzionario di professione, tracciato dal “Catechismo rivoluzionario” scritto nel 1869 congiuntamente dai padri del terrorismo anarchico, Bakunin e Nečaev, secondo cui: “Il rivoluzionario è un uomo votato. Non ha interessi personali, né affari, né sentimenti, né inclinazioni, né proprietà, nemmeno un nome. In lui tutto è assorbito da un interesse esclusivo, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione.”
Fin dagli anni della prima giovinezza a Prato Bresci non ebbe nulla dell’implacabile e disumano monaco guerriero vagheggiato dalla propaganda anarchica. Non fu mai un solitario, in ogni momento della sua vita da uomo liberò si circondò di amicizie maschili, come quelle strette a Paterson con il tessitore biellese Luigi Granotti ed il barbiere elbano Nicola Quintavalle, e femminili. Alla passione per la rivoluzione affiancò sempre il piacere di vestire con eleganza, tanto da meritarsi il soprannome di “paino”, damerino in toscano, la soddisfazione di coltivare interessi come la fotografia, che nulla avevano a che fare con la politica, e soprattutto la continua ricerca di avventure erotiche e sentimentali. Prima di lasciare l’Italia aveva stretto relazioni con alcune operaie dello stabilimento laniero di Ponte dell’Ania, presso Lucca, in cui lavorava. Nell’estate del 1897 da una di queste operaie, Assunta Righi, ebbe un figlio, a cui si limitò a garantire qualche sostegno economico. La donna, che aveva già avuto tre figli da suo marito, Pilade Pellegrini, emigrato negli Stati Uniti, fu accolta dalla famiglia Bresci a Coiano, dove rimase sino al 1899, quando il figlio avuto da Gaetano morì in tenera età. Bresci non vide mai, neppure in effigie, suo figlio che nacque dopo la sua partenza dall’Italia.
A Paterson oltre a frequentare convegni politici, con o senza sparatoria, Bresci partecipava volentieri ai picnic domenicali organizzati dai colleghi di lavoro nei boschi di Weehawken. Nell’aprile del 1898 in occasione di una di queste scampagnate conobbe Sophie Knieland, una bella ragazza irlandese, del tutto estranea agli ambienti anarchici, che lavorava come operaia alla Hamil and Booth. Il pretesto con cui l’avvicinò fu la richiesta di poterle fare un ritratto fotografico. Con i primi generosi salari americani il tessitore toscano si era concesso alcuni lussi: capi di abbigliamento di buon taglio, un anello d’oro con brillante, un orologio da taschino Roskoff con catena d’oro, un spilla da cravatta ornata da una pietra dura ed una costosa macchina fotografica portatile. Dopo quel primo ritratto campestre i due giovani iniziarono a frequentarsi e qualche mese più tardi, in agosto, presero in affitto un cottage a West Hoboken a pochi chilometri da Paterson. Durante la settimana per potersi recare più agevolmente al lavoro presso la Hamil and Booth, Bresci continuò ad alloggiare all’Hotel Bertoldi’s, il sabato raggiungeva a West Hoboken la sua Sophie, che nel marzo del 1899 gli diede una figlia a cui fu imposto il nome della nonna paterna, Maddalena.

Soldati in piazza Duomo a Milano, 1898

Soldati in piazza Duomo a Milano, 1898

A turbare l’idillio amoroso di Gaetano e Sophie giunse la notizia che all’inizio di maggio del 1898 a Milano l’esercito, al comando del generale di Corpo d’Armata Fiorenzo Bava Beccaris, aveva fatto fuoco sulla popolazione inerme che protestava contro il rincaro del prezzo del pane. Le barricate innalzate dagli insorti in vari punti della città erano state abbattute a cannonate. Il convento dei cappuccini di Monforte, sospettato di nascondere armi e di dare asilo ai rivoltosi, era stato espugnato dall’artiglieria. Insieme ai frati erano stati messi in catene alcune decine di derelitti che al momento del bombardamento si trovavano presso il convento per la quotidiana distribuzione della minestra. Né di armi, né di pericolosi rivoluzionari era stata trovata traccia.
Il bilancio dei quattro giorni di disordini, dal 6 al 9 maggio, era stato di almeno ottanta morti ed oltre quattrocentocinquanta feriti tra la popolazione. I caduti tra i soldati ed i poliziotti schierati erano stati due.
Sedata nel sangue quella che il governo guidato dal marchese Antonio Di Rudinì si ostinava, contro ogni evidenza, a considerare un tentativo di sovversione organizzata, erano stati ordinati centinaia di arresti, giornali di opposizione, circoli socialisti, Camere del Lavoro, Società di Mutuo Soccorso e persino comitati diocesani e parrocchiali erano stati soppressi. In virtù della proclamazione dello stato d’assedio, i tribunali militari avevano frettolosamente inflitto nella sola Milano oltre millequattrocento anni di carcere ai presunti nemici dello stato liberale unitario, repubblicani, radicali, socialisti, cattolici intransigenti ed anarchici. Meno di un mese dopo che il sangue dei milanesi era stato versato, Umberto I aveva deciso di ricompensare i servizi offerti alla Patria dal generale Bava Beccaris con il conferimento della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia. Una medaglia d’oro al Valor Militare e la nomina a senatore del regno avevano ribadito l’entusiastico apprezzamento dell’operato del generale piemontese da parte del re e del governo.
Tra gli anarchici italiani del New Jersey, alla pietà verso le vittime, per le quali furono organizzate collette, si mescolarono la rabbia e lo sdegno, infiammando propositi di vendetta contro il re sanguinario. Nel corso di un affollato meeting anarchico l’operaia biellese Ernestina Crivello offrì le sue grazie al coraggioso che avesse vendicato con il sangue le vittime di Milano. Il pubblico accolse con ovazioni la sua proposta.
Dagli Stati Uniti giunsero in Italia inquietanti segnali del diffondersi di un odio omicida tra gli emigrati. Nell’aprile del 1899, la regina Margherita ricevette una lettera proveniente da New York che la informava dell’esistenza di un complotto ordito da alcuni operai italiani per uccidere il re. L’anonimo informatore riferiva di aver assistito all’incontro di sei italiani di origine toscana per sorteggiare coloro che avrebbero dovuto giustiziare il re d’Italia e gli imperatori di Austria e Germania.

I revolver di Bresci

Il revolver di Bresci

Bresci si astenne dall’ostentare propositi di vendetta, anche se certamente la violenza della repressione dei moti di Milano lo sconvolse, come testimoniò Sophie che lo vide piangere ed imprecare contro il re. Qualunque fosse il suo reale stato d’animo, Bresci in pubblico ed in privato lo dissimulò abilmente nei mesi successivi, continuò a lavorare regolarmente ed a dividere il suo tempo libero tra Sophie, allora in gravidanza, e la frequentazione del suo circolo anarchico. Nel febbraio del 1900, quando sua figlia si accingeva a compiere il primo anno di vita, Bresci comunicò alla compagna l’intenzione di recarsi entro la fine dell’anno in Italia per spartire con i fratelli, Lorenzo ed Angelo, e la sorella, Teresa, l’eredità paterna. Della casa e di ciò che rimaneva del podere di Coiano in realtà gli importava ben poco, la sua mente era assorbita dalla vendetta che voleva mettere in atto. Il 27 febbraio, presso un emporio di Paterson acquistò per sette dollari, l’equivalente di metà del suo salario di una settimana, un revolver Harrington&Richardson modello Massachusetts. Nel mese successivo quella rivoltella divenne l’inseparabile compagna delle sue gite domenicali. Il tessitore pratese si esercitava contro bersagli improvvisati, suscitando tra amici e colleghi ammirazione per la precisione con cui metteva a segno i suoi proiettili. Già prima di emigrare nel New Jersey si era appassionato al tiro, nel 1896 a rientro dal confino a Lampedusa la sua richiesta del permesso di porto d’armi, nonostante i suoi precedenti penali, era stata accolta.
Alla fine di aprile lo sconto del cinquanta per cento concesso dalle navi francesi ai residenti negli Stati Uniti che volessero recarsi a visitare l’esposizione mondiale di Parigi offrì a Bresci una irripetibile occasione di realizzare il suo piano omicida, senza intaccare troppo i propri risparmi.
Alcuni mesi prima di partire per l’Italia Bresci aveva incominciato a disertare le riunioni anarchiche, poi si era dimesso dalla “Società per il diritto all”esistenza”, chiedendo anche il rimborso dei dieci dollari di azioni della casa editrice “Era Nuova” che aveva acquistato. Questa scelta di troncare i legami con il movimento anarchico era stata interpretata da alcuni compagni come un tradimento, rispondeva invece, come avrebbe spiegato lo stesso Bresci nel corso del suo processo, alla volontà di allontanare ogni sospetto di complicità. Forse per lo stesso motivo, lasciò Paterson senza salutare nessuno dei suoi compagni. Soltanto all’amico Gino Magnolfi inviò una lettera di scuse per la sua partenza precipitosa in cui gli raccomandò anche di vegliare in sua assenza su Sophie e sulla piccola Maddalena.

All’alba del 17 maggio Bresci si imbarcò a New York, con un biglietto di terza classe, pagato trentuno dollari, sul piroscafo “La Gascogne” diretto a Le Havre. Se prima di partire Bresci si comportò in modo schivo per evitare a conoscenti, amici e compagni una ingombrante accusa di complicità, una volta a bordo del “La Gascogne” abbandonò del tutto tale cautela. Durante la traversata di una decina di giorni trascorse gran parte del suo tempo in compagnia di due anarchici militanti, il barbiere Nicola Quintavalle ed il panettiere trentino Antonio Laner. Prima di salpare da New York Bresci e Laner probabilmente non si conoscevano, ma entrambi a Paterson frequentavano la barberia di Quintavalle, che a bordo del piroscafo diretto in Europa si incaricò di fare le presentazioni.
Al terzetto si unì, forse attratta dal fascino di Gaetano, un’operaia ventenne biellese, Emma Quazza, che per volere dei genitori, preoccupati della sua relazione con un giovane socialista, Camillo Cianfarra, redattore del giornale “Il Proletario”, stava rientrando in Italia da Paterson dove era emigrata con gli zii.
In viaggio Bresci oltre alla rivoltella si era portato anche la macchina fotografica, con cui prese decine di scatti, annotando su di un quadernetto gli indirizzi delle persone ritratte, in modo da poterle poi contattare una volta sviluppati i negativi. Nelle mani degli inquirenti quel quadernetto avrebbe fornito un lungo elenco di sospetti complici da interrogare.
Il 31 dello stesso mese di maggio, Luigi Granotti si imbarcò sul piroscafo “La Touraine” per accompagnare l’anziana madre malata che desiderava fare ritorno al suo paese natale, Sagliano Micca, non lontano da Biella. A Paterson, dove si era stabilito dal 1894, Luigi viveva con il fratello Giuseppe, sua moglie e sua madre, Teresa Bussetti, che aveva con la nuora rapporti piuttosto tesi, lavorava come tessitore presso la seteria Ashely. Come tanti altri emigrati italiani professava idee anarchiche e non negava il suo contributo al finanziamento del settimanale “La Questione Sociale”, di cui fu anche per un breve periodo cassiere. Bresci e Granotti si conoscevano, si frequentavano occasionalmente, ma probabilmente non erano intimi amici.

Sbarcati a Le Havre, Bresci, Laner, Quintavalle e la giovane Emma Quazza si diressero a Parigi, dove si fermarono otto giorni per visitare l’esposizione mondiale. I tre uomini si sistemarono in albergo, Emma invece fu ospitata in casa dei coniugi Brina, che Bresci aveva conosciuto a Paterson. In quella settimana parigina i quattro amici furono inseparabili e si godettero le bellezze della città, soprattutto Bresci e Laner non badarono a spese, mostrandosi premurosi e generosi verso Emma. Tutti insieme lasciarono la capitale francese per dividersi alla dogana di Modane, con la promessa di mantenersi in contatto epistolare. Bresci e Quintavalle proseguirono per Firenze, Laner ed Emma viaggiarono insieme sino a Torino.
Il 4 giugno Bresci giunse a Coiano dove poté riabbracciare suo fratello Lorenzo, che aveva una bottega da calzolaio e sua sorella Teresa, sposata con Augusto Marocci, che lavorava come falegname nella fabbrica tessile sorta sui terreni acquistati da un imprenditore tedesco dal padre di Gaetano, Gaspero Bresci. In quello stabilimento, chiamato dagli abitanti della zona “Il fabbricone”, Gaetano aveva iniziato a lavorare come apprendista tessitore all’età di undici anni, mentre frequentava la scuola domenicale d’Arti e Mestieri.
Gaetano era l’ultimo di quattro fratelli, con Teresa e soprattutto con Lorenzo, che condivideva la sua fede anarchica, aveva ottimi rapporti, invece al secondogenito, Angelo, che aveva intrapreso la carriera militare raggiungendo il grado di tenente, quasi non rivolgeva la parola da anni.
Durante il suo breve soggiorno in Toscana, ignorando ogni prudenza, Bresci non perse occasione per farsi notare. La seconda domenica di giugno partecipò a Sesto Fiorentino ai festeggiamenti per la rielezione del deputato socialista locale, Beppe Pescetti. Notando durante la festa un ragazzo che si divertiva a sparare ad un cartone con una pistola Flobert ad aria compressa, si vantò di poter infilare nel collo di una bottiglia almeno cinque proiettili su sei. Quella spacconata non passò inosservata e fu costretto a dare una dimostrazione. Esattamente come aveva predetto, Bresci centrò il collo di cinque bottiglie su sei.

In quei giorni, oltre a mettere in mostra la sua abilità nel tiro, Bresci si comportò come un qualunque emigrato in visita ai parenti, rivide vecchi amici, sbrigò presso la questura di Firenze le pratiche per il rinnovo del passaporto, rassicurò con una laconica lettera Sophie sul suo imminente ritorno negli Stati Uniti, si offrì di recarsi a Castel San Pietro, nei dintorni di Bologna, a prendere le figlie di sua sorella Teresa che si trovavano dalle zie paterne. Da circa un anno Teresa non era in piena salute ed aveva chiesto alle cognate di accudire le proprie figlie. Maddalena di sette anni era ospite di Maria Marocci e suo marito, Giuseppe Sassi, che gestivano a Castel San Pietro l’osteria Palazzina, Evelina di cinque anni viveva con Clementina Marocci e suo marito, Giuseppe Benoli, a pochi chilometri di distanza nella frazione Poggio.
Bresci giunse a Castel San Pietro il 30 giugno con un piccolo bagaglio a mano e la sua inseparabile macchina fotografica. Tutti notarono la sua eleganza, indossava un cappello scuro, sulla cravatta di seta aveva appuntata una spilla d’oro con brillante, i polsini della camicia erano ornati da gemelli con pietre dure, al dito portava un anello con brillanti e turchesi, sul gilet ostentava una magnifica catena d’oro da orologio. I racconti sulla sua vita negli Stati Uniti, sui generosi salari pagati agli operai specializzati, sulle meraviglie che aveva potuto vedere all’esposizione di Parigi incantarono i parenti ancor più del suo abbigliamento. Due album fotografici, uno intitolato “Le tour du Monde”, con duecento vedute delle bellezze del mondo, e l’altro “Panorama dell’Esposizione di Parigi” completarono i suoi racconti. Nella settimana trascorsa all’osteria Palazzina evitò con cura ogni accenno alla politica, visitò più volte la nipotina Evelina in frazione Poggio, scattò molte fotografie e fece vita ritirata. Una sola volta si recò in giornata a Bologna per incontrare un amico di cui non rivelò il nome a nessuno.
Nel corso di una delle serate passate giocando a carte all’osteria Palazzina Bresci conobbe Teresina Brugnoli, detta la “Rizzona”, una avvenente, quanto disinibita, commessa di un negozio di ombrelli. In più di una occasione trascorse la notte a casa della Brugnoli. I doveri famigliari gli imposero ben presto di interrompere i suoi svaghi amorosi. L’8 luglio Bresci partì da Castel San Pietro con le nipotine Maddalena ed Evelina per recarsi prima a Bologna, ad assistere all’inaugurazione del monumento a Garibaldi, e poi a Prato da sua sorella.
A Prato Bresci trovò ad attenderlo una lettera di Emma Quazza, a cui rispose in tono affettuoso e cortese il 12 luglio. Dopo averla rassicurata sulle sue condizioni di salute ed aver espresso il rammarico di non poter vivere in Italia, non riuscendo più ad adattarsi a condizioni di lavoro tanto misere, la informò che la cartolina ed il pacco che aveva spedito ad Antonio Laner al suo indirizzo di Torino gli erano stati rispediti dal servizio postale.
Appena una settimana dopo la loro separazione, Bresci da Prato inviò una lettera alla Brugnoli in cui le proponeva di rivedersi al più presto. Essendo analfabeta, Teresina si avvalse della collaborazione di una amica, Maria Passerini, per accettare con entusiasmo la proposta.
Prima di partire per andare a riabbracciare la sua focosa Teresina, Bresci ricevette da Andorno una busta contenente una copia de “La Stampa” di Torino del 15 luglio. Nell’articolo dedicato ai preparativi per la spedizione militare in Cina, veniva riferita come molto probabile l’intenzione del re di presenziare a Napoli, martedì 17 luglio, all’imbarco delle truppe al comando del Colonnello Garioni. Pertanto, il previsto trasferimento della coppia reale da Roma a Monza per la consueta villeggiatura sarebbe slittato di qualche giorno.
Una perizia condotta dagli inquirenti avrebbe attribuito a Granotti l’invio di quella pagina di giornale.

La sera del 18 luglio intorno alle ore 21, Bresci raggiunse, senza avvisare Maria Marocci e suo marito, a Castel San Pietro, si rifocillò con un mezzo litro di vino in un’osteria, poi raggiunse l’abitazione della Brugnoli, dove rimase tutta la notte ed il giorno successivo. Per evitare di farsi vedere in paese gli amanti incaricarono una bambina di nove anni, Augusta Zatina, di comprare per loro un po’ di provviste, pregandola di non dire a nessuno della sua missione. All’alba del 20 luglio presero il treno per Bologna, dove alloggiarono all’hotel Milan. Il giorno seguente, su carta intestata dell’hotel Bresci scrisse al fratello Lorenzo per avvisarlo del suo imminente rientro a Coiano, mercoledì o giovedì, in ogni caso prima di sabato 28 luglio.
E’ impossibile stabilire se Gaetano mentì deliberatamente al fratello, oppure cambiò improvvisamente i suoi programmi, quello stesso 21 luglio, quando ricevette un telegramma inviatogli con ogni probabilità da Luigi Granotti. Secondo la testimonianza della Brugnoli e dello stesso Bresci, il telegramma fu subito strappato dopo essere stato letto.
All’hotel Milan di Bologna Bresci fotografò una cameriera, Teresa Mainardi, a cui, qualche giorno dopo la sua partenza, inviò un ritratto ed una lettera in busta chiusa già affrancata con la preghiera di spedirla. La cameriera si limitò a constatare che la lettera non era indirizzata ad una donna, ma non memorizzò né l’indirizzo, né il destinatario.
Domenica 22 luglio Bresci prese congedo dalla Brugnoli a cui disse di essere atteso a Milano per affari. Accompagnò l’amante alla stazione si offrì di pagarle il biglietto di ritorno a Castel San Pietro, dove giunse in serata.
Tre giorni più tardi Teresina Brugnoli inviò al suo indirizzo di Coiano una lettera che Bresci non avrebbe mai letto: “Caro Gaetano, il mio viaggio fu buonissimo. (…) Prima che tu vada in America ricordati che ti voglio vederti ancora perché lo desidero tanto. Credo che non ti disturberà questa mia domanda. Perdonami ma è tanto l’amore che ti porto che mi sembrano già secoli che non ti abbia visto. Amami come ti ama sinceramente la tua aff. Tisa Brugnoli. Ricevi un bacio piano come uno di quelli che tu mi sgridavi.”
Bresci avrebbe voluto prendere il treno delle quattordici, ma lo perse e fu costretto a prendere quello delle diciotto. Anziché recarsi da Bologna direttamente a Milano, fece tappa a Piacenza, dove pernottò presso l’osteria “La stella d’oro”. Anche qui si fece notare per la sua eleganza i suoi modi cortesi e la sua passione per la fotografia. Il lunedì mattina, 23 luglio, inviò un telegramma a Granotti, in cui lo pregava di raggiungerlo a Milano e di dargli conferma dell’appuntamento scrivendo al Caffé Airoli, che si trovava a pochi passi dall’osteria piacentina in cui aveva pernottato. Intorno a mezzogiorno ricevette la risposta che stava attendendo.

Prima di partire per Milano, lunedì 23 luglio, Bresci trovò il tempo di comprare in un negozio un paio di scarpe gialle, che pagò undici Lire. Giunse a Milano intorno alle tre del pomeriggio, depositò la valigia alla stazione, si concesse una birra ed una passeggiata in Piazza Duomo, poi passò la notte in compagnia di una prostituta, che gli inquirenti non riuscirono ad identificare. Il giorno seguente senza l’aiuto di nessuno trovò una sistemazione presso i coniugi Ramella ed inviò un telegramma a Granotti comunicandogli il suo indirizzo, via San Pietro all’Orto, numero 4.
I due anarchici si incontrarono verso mezzogiorno di Mercoledì 25 luglio, quella sera divisero la stessa stanza presso i Ramella, la notte seguente Granotti trovò per sé un’altra sistemazione. Insieme partirono per Monza la mattina di venerdì 27 luglio.
Bresci dedicò la giornata di sabato 28 luglio ai preparativi dell’attentato che aveva in mente di compiere da molto tempo, raccolse informazioni e fece dei sopralluoghi. Intorno alle undici, prese una vettura e fece un giro per i viali del parco reale. Al vetturino, Enrico Casiraghi, rivolse alcune domande sulle abitudini del re e volle avvicinarsi quanto più possibile alle residenza reale. Pagò la corsa due Lire e mezza. Pranzò presso la pensione gestita dalla Cambiaghi in compagnia di un altro ospite, Angelo Del Savio, un meccanico ventisettenne di Treviso. Durante il pasto parlarono a lungo delle condizioni di vita e di lavoro in America. Bresci chiese informazioni sul saggio di ginnastica previsto per domenica sera e sulla partecipazione del re all’evento. In serata Bresci fu notato ad Avedano, un paese a cinque chilometri da Monza, in compagnia di una ragazza vestita con un abito di poco valore dai colori appariscenti.
Forse nel corso della giornata di sabato, Bresci completò i suoi preparativi intagliando con un paio di forbici le palle di piombo dei proiettili della sua rivoltella. Sapeva che Umberto I, dopo gli attentati subiti negli anni precedenti, era solito indossare una maglia d’acciaio in occasione delle sue apparizioni pubbliche, perciò intendeva provocare una frammentazione delle pallottole, capace di produrre ferite che avessero maggiori probabilità di essere letali.

Gaetano Bresci spara a Umberto I, di Flavio Costantini, 1974

Gaetano Bresci spara a Umberto I, di Flavio Costantini, 1974

Domenica 29 luglio Bresci dormì sino alle dieci, poi si lavò e di rasò con molta calma. Intorno alle undici e mezza Del Savio lo notò sul terrazzino della sua camera intento a pulirsi le unghie. Poco prima di mezzogiorno lasciò la pensione e si diresse verso una latteria in corso Milano, gestita da Maria Carenzi. La giornata era caldissima il termometro segnava trentasei gradi. Bresci ordinò un gelato alla crema, nel corso della giornata tornò almeno altre tre volte nella stessa latteria, una delle quali in compagnia di un uomo taciturno sulla trentina che potrebbe rispondere alla descrizione di Granotti. Nel tardo pomeriggio, la quarta volta che Bresci le ordinò un gelato la Carenzi fece un commento ironico sulla smania di rinfrescarsi del suo cliente ed ottenne in risposta un sorriso.
Il giorno dopo l’attentato “Il Corriere della Sera” pubblicò un articolo in cui venivano ricostruiti gli spostamenti del regicida a Monza. Il giornalista, che si firmava o.b., oltre alle testimonianze del proprietario del Caffé del Vapore, dell’affittacamere Cambiaghi e della lattaia Carenzi, raccolse anche quella di un anonimo commerciante di Monza che, dopo aver promesso di fornire quanto prima all’autorità giudiziaria una regolare deposizione, raccontò di aver incontrato nel pomeriggio di domenica 29 luglio, mentre passeggiava lungo un sentiero del parco reale, quattro individui seduti su di una panchina. Avevano vuotato tre fiaschi di vino e cantavano a squarciagola. Tre di essi gli parvero dall’accento toscani ed uno piemontese, tutti inframmezzavano i loro discorsi con parole inglesi. In colui che gli si fece incontro chiedendogli uno zolfanello il commerciante, dopo averne visto il ritratto sui giornali, volle riconoscere Bresci.
Il testimone che asseriva di aver visto l’allegra comitiva nel parco reale attese il 6 agosto per presentarsi alle autorità, rispetto alla versione rilasciata al “Corriere della Sera” apportò due modifiche rilevanti: spostò l’incontro al pomeriggio di venerdì 27 luglio, ed aggiunse di aver udito delle imprecazioni rivolte verso il palazzo reale.
Il 10 agosto la polizia si recò ad ispezionare il luogo del parco reale indicato dal testimone e trovò un paio di fiaschi rotti ed una scatola di sardine vuota. Sulle affermazioni poco attendibili del commerciante monzese, chiamato Emilio Pozzo o Emilio Parri a seconda delle fonti secondarie che abbiamo consultato, e sui pochi cocci di bottiglia trovati nel parco si fondano le ricostruzioni complottistiche del regicidio del 29 luglio, davvero troppo poco per considerarle credibili.
Come abbiamo visto Bresci impiegò gran parte del pomeriggio di venerdì 27 luglio a cercare una sistemazione per sé e per il “Biondino” ed è piuttosto improbabile che abbia sprecato il suo tempo a gozzovigliare insieme ad altri nel parco reale, a pochi passi dalla sua vittima designata. Quanto poi alle imprecazioni verso la residenza reale, sembrano una nota di colore eccessiva persino per gli attentatori più imprudenti e sprovveduti.
Non stupisce pertanto che gli inquirenti non abbiano dato alcun peso alla testimonianza resa dal commerciante monzese, né nel procedimento contro Bresci, né in quello successivo contro Granotti.

Mentre Bresci ingannava il tempo e la calura mangiando gelati alla crema, la sua vittima trascorreva serena le sue ultime ore di vita. Come sua abitudine il re si svegliò alle 7,30, fece colazione, poi uscì per una passeggiata a cavallo nel parco della villa reale. Era un uomo vigoroso di cinquantasei anni che regnava da oltre ventidue, soprattutto nell’ultimo decennio aveva affrontato con militaresca fermezza momenti politici molto difficili, lo scandalo della Banca Romana nel 1892, la sollevazione dei fasci siciliani nel 1894, la tragica sconfitta di Adua nel 1896, i moti di Milano del maggio 1898, l’ostruzionismo parlamentare del 1899, ed era sopravvissuto indenne a due attentati.
Agli albori del suo regno, nel novembre del 1878, un cuoco lucano disoccupato, Giovanni Passannante, si avventò sulla carrozza reale che attraversava tra fiori, bandiere ed acclamazioni festose le vie di Napoli, tentando di vibrargli una pugnalata. Umberto riuscì a schivare il fendente ed a colpire l’attentatore con il fodero della sua sciabola, Margherita gli lanciò un gran mazzo di fiori che le avevano appena donato le donne napoletane, il presidente del consiglio Benedetto Cairoli lo afferrò per i capelli riportando una lieve ferita alla coscia, prima che un ufficiale dei corazzieri lo tramortisse con una piattonata. L’attentato di Napoli non indebolì il desiderio dei sovrani di visitare le città grandi e piccole d’Italia, sottoponendosi a frequenti bagni di folla senza l’adozione di speciali misure di sicurezza. Un funzionario di polizia o un ufficiale a fianco della coppia reale era l’unica misura di sicurezza tollerata dal re che riteneva fosse suo preciso dovere presenziare alle cerimonie pubbliche mantenendo un atteggiamento spontaneo aperto e disponibile verso l’entusiasmo popolare.
In ogni parte d’Italia in occasione di terremoti, inondazioni ed epidemie le popolazioni colpite poterono sempre contare sulla presenza sollecita ed incoraggiante del sovrano che intendeva testimoniare vicinanza e senso del dovere. Non solo le calamità, ma anche le celebrazioni del Risorgimento, le visite di capi di stato stranieri, le esposizioni dedicate al progresso economico, le manifestazioni sportive e le numerose iniziative filantropiche patrocinate dalla corona spingevano Umberto a lasciare il Quirinale ed affrontare il rischio di un attentato, che concepiva come parte del mestiere di re. Talvolta amava esorcizzare il rischio a cui era esposto con una battuta di spirito. In occasione di un banchetto a corte Umberto invitò i suoi ospiti ad affrettarsi a mettersi a tavola, dicendo di aver sperimentato di persona di che cosa siano capaci i cuochi quando si spazientiscono.
Neppure il secondo attentato modificò l’atteggiamento fatalista e distaccato del sovrano. Nell’aprile del 1897 un fabbro romano ventiseienne, Pietro Acciarito, si scagliò armato di un pugnale, che aveva forgiato con le sue mani, sulla vettura reale nei pressi di Porta San Pancrazio a Roma. Umberto rimase illeso e, dando prova del suo sangue freddo, assistette come da programma alle corse ippiche organizzate quel giorno per celebrare il ventinovesimo anniversario del suo matrimonio.

(fine prima parte)

 

 

 

 

 

 

 

 

Per saperne di più

GIUSEPPE GALZERANO, Gaetano Bresci. Vita, attentato, processo, carcere e morte dell’anarchico che giustiziò Umberto I, Salerno Galzerano Editore, 2001.
ERIKA DIEMOZ, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Torino, Einaudi, 2011.
ARRIGO PETACCO, L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I, Milano, Mondadori, 2000.
PAOLO PASI, Ho ucciso un principio. Vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re, Milano, Elèuthera, 2014.
ROBERTO GREMMO, Gli anarchici che uccisero Umberto I. Gaetano Bresci, il “Biondino” e i tessitori biellesi di Paterson, Biella, Storia Ribelle, 2000.
FRIEDRICH ENGELS, PAUL LAFARGUE, KARL MARX, Anarchici e Marxisti. L’Alleanza della democrazia socialista e l’Associazione internazionale degli operai, Roma, Editori Riuniti, 1988.
UMBERTO LEVRA, Il colpo di stato della borghesia: la crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano, Feltrinelli, 1976.
RAFFAELE ROMANELLI, L’Italia liberale 1861-1900, Bologna, Il Mulino, 1990.
DENIS MACK SMITH, I Savoia re d’Italia, Milano, Rizzoli, 1990.
CARLO M. FIORENTINO, La corte dei Savoia (1849-1900), Bologna, Il Mulino, 2008.