Editoriale: Un luglio e un agosto tragici, senza eccezioni

di Paolo M. Di Stefano -

Coi tempi che corrono, tutto mi sarei aspettato meno che terminare l’agosto – e l’estate, quindi – ridendo. O quasi, poiché mi pare di poter dire che anche quel mezzo sorriso che suscita la polemica sul burkini possa esser considerato vestito di più di un qualcosa di amaro.
A me l’estate ha portato almeno una soddisfazione: vedere che il parletico è sempre in agguato e non perde occasione per ricordarci che parliamo e scriviamo troppo, e che la sintesi ormai è pura ombra. A meno che non si ricorra al parletico, del quale “burkini” è lemma forse ultimo nato. Cosa talmente importante, il burkini, che più di un sindaco francese ha ritenuto di dover intervenire e questo ha fatto nel massimo della tempestività. Per fortuna, notizie più recenti hanno segnalato come il Consiglio di Stato francese sia stato di parere diverso ed abbia provveduto a riportare la questione nei limiti che le sono propri.
Intanto, però, una certa Aheda Zanetti – che pare essere l’inventrice della tenuta – può crogiolarsi nella propria felicità: non avrebbe probabilmente mai supposto una pubblicità così efficace a livello mondiale e in fondo così poco costosa per un prodotto neppur tanto nuovo, a ben guardare.
Io sono abbastanza avanti negli anni per ricordare sulla spiaggia di Porto Potenza Picena un mio zio, dirigente di una banca a suo tempo celebre per la storia e per l’oculata gestione, prendere il sole in costume intero, rigorosamente nero, che lasciava scoperte le gambe da mezza coscia in giù e le braccia, con lo stesso criterio.
Non sono sicuro che presentasse anche un accenno di scollatura, ma la cosa non mi pare importante.
Questo a parte, le signore della buona società civilmente avanzata che potevano permettersi la villeggiatura al mare, non moltissimi anni fa si bagnavano completamente coperte, senza che per questo si pensasse ad un attentato alla sicurezza pubblica sulle spiagge.
Piuttosto, qualcuno dovrebbe occuparsi del ridicolo che il comportamento dei sindaci in questione ha versato sull’intero Paese, tanto che il “New York Times”, nella sua edizione internazionale, ha creduto opportuno segnalare che “la Francia individua la nuova minaccia alla sua sicurezza: il burkini”.
Naturalmente, qualcuno in Italia non ha perso l’occasione per adeguarsi, e altrettanto naturalmente in testa è il Governatore della Lombardia, il quale ha affermato più o meno che il proibire il burkini è un fatto culturale. Positivo, ovviamente. Che è verissimo, dal momento che per più di un politico la cultura è il portato dell’abbigliamento e non, come i più sprovveduti ritengono, il contrario.
La violazione alla cultura a mio parere viene dal fatto che la proibizione di quel “coso” innanzitutto viola senza ragione alcuna la libertà delle persone e, in più, denunzia confusione con il burka, la cui proibizione almeno nei luoghi pubblici e negli uffici risponde ad esigenze reali di riconoscibilità. Tutto il resto, a favore o contro, appare specioso. Si è parlato di antifemminismo, di anti islamismo, di appoggio al sedicente Stato islamico…
Balle. Al massimo, si sarebbe potuto sostenere – se si fosse trattato di una tenuta da mare nata dalle donne islamiche e comunque sostenuta dal Corano – che si tratta della dimostrazione di una sorta di arretratezza culturale, nel senso che, in materia, la strada da percorrere per adeguarsi alle tenute da spiaggia delle nostre donne è ancora lunga. Ma così non è: il burkini sembra essere inventato in Australia, e al più si potrebbe sostenere che si tratti di un passo indietro nella “evoluzione” dei costumi, oppure anche soltanto di una pausa di ripensamento, ammesso (e non concesso, almeno non più di tanto) che l’evoluzione consista nei centimetri di pelle scoperta, sulle spiagge e altrove. Più le signore si mostrano nude, più la civiltà è avanzata. Qualcosa mi induce a pensare che, forse, il coprire di più possa significare da un lato un ritorno al buon gusto, una limitazione al ridicolo e, dall’altro, una rivalutazione di quella sana curiosità che spingeva noi giovani a esplorare il corpo femminile prima con la fantasia e poi con la progressiva acquisizione della capacità di svelarlo con azioni più o meno dirette e più o meno palesi e, soprattutto, più o meno condivise e facilitate dalle donne stesse. Come una conquista, appagante più di un regalo.
Ma a questo punto, sulla via di Damasco di questa nota, sono stato colpito dalla satira preventiva scritta da un geniale Michele Serra, a pagina 29 de “L’Espresso” del 28 agosto e mi sono convinto che nessuno avrebbe potuto fare di meglio. Non certamente io.
Da qui, invito tutti a leggere ed a meditare quelle note.
Sulle quali, peraltro, non si esaurisce il “ridicolo di fine agosto”. Oppure è cosa seria quanto affermato da un noto “ritenuto politico” di destra, che ha fatto riferimento alla possibilità (opportunità?) di vietare il burkini anche sulle spiagge italiane?

Una estate piena di conferme di una decadenza forse irreversibile della nostra civiltà, anche resa evidente dalle intemperanze degli imbecilli che, sul monte Ventoux (mi pare), hanno costretto la maglia gialla a percorrere un pezzo di strada a piedi dopo averne provocato la caduta: una conferma che il significato dell’attributo “sportivo” ha assunto aspetti del tutto atipici, ormai, più che mai lontani dal suo vero significato di “praticante gare e esercizi compiuti individualmente o in gruppo come manifestazione agonistica o per svago o per sviluppare la forza e l’agilità del corpo” (Il Nuovo Zingarelli”). Non è cosa nuova che “lo sportivo” sia caratterizzato dal rimanere seduto in poltrona a casa (o al bar, per quelli socialmente più avanzati) a guardare l’evento (partita di calcio, gara automobilistica, corsa ciclistica o che altro), con amici, popcorn e birra ad imitazione della cultura americana trasmessa da tutti i mezzi in tutti i modi. Al massimo, qualcuno si procura un posto allo stadio e, tra quelli che lo fanno, non pochi entrano allo stadio solo per urlare e partecipare alla eventuale rissa, magari in verste di provocatori e protagonisti. Che ovviamente non è la stessa cosa del “praticare”, anche se più di qualcuno tende a far credere di aver preso parte attiva all’evento, utilizzando un “noi” quando si vince (soprattutto) ed un “loro” quando il risultato non è quello sperato. Come non è cosa nuova che i termini di sport e di tifo tendano oggi a coincidere, forse in un eccesso di democrazia. Il bello è che il dizionario indica il tifoso come “chi sostiene con fanatismo personaggi famosi o coltiva con eccessivo entusiasmo interessi di varia natura” (Il nuovo Zingarelli).
A me sembra che non a caso si parli di fanatismo e di eccesso: si tratta di due tra i peggiori attributi che caratterizzano la nostra civiltà, e che probabilmente sono tra le cause della sua decadenza.
E già mi pare di udire l’obbiezione “ma si tratta di piccolezze di nessun valore di fronte ai grandi problemi che abbiamo davanti”.
Solo che si tratta di uno degli effetti di ineducazione e di una formazione culturale carente, anche legata ad una concezione errata di quella “libertà” che ad ogni momento si invoca a giustificazione di tutto. E sia l’ineducazione che l’ignoranza sono cause prime di decadenza.
E dunque si può parlare di un tema non grande, gigantesco, alla base del vivere civile.
Ed anche di una indicazione inequivocabile di dove e come intervenire.

E che la guerra sia un portato della ignoranza e della ineducazione (anche e soprattutto) a me sembra generalmente accettato. Magari soltanto a parole, ma in genere condiviso, sopra tutto se si “fanno le debite eccezioni”, in forza delle quali intanto si distingue tra guerra ingiusta e guerra giusta e poi si ritiene che la guerra di cui siamo parte e che abbiamo provocata sia sempre giusta, mentre “i nemici” sono sempre e comunque aggressori e anche solo per questo dalla parte del torto.
E noi siamo in guerra: una guerra ormai annosa che investe tutto il pianeta e che pare avere, salvo le solite eccezioni, caratteristiche almeno in apparenza e almeno nelle analisi degli esperti molto diverse da quelle cui eravamo abituati quasi da sempre.
L’inesistenza di un nemico certo, per esempio, e dichiarato, e di almeno qualche regola destinata ad un minimo di protezione dei civili – da sempre ritenuti parte innocente e indifesa – e di garanzia per i prigionieri, i feriti e i soccombenti in genere.
Nulla di tutto questo. La guerra in corso non è chiaro da chi sia stata dichiarata (nessuno lo ha fatto prima dell’inizio: al massimo, se ne attribuisce ora il discutibile merito), e sembra anche avere un “perché” assolutamente incerto, sconosciuto ai più; e più evidente appare il ricorso a sistemi e tecniche e comportamenti che i popoli così detti civili ritenevano superati o almeno meno praticati. L’utilizzo di bambini e di giovanissimi, per esempio, addirittura addestrati dai padri e dai padri spinti a trasformarsi in kamikaze.
E in questo è possibile pensare sia un primo errore di valutazione. Noi tutti, popoli e nazioni avanzati e possessori di elevati gradi di civiltà sembra ci si sia cullati sulla possibilità di dar vita ad un “diritto di guerra”, più o meno accettato da tutti, come tutti i sistemi giuridici diretto a regolare il comportamento dei contendenti, in qualche modo a moderare gli effetti dell’uso della violenza e delle armi. Cosa di per sé difficile e dimostratasi oggi molto fragile, se non addirittura illusoria.
Questo forse perché la guerra è guerra, e il suo obbiettivo è quello di sopraffare il nemico, di vincere a tutti i costi e con ogni mezzo.

Di questa guerra, cercare i colpevoli è probabilmente, oltre che difficile, inutile. Che ovviamente non significa che non esistano responsabili: vuol dire solo che difficilmente riusciremo a trovarli ed a metterli in condizione di non nuocere. Allora, forse, potrebbe essere un’idea non malvagia quella di impiegare le risorse di cui si dispone per individuare dove sono le armi e chi le detiene, e per far sì che esse siano tolte dalla circolazione. E questo è possibile fare procedendo a perquisizioni a tappeto, requisendo tutto ciò che è classificabile come “arma”, senza eccezioni, e dunque da un lato smontando quell’arsenale diffuso e ricco al quale si attinge e non solo da parte dei terroristi, dall’altro individuando trafficanti, detentori e utilizzatori da mettere in condizione di non nuocere e da punire immediatamente. Noi disponiamo di forze armate in grado di condurre efficacemente un’operazione del genere, alla quale sarebbe opportuno fosse affiancata una attività legislativa diretta a bloccare la produzione e la vendita di armi di ogni genere. A cominciare dalle “armi proprie” da fuoco e non. L’Europa dispone di una classificazione delle armi abbastanza affidabile, a mio avviso, e comunque tale da consentirne l’individuazione e il sequestro. Tra i vantaggi, non di secondo momento quello di avere la possibilità di infliggere anche colpi durissimi alle mafie di ogni natura.
Certamente potrà trattarsi di poco più di un primo passo, anche perché la storia e il presente dimostrano che tutto può essere usato come arma per colpire e uccidere.

Nizza

Nizza

L’arma usata a Nizza è stata un camion. Non c’è limite alla fantasia, come non ce n’è alla imbecillità, e l’attentatore che sulla Promenade des Anglais – a Nizza, appunto – ha guidato un camion contro la gente mietendo vittime è una delle tante prove che l’essere imbecilli non vuol dire non avere fantasia. Era il 14 luglio, e il tunisino alla guida del camion si è lanciato sulla folla che assisteva allo spettacolo dei fuochi di artificio, provocando una ottantina di morti prima di essere ucciso dalla polizia.
Colti di sorpresa, gli amministratori della città hanno tentato di accreditare un’attenzione assente quasi del tutto, ulteriore dimostrazione che la burocrazia è eguale dappertutto: pensa innanzitutto a se stessa e ad autogiustificarsi, persino in una Francia dove esiste una scuola specializzata nella formazione del personale pubblico e dove da sempre si persegue l’efficienza di quel “pubblico” al servizio della comunità.
Il che la dice lunga anche su quel “cosa fare” che pare assolutamente nebuloso.
Che è poi cosa più semplice di quanto possa non apparire: attuare il detto (forse francescano, forse di don Bosco, più probabilmente di origine ignota) che recita che il meglio è nemico del bene, e dunque non rinunziare perché non si riesce a descrivere con certezza l’universo delle armi, ma agire con decisione su ciò che si conosce.
Significa: è vero che tutto può diventare arma, ma intanto cerchiamo di bloccare il mondo delle armi proprie e di coloro che ne fanno uso. Da cosa nasce cosa, dicevano i saggi, quando ancora qualcuno ve n’era…

I fatti di agosto in Turchia mi hanno riportato alla mente un antico ricordo: un collega di studio all’università – un piccolo turco di grandissima simpatia – ebbe a dirmi che “la guerra è il modo più rapido per mettere in contatto le civiltà, e dunque per l’evoluzione dei popoli e delle nazioni”. E dal momento che la guerra è per antonomasia violenza senza limiti, significava che il ricorso alla “costrizione” di tutti i tipi è il modo più rapido per ottenere i risultati voluti.
La vittoria militare, ad esempio, è sempre stata una delle fonti del diritto vigente in tempo di pace, e i sistemi giuridici sono sempre stati espressione (anche) della volontà e degli interessi dei vincitori: in apparenza almeno, buona argomentazione di vendita di una violenza diretta al miglioramento della società.
Che è un falso clamoroso. La violenza di qualsiasi natura non è mai stata in sé mezzo di evoluzione della vita sociale: la cultura e la qualità di vita della società si sono evolute soltanto di fronte ad una accettazione libera e volontaria e in proporzione al grado di questa.
La violenza nella migliore delle ipotesi è servita a prolungare almeno in apparenza i vantaggi del più forte, in una con il rafforzare il desiderio di resistenza e di ribellione da parte dei sottomessi del momento. E i fatti agostani della Turchia, con il (falso?) colpo di Stato contro Erdogan dovrebbero forse indurci ad analizzare la reazione del Padrone in modo diverso: se l’è presa e continua a prendersela con tutti indistintamente fino a svuotare le prigioni dai condannati per reati comuni pur di mettere in condizione di non nuocere professori universitari e non, impiegati dello Stato, giornalisti, militari, comuni mortali, medici e professionisti diversi, (…) segregandoli al loro posto. Una reazione che a mio parere dimostra che il regime è ormai alla frutta, come è sempre stato quando le dittature hanno puntato sull’uso della forza. È solo una questione di tempo.
Purtroppo, un tempo che mieterà vittime sempre più numerose.

E l’agosto si chiude con il devastante terremoto che ha investito l’Italia centrale e che ha in pratica cancellato paesi di antica bellezza. ÈE’ cominciato il balletto – che sarà infinito – della ricerca e del rimpallo delle responsabilità, oltre a quello intriso di polemiche le più diverse sui modi e sui tempi della ricostruzione.
Che è o dovrebbe essere materia imprescindibile della Politica.
E anche per ragioni di spazio, dedichiamo a questo argomento la Cattedra, profittandone per accennare ad alcune considerazioni forse non del tutto peregrine.