Editoriale: Quando la cultura è solo ombra…

di Paolo M. di Stefano -

Papa Francesco ha espresso con la chiarezza che gli è propria la preoccupazione che l’individuo sia in qualche modo messo da parte da una priorità assoluta degli interessi di quella “generalità” che è costituita dall’insieme di tutte le individualità. Nessuna esclusa.
Una cosa è certa (ed è forse l’unica) in quella che noi continuiamo a chiamare Politica: esiste una cortina di ferro tra le enunciazioni dei politici, di qualsiasi parte essi siano e a qualsiasi livello appartengano, ivi compreso il “fare”, e la gestione della cosa pubblica nell’interesse della gente. Che significa, poi, assolvere la funzione principale di qualsiasi organizzazione, non soltanto quella dello Stato: soddisfare al meglio i bisogni “pubblici” (che sono quelli dell’organizzazione stessa) secondo un’affidabile scala di priorità.
Io credo che il Pontefice abbia soltanto – si fa per dire! – affermato il concetto che il perseguire il benessere della società (che dovrebbe essere l’anima della Politica) significa operare per il benessere dell’individuo, di ciascun individuo, senza il quale il benessere della società rimane pura utopia.
Molto grossolanamente, “benessere” può esser definito come “livello soddisfacente di cancellazione dei gradi di penosità di quello stato di insoddisfazione che chiamiamo bisogno”.
A livello individuale – e dunque dei bisogni dell’individuo e dell’intensità di ciascuno di essi – vuol dire che sarebbe sbagliato attendersi da una “comunità” la soddisfazione piena, e quindi la cancellazione dei bisogni di ogni singola persona.
Non è che non sia possibile: è assolutamente insensato.
Allora, dal momento che l’architettura di ogni singolo bisogno è il risultato della cultura del suo portatore, appare necessario (oltre che opportuno) “educare” ciascun individuo a “disegnare” il proprio bisogno alla luce dei bisogni degli altri.
Che è l’essenza prima della libertà.
E la stessa cosa bisogna sia fatta a livello di “attività” e quindi di azioni messe in atto per procurarsi i beni e i servizi adatti a soddisfare ogni singolo bisogno.
Che è “il concretarsi” della libertà.
Perché “la società” è disegnata dai bisogni di cui è portatrice in quanto soggetto autonomo e dai modi in cui essa si attiva per soddisfarli.
E lo Stato, “società per eccellenza”, esattamente come accade per ogni singolo individuo, “disegna” i propri bisogni e le attività dirette alla soddisfazione di ognuno di essi in base alla cultura di cui è portatore.
In Italia – ma, purtroppo, non solo in Italia – non c’è chiarezza sulla natura e sulla scala dei bisogni di quello che chiamiamo Stato.
Sarebbe compito dei “politici” progettare e costruire lo Stato. E lo Stato null’altro è se non una “scala di bisogni” costruita sulla base di quelli dei suoi componenti e assunti come propri del soggetto “Stato”.
Ma i politici non sono in grado di farlo, dal momento che la loro azione parte dalla volontà di affermare l’individualità propria, poi quella della propria famiglia, poi quella dei clientes e dei sodali, e di fare tutto questo “contro” e non “assieme” alle altre parti attive, che si muovono nella stessa direzione (soddisfare bisogni propri) e con gli stessi sistemi.
Di più: che l’individuo conosca “bene” se stesso è tutto da dimostrare.
Figuriamoci quando gli si chiede di “conoscere” gli altri, di “progettare” l’insieme.
E di farlo insieme.

Piove, Governo ladro! A Genova. Sotto una pioggia torrenziale, quattro torrenti si sono accordati per rivendicare il diritto a scorrere liberamente verso quel mare che li aspetta da sempre e che da sempre sopporta lo scarico di tutto ciò che le acque trascinano, quasi a premiare lo sforzo di superare le costrizioni di argini non naturali e le privazioni d’aria e di luce che l’interramento comporta.
Qualcuno sostiene che la natura non pensa, e quindi non è in grado di apprezzare la libertà. E tanto meno di concordare azioni coerenti con la sua affermazione.
Sarà anche vero, ma è certo che la natura offesa e imprigionata presto o tardi si libera e si vendica.
E per farlo sceglie l’occasione propizia e usa tutta la forza di cui è capace.
La storia, e la cronaca – che della storia è un seme – lo hanno ampiamente dimostrato.
Così confermando, qualora ce ne fosse bisogno, oltre un egoismo degli uomini che non ha confini, l’incapacità di apprendimento e i processi assolutamente illogici di troppi dei nostri ragionamenti, portati ad affermazioni di principio –in genere indimostrate – e alla ricerca di colpevoli “altri da noi”.
“Piove, Governo ladro” significa che le autorità competenti indirizzano i fondi destinati a risolvere i problemi della gente ad altri fini, in genere di guadagno personale. Non si tratta, quindi, dell’espressione di un generico malcontento e di una altrettanto generica valutazione negativa, quanto della denuncia precisa dell’azione truffaldina di gente che si appropria di risorse destinate altrove o, anche, che non le usa perché il farlo sarebbe troppo impegnativo e il risultato potrebbe essere utilizzato contro di loro.

Dopo gli ultimi fatti di Genova, per la terza o la quarta volta in tre anni invasa dall’acqua dei suoi torrenti, l’antico adagio pare essere stato rivisitato in questo: “piove, burocrazia ladra e incapace”.
Così, quella astrazione chiamata burocrazia è caricata di responsabilità che, invece, sono in capo a ciascuno ed a tutti noi.

A cominciare proprio dalla burocrazia stessa in quanto “organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità”, divenuta “sinonimo di corruttela, arbitrio, intrallazzo, cospirazione, financo omicidio: ben lontani dunque dall’idealizzazione impersonale di rettitudine elaborata molti secoli più tardi”. Così, Wikipedia alla voce burocrazia, anche citando Tacito che, nei suoi Annales, parla dei proto-burocrati Pallante, Narciso e Callisto, i liberti cui l’imperatore Claudio aveva affidato i diversi uffici, come di persone che “esercitavano poteri regali con animo di schiavi”.

Il bello è che non sembra esserci alcun bisogno di scomodare l’antica Roma, patria del nostro diritto e della nostra cultura e civiltà, cose peraltro tutte ormai passate al dimenticatoio: basta ricordare che “la burocrazia” impersona l’organizzazione dello Stato ed è “disegnata” in ogni suo aspetto dalle leggi che sono il frutto dell’attività illuminata, professionale e finalizzata del nostro Parlamento.
Che significa: se la burocrazia riesce a mettere in cima agli obbiettivi la propria sopravvivenza e la sicurezza dei propri organi, è perché le leggi che la strutturano e la governano hanno più di una pecca. Ed è quindi quanto meno improbabile che si riesca a correggere i guasti provocati (anche) dalla burocrazia senza mettere mano alla sua struttura, alle sue competenze, alle sue garanzie.
Che significa mettere mano alla (ri)organizzazione dello Stato.
Che non è, la riorganizzazione, un problema di interventi spot più o meno coerenti e più o meno coordinati (in genere, meno): occorre ridisegnare la persona “Stato”, costruire un modello al quale ispirarsi per la gestione di tutti gli scambi di cui lo Stato è soggetto attivo e dunque per le attività legislative, quelle giudiziarie e quelle “economiche”.

Certo è che Genova – e con la Superba, tutte le altre città di questa nostra Italia incancrenita da secoli di pessima politica e, per quanto riguarda gli uomini, da anni di attività di politici e di imprenditori altrettanto pessimi, in progressivo e continuo degrado culturale e morale – certo è che Genova non può aspettare: occorre “fare” e “farlo subito”.

Con le leggi, che significa con le strutture, esistenti.

A Napoli un ragazzino è stato “punito” perché troppo grasso da tre uomini che hanno tentato di gonfiarlo ulteriormente utilizzando un compressore. Gesto idiota e criminale, forse più idiota che criminale, commesso da criminali idioti.
Che non ostante tutto non è la cosa peggiore.
Un intero popolo di antica e colta civiltà – quello napoletano – è stato insultato dai parenti dell’idiota i quali lo giustificano con convinzione: ha scherzato. E, secondo loro, non c’è nessuna legge che punisca uno scherzo, per quanto idiota esso sia, e uno scherzo non può essere qualificato come un tentativo di omicidio. Così dicono, loro, i parenti degli imbecilli. I quali parenti, forse, dovrebbero essere incriminati per questo tipo di atteggiamento. E puniti.
Ripeto: un’intera popolazione, quella napoletana, vede la propria immagine, già compromessa dalla diffusa tendenza a far corpo unico quando si tratti di difendere teppistelli da strapazzo (e non solo) dall’intervento delle forze dell’ordine, peggiorare alla grande. Perché non si ribella? Che si sia veramente perso il senso dell’umanità, dell’etica, e delle responsabilità degli educatori?

E, naturalmente, occorre “ridisegnare” il progetto formativo e culturale, perché soltanto in forza del “sentire” di ogni individuo, e della cultura di ciascuno di noi, si può sperare che il legislatore sia in grado di produrre buone leggi, che l’interpretazione delle quali sia univoca e certa; che la prevalenza dei comportamenti sia vestito di etica e di senso della comunità.
E via di seguito, quasi all’infinito.

Quanto all’oggi – che, si dice, non può attendere più che tanto – che fare?
E’ certa l’esistenza di problemi che vanno risolti nell’immediato, e i due che sono stati occasione di questa nota sono tra questi.

Bene: occorre, forse coraggio e freddezza.
Per i fatti di Napoli (ma, attenzione: non è la sola città in cui accadono cose simili o assimilabili a questa) intanto da un lato i giudici devono applicare le leggi che esistono per punire in modo esemplare sia gli autori materiali dello “scherzo” sia i loro sostenitori. A mio parere, “le leggi son ed anche è chi pon mano ad esse” (o almeno dovrebbe farlo): si tratta forse solo di renderle più chiare e certe e di rapida applicazione. Dall’altro, chi ha detto che una cultura come quella evidenziata a Napoli non imponga quelle “leggi eccezionali” che, se ben strutturate, potrebbero almeno in parte correggere le debolezze della legislazione vigente?

E a questo punto si impone una nota.

Per i fatti di Genova…
Per quello che è accaduto a Genova, oltre al già detto, mi pare sia opportuno ricordare che c’è stato immediatamente chi ha provato a cavalcare il diluvio, e questo ha fatto proprio seguendo il principio del “piove governo ladro”. A forza di urla e di parolacce – cose, peraltro, consuete ed espressione di una cultura ben precisa ed individuata – e ragionando in termini di governo ladro, quindi da punire (così, non pioverà più!) si è invocato anche l’intervento dell’esercito per far cadere il Governo e perseguire la più o meno immediata abolizione del Parlamento (proposta, questa, forse meno sbagliata di quanto possa non apparire).
A me una cosa sembra certa: reagire alle bombe d’acqua, alle inondazioni e ai danni che ne seguono cercando di superare con le urla e il turpiloquio il fragore dei crolli e degli scrosci d’acqua non serve ad altro che a “caricare” gli sprovveduti facendo appello a istinti primordiali che il nostro tipo di cultura dovrebbe aver messo all’angolo. Come dovrebbe aver fatto con ogni aspetto della violenza. Tanto lo ha fatto, che sono balzati in evidenza i punti deboli della democrazia, costituiti proprio dal rispetto per le opinioni altrui, dall’uso dei mezzi di convincimento attraverso il colloquio e la condivisione, dalla consapevolezza di cosa sia realmente la libertà… Tutti aspetti che consentono ai violenti di dare sfogo ai propri istinti.
Che, guarda caso!, non sono quelli di correre in aiuto e di dare una mano alla individuazione ed alla soluzione dei problemi, bensì solo di utilizzare “il bene della nazione” quale argomentazione di vendita per meglio perseguire interessi propri.
Allora, forse, una democrazia che utilizzi il principio di autorità ispirandosi a valori etici, morali, sociali…
E soprattutto di persone consapevoli e professionalmente preparate, se ancora sono reperibili in questo nostro non proprio fortunato Paese.

Il femminicidio ha avuto una parte da protagonista, a ottobre, in questo seguito dall’omicidio stradale. E, naturalmente, la comunicazione in ogni sua forma ed espressione ha dedicato amplissimo spazio a questo orrendo risultato dell’imbecillità dell’uomo.
A me un dubbio è sorto.
Che il femminicidio sia solo un argomento per distrarre l’opinione pubblica dall’incapacità dei nostri politici e dei nostri legislatori?
E’ ovvio che io possa sbagliare, ma a me sembra che nell’assoluta ricchezza delle leggi che regolano la vita di ciascuno di noi siano più che previsti tutti quei comportamenti che concorrono, oggi, a formare il concetto di “femminicidio”. Non basterebbe emanare una legge di appena una riga che abolisca ogni e qualsiasi attenuante quando la vittima dei comportamenti sia una donna, magari anche stabilendo una pena più alta quando l’evento si verifica? L’articolo 575 del codice penale vigente è uno dei pochi a non lasciare spazio particolare all’interpretazione, e tutta la legislazione in materia (art.584, art.589…) analizza in pratica ogni possibile combinazione tra dolo, colpa, preterintenzione, rapporto tra le volontà dei soggetti attivi e passivi, rapporti di parentela, età, e via dicendo. Forse, non c’è la distinzione tra uomo e donna (segnatamente quanto alle vittime) e neppure tra arma propria o impropria, da un lato, e veicolo quanto ai “mezzi” usati per uccidere. E allora, non sarebbe sufficiente ragionare in termini di “la pena viene aumentata di XY quando la vittima sia una donna e quando l’omicidio sia commesso da un soggetto alla guida di un veicolo. In entrambi i casi, non sono applicabili nessuna delle attenuanti previste…” ?
Mi chiedo: ma il delitto di femminicidio non realizza, attraverso, una disparità di trattamento, una forma di discriminazione basata sul sesso? Forse che un uomo che uccide una donna commette un reato più grave di quello, magari identico per circostanze e modalità, commesso da una donna che uccida un uomo? E non è forse vero che parlare di “femminicidio” crea una ulteriore discriminazione quando la vittima sia un omosessuale?

Nozze tra omosessuali: sembra un argomento di grande risonanza. E causa di contrasto tra il Ministro degli interni, da un lato, e alcuni Sindaci dall’altro.
E anche in seno al sinodo sulla famiglia, non mi pare che le cose siano andate troppo tranquillamente.
In tema, torno a ripetere che anche per lo Stato – laico e/o ateo che sia – sarebbe il caso di partire dal punto fermo che la società, il genere umano, deve e non può non perpetuare la specie. Se dunque l’unione tra persone, ha come fine ultimo il generare figli, non può che essere quella tra un uomo e una donna.
E allora, a questa unione andrebbe riconosciuto il massimo delle tutele di cui lo Stato è capace.
Il che non esclude che per le unioni nelle quali il generare figli non sia possibile o nelle quali non sia possibile assicurare ai figli eventualmente nati con interventi esterni la presenza di un “padre” e di una “madre”; in queste unioni non sia possibile, dicevo, riconoscere la fonte di diritti e doveri e di tutele pubbliche.
Credo soltanto che non basti la semplice convivenza per far sorgere tutele “familiari”: un atto formale di nascita di una famiglia – etero o omo che sia – sarebbe bene venisse previsto e compiuto.

L’elenco dei politici ladri si è arricchito ulteriormente, come quello delle cose acquistate per uso privato con i soldi di tutti.
Le mutande sono – o dovrebbero essere – assolutamente necessarie, e quindi l’acquistarle con i soldi pubblici potrebbe essere scriminato proprio dalla necessità di indossarle. Di stoffa e colorate, certamente.
Ma se fossero ancora più necessarie quelle di latta? E se, proprio per la loro indispensabilità, se ne stabilisse la distribuzione gratuita ai cittadini?
E a proposito dell’uso che i Politici sembra facciano delle risorse pubbliche: l’Europa ha chiesto ad alcuni Paesi, tra cui l’Italia, qualche spicciolo in più. Indipendentemente dalla richiesta e dalla sua entità, c’è qualcuno di noi che abbia sentito parlare di un controllo attento delle spese dei parlamentari europei e dei burocrati che li contornano?

Il Presidente del Consiglio ha resa pubblica una comunicazione dell’Europa, relativa alla legge di stabilità ed al bilancio.
Prima volta in Italia.
Un applauso.
La Politica non è e non deve essere una serie infinita di compromessi sottobanco.
Il popolo sovrano non può e non deve essere tenuto all’oscuro di quello che accade, in Italia come in Europa. Io mi auguro che la strada intrapresa sia proseguita e allargata.
Che è il solo modo per sperare in una Politica corretta.

Il Presidente del Consiglio ha anche affermato che le leggi le fa il Parlamento, non il sindacato. Che è vero. Forse meno vero può apparire che il Parlamento possa legiferare senza accordi con il sindacato. Ma è così.
A me sembra che, dal momento che è assolutamente, certamente, dichiaratamente strumento di parte, il sindacato non possa e non debba “fare le leggi”: il suo compito è far presente al legislatore i bisogni della comunità disegnati dal punto di vista degli iscritti e proporre soluzioni alternative perché questi siano soddisfatti al meglio. Quanto al mettere in atto strumenti coercitivi, la mia opinione è che questo possa esser fatto ma non in difesa a oltranza del punto di vista di una parte, bensì soltanto quando l’azione del legislatore vada indiscutibilmente contro la soddisfazione dei bisogni della comunità tutta.

E poiché il mio spazio qui è finito, proseguo in Cattedra.