Editoriale: Si salverà Aleppo? Forse che sì, forse che no

di Paolo Maria Di Stefano -

Che l’Italia viva di storia, di ricordi e di leggende metropolitane è un fatto. Non a caso noi siamo un popolo di eroi per aver vinto la terza guerra punica; di navigatori, per avere scoperto l’America in due riprese – Colombo Cristoforo e Vespucci Amerigo – a spese altrui; e di poeti per aver accettato di dare una mano ai toscani nel vantarsi a titolo collettivo del lavoro di un certo Durante di Alighiero degli Alighieri meglio noto come Dante e, per suo tramite, di aver inventato l’italiano. Che peraltro, ai tempi del poeta null’altro era se non una corruzione del latino ad uso e consumo dei fiorentini (e forse anche di altri toscani) e a tutto poteva far pensare meno che ad una Italia che non esisteva. E che tutto sommato sembra non esistere ancora all’alba del settecentesimo anno da quel “Nel mezzo del cammin di nostra vita” che apre la Commedia.
Endecasillabo, questo, preceduto da una epigrafe significativa: “Incipit comedia Dantis Alagherii florentini natione non moribus”.
Cosa è l’umano destino: un uomo che rifiuta i costumi (e quindi almeno in gran parte la cultura) di Firenze, costretto ad esser venduto in tutto il mondo come l’esempio massimo della grandezza della città e della Toscana tutta! Con in più, serie probabilità di esser chiamato a rappresentare l’intero pianeta.
Con grande soddisfazione dei toscani tutti e dei fiorentini in particolare, i quali non nutrono dubbio alcuno sulla propria grandezza e dunque anche su diritti di primazia in ogni settore della vita umana.
Compreso quello della lettura del futuro!
“Oh che te tu credi?” – mi sono sentito dire da uno di loro – “o che te tu un lo sai mi’a che il Dante l’è un veggente? Gli ha previsto tutto, anche il mondo di là.”
E giù un fiume di parole – scarse di “c “– dirette ad arricchire, illustrandola, la straripante letteratura in materia di Pape Satan con quel che segue, non senza ribadire più d’una delle miliardi di opinioni in merito. Tra queste, che “Pape” sarebbe una volgarizzazione toscana del francese “pas paix”, e dunque significante un invito a Satan di “non pace”. Per quanto concerne “Aleppe”, il mio interlocutore suggerisce trattarsi di una altrettanto toscana volgarizzazione del greco Aleptos”, “invincibile”, che potrebbe anche essere l’etimologia di Aleppo, la città siriana patrimonio dell’umanità con i suoi cinquemila anni di storia, ormai distrutta dalle buone intenzioni di siriani fedeli ad Assad, siriani che ad Assad si oppongono, russi che aiutano il dittatore a mantenere il suo ordine, americani che la pensano diversamente, fabbricanti e fornitori di armi che finché c’è guerra c’è speranza. E ricchezza. Non a caso, a proposito della ricchezza, Dante fa parlare Pluto, che della ricchezza da sempre e sotto tutti i cieli è ritenuto il Dio protettore.
E tornando al dantesco “aleppe”, è probabile che tra le cose eccezionali fatte da frate Francesco da Minervino proprio a Firenze, Aleppo si sia mutato nel pugliese “Aleppe” e Dante lo abbia adottato nel suo poema, complicandone l’interpretazione anche in virtù di un refuso che ha lasciato l’iniziale minuscola.
Più che a sufficienza per sostenere che quel Dante lì aveva previsto il dramma di Aleppo con qualche centinaia di anni in anticipo, così anche guadagnandosi un posto tra i veggenti e, per di più, consentendo ai toscani tutti ed ai fiorentini in particolare di sostenere una superiorità innata su tutti, popoli e genti e nazioni.
Quella stessa che giustifica la conquista e l’esercizio del potere politico (e non solo) in Italia.
Che altro non è se non l’attuazione della legge del “Perché? Perché sì”, e la risposta alla domanda annosa “perché in Italia i toscani sono così tanto presenti nei posti di potere?

Che è, la legge del “perché? Perché sì”, la ragione ultima da sempre e in questi giorni con particolare insistenza invocata per una serie importante di provvedimenti che il Governo pone alla base della ripresa economica e sociale del nostro Paese e, quando e se del caso, dell’Europa e dell’intero mondo definito “di civiltà avanzata”. Come “perché avanzata!?” Perché sì. Ed anche dalle opposizioni le quali, intanto, si oppongono a prescindere e, poi, con essa giustificano le opposizioni settoriali.
Perché dici di no? Perché sì; oppure, perché approvi? Perché sì.
Una attenta elaborazione teorica ha recentemente condotto al riconoscimento della sostanziale equivalenza tra “Perché, perché sì” con quel “Perché, perché no” attorno al quale si svolge il poema moderno “Vengo anch’io”, peraltro capolavoro ineguagliato di sintesi e dunque agli antipodi dello scritto dantesco.
Il che, tra le altre cose, la dice lunga sulle tecniche toscane, vincenti per lo più perché in grado di sommergere chiunque con un flusso di parole inarrestabile, costringendo l’interlocutore alla resa per stanchezza.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.

La rinuncia di Roma alle Olimpiadi è uno di questi. Con in più che viene da un movimento (partito? accozzaglia? gruppuscolo? salotto di nuovi intellettuali rumorosi?) che ha fatto del “No” il proprio sintetico e chiarissimo credo, opponendosi a tutto. Perché questa opposizione? Perché sì, è ovvio. Che è o sembra essere la stessa risposta del suo capo, un comico un tempo di successo e simpatico e bravo anche, alla domanda “perché hai annullato il passo di lato e sei tornato al centro del movimento?” “Perché sì”.
La ragione apparente starebbe nel pericolo che da un evento come le olimpiadi ladri e corrotti e mafie avrebbero tratto guadagni ingentissimi, a spese dei cittadini. La ragione vera sembra inconfessabile: i politici e gli amministratori del movimento non si sentono in grado di controllare la disonestà diffusa privata e pubblica e dunque di combatterla e di evitarla. Sarebbe come ammettere che non si sa fare Politica. Conoscete voi un qualsiasi politico disposto ad ammettere di essere incapace a “fare politica”? Che rappresenterebbe l’ipotesi migliore, giacché nella peggiore significherebbe che non si è in grado di distinguere la disonestà dalla onestà.
Che non sarebbe poi cosa del tutto campata per aria.

Il ponte sullo stretto di Messina è un altro esempio: il Presidente del Consiglio lo ha rimesso in gioco – almeno verbalmente – negli ultimi giorni di un settembre non esaltante e, sopra tutto, non facile sia per la politica che per l’economia. Le ragioni in qualche modo dichiarate sono almeno due: le Grandi Opere danno prestigio all’Italia e la costruzione del ponte creerebbe almeno centomila posti di lavoro.
Inutile, io credo, ricordare che il prestigio, l’immagine contano soltanto se investono la cultura nella sua totalità: il ponte di Brooklyn non è né causa unica e neppure causa determinante dell’immagine degli USA nel mondo, bensì solo una componente. Così come non lo è per la Russia la metropolitana di Mosca.
E via dicendo.
Allora, forse, bisognerebbe meditare a fondo sulla immagine “culturale” del nostro Paese, in pieno declino per una serie infinita di motivi, ai quali la viabilità nell’intero meridione e segnatamente in Sicilia non è estranea. Prima di proporre un ponte ad una campata di più di tre chilometri tra due sponde che sembra si allontanino di qualche centimetro ogni anno – e che a mio parere non si farà mai – non sarebbe buona e commendevole cosa occuparsi delle infrastrutture necessarie alla “normale” mobilità nell’intero Paese e della Sicilia in particolare? E di completare le numerose opere abbandonate nell’isola? Non lo sarebbe, il caso? No? Ma perché? Perché no.
Quanto ai centomila posti di lavoro… Non è forse vero che se si procedesse al “riordino” di quanto esiste di incompiuto e di incongruo in Sicilia (e, ripeto, non solo), si creerebbero posti di lavoro? Forse non centomila, ma certamente molti. E i risultati sarebbero positivi con buona certezza. Non è forse vero e quasi certamente previsione più affidabile di quella dei centomila posti? No? Ma perché? Perché no.

Ai danni attribuiti ai terremoti negli ultimi anni in quasi tutta l’Italia, in Sicilia come in Abruzzo, nelle Marche, nel Lazio, in Umbria non si potrebbe in qualche modo porre un minimo di rimedio dirottando (anche) i fondi previsti per la costruzione del ponte? E il farlo non creerebbe posti di lavoro? E non si potrebbe immaginare un sistema di manutenzione del territorio (e delle costruzioni e dei monumenti ed delle opere d’arte) in grado non di prevedere i terremoti, ma certamente di limitarne i danni? E obbligare a costruire con quei seri criteri antisismici di cui non mancano esempi nel mondo in una con l’istituire un sistema di controllo su ogni e qualsiasi intervento umano, causa prima di quei danni? Non si potrebbe, ad esempio, impedire l’uso del polistirolo al posto del cemento armato? E non si potrebbe, sempre per esempio, intervenire nella produzione di quest’ ultimo in modo che non si riveli sabbia appena mascherata? No? Ma perché? Perché no.
E soprattutto: dopo ogni terremoto non si perde occasione per rassicurare gli abitanti delle località distrutte che tutto sarà ricostruito come era e dove era. Certo, in tempi non brevissimi, ma tutto tornerà come prima. Intanto, ci si rassegni a passare il tempo che è necessario nelle tende, sapendo che tra sette-otto mesi saranno pronte casette di legno più confortevoli, nelle quali ci si potrà persino curare delle polmoniti guadagnate nell’inverno imminente…
Certo, le promesse la Politica deve farle. Perché? Perché sì. Altrimenti, che Politica sarebbe? E deve anche mantenerle? No. Perché? Perché no. Altrimenti, che Politica sarebbe?

 “Perché si” e “perché no” sembrano esprimere l’identica posizione ideologica, filosofica e morale.
E se la giocano alla grande nelle campagne a favore o contro le proposte del Governo per l’ormai imminente referendum sulla modifica alla Costituzione. Anche rivelando qualcosa di insospettato o quasi: forse, quel “perché sì” e quel “perché no” sono in realtà il massimo della sintesi di contenuti probabilmente ignorati da chi usa quelle espressioni. Quasi certamente, dai Politici.
In Cattedra qualcosa in più.