Editoriale: E se inventassimo un vaccino contro i quaquaraquà?

di Paolo Maria Di Stefano -

Che a settembre si parli di scuola è da sempre inevitabile, come appare inevitabile che “parlare” di scuola da noi sembri non servire assolutamente a niente, al di là del puro piacere di parlarsi addosso. A fine settembre, nella sola Milano pare manchi qualche centinaio di docenti, che potrebbe anche essere un fatto non del tutto negativo: a giudicare dalla qualità dell’insegnamento, meno insegnanti si accovacciano in cattedra, meno sono i danni provocati. Che naturalmente non è generalizzazione: esistono anche insegnanti bravissimi, coltissimi, serissimi professionisti, e sono, probabilmente, anche numerosi ma, altrettanto probabilmente, in numero insufficiente a risollevare l’immagine della scuola e della categoria.
Che non è un problema di risorse finanziarie, seppure queste siano importanti: è qualcosa che sembra radicata negli anni, a mio parere strettamente legata alla incapacità di pianificazioni corrette della gestione del “mercato chiamato scuola” e ad una sottovalutazione strutturale della importanza della formazione per la vita di tutto il Paese e, in particolare, per la “qualità” del prodotto che la scuola è chiamata a sfornare. Da noi la Politica, forse perché improvvisazione di mestieranti, alla scuola sembra non dedicare attenzione adeguata.
Io credo che in Cattedra sarà possibile ripetere e aggiornare qualche altra considerazione sull’argomento, anche perché su quella parte di scuola chiamata Università è intervenuta – finalmente! – la Magistratura, che sempre di più sembra – non ostante qualche caduta in più del necessario – la Istituzione meno inaffidabile rimasta ad un Paese, il nostro, che precipita nella incultura assoluta.

I vaccini hanno avuto il loro spazio anche a settembre. Posso dire che mi sembra allucinante che, nel 2017, ci sia qualcuno che sostiene non tanto e non solo che vaccinare i bambini sia inutile quando non addirittura dannoso, quanto piuttosto che in forza di questa assoluta cretineria sostenga – quel qualcuno – che non bisogna impedire l’iscrizione a scuola ai bambini non vaccinati, perché così facendo si limiterebbe la libertà individuale. Che è un fatto da non sottovalutare, sintomatico come è di una concetto di “libertà” quanto meno scorretto. In materia, ogni ulteriore considerazione mi sembra superflua, una volta notato come posizioni di questo tipo dimostrino il degrado della nostra civiltà. E solo Iddio sa se ce n’è bisogno! Per fortuna, anche il Ministro della Istruzione ha dimostrato fermezza, e la legge verrà applicata.

La legge elettorale ha continuato ad affermare la propria natura di tormentone infinito senza apparente via di uscita. Il problema è che nessuno, di nessuna parte politica, si mette dal punto di vista degli interessi del Paese. La sola vera preoccupazione è di vedere come si può varare una legge che consenta di conquistare il potere e di mantenerlo quanto più a lungo è possibile. Che è la via più difficile per giungere al risultato, data la varietà delle sfumature degli interessi e la dimostrata incapacità dei nostri Politici a gestire dei prodotti della politica, tra i quali la legge elettorale occupa una parte importante anche per la sua natura di prodotto strumentale.
Alla base, persiste la incapacità – o, nella ipotesi peggiore, la mancanza di volontà – di pianificazione e di gestione della “materia politica”, nella testa della gente e dunque anche dei Politici, improvvisazione pura. Eppure, basterebbe poco, in fondo: proporre ai cittadini di esprimersi su veri e propri piani di gestione, collegando a quelli che hanno ottenuto il consenso una maggioranza in grado di realizzarli, composta da “legislatori” legati dal vincolo preciso e inderogabile di “attuazione del piano di gestione”. Il quale, proprio perché pianificazione di gestione, contiene tutte le indicazioni relative al come ed al tempo entro il quale fare quanto previsto.
Certo: è possibile che le pianificazioni approvate siano il frutto del lavoro di parti politiche diverse fino alla contrapposizione, ma questo a me appare un problema superabile con facilità.

La legge sulla cittadinanza ha subito un rinvio alla prossima legislatura. Forse. Un dubbio: la cittadinanza non è il riconoscimento formale di una situazione di fatto originaria, l’essere nati in un determinato Paese? Ad essa si sono aggiunti nella storia dello sviluppo della società altri elementi diretti a risolvere questioni soprattutto derivanti dalla mobilità. Per esempio, quale è la cittadinanza di un figlio di cittadini italiani nato in Honduras (o in Finlandia o in Corea o…)? E quale quella di un figlio di padre e di madre dalla cittadinanza diversa, a sua volta nato in un Paese diverso da quello di normale residenza dei genitori? Non si tratta che di due dei possibili intrecci per lo scioglimento dei quali la legge (italiana, ma anche quella di altri Paese) si è adoperata nel corso degli anni, con artifizi anche complessi. Ma a me pare che alla base sia sempre un richiamo diretto o mediato al “luogo”, che è e rimane il fondamento di tutto. E che, tra le altre cose, alle origini sembra essere del tutto casuale: nato in un luogo qualsiasi e rimastovi per anni mettendo su famiglia e costruendo una vita per sé e per i suoi discendenti, il “nato lì per caso” ha cominciato a parlare di paese natio e di patria e di diversità e di diritti propri acquisiti con il trascorrere del tempo. E, sempre nel tempo, di cittadinanza e di diritti e doveri conseguenti, dimenticando la sola vera cosa comune: l’origine casuale. In una visione più generale dei “diritti umani”, questo tipo di origine della cittadinanza dovrebbe far pensare in modo diverso. Ecco, allora, che a coloro che nascono in Italia non dovrebbe essere negata la nazionalità, salvo certezza di nazionalità diversa: nascere in un luogo è il richiamo alle radici della storia; riconoscere la nazionalità jure soli non altro è se non l’affermazione di un “diritto umano” in un mondo spogliato almeno di una parte degli egoismi che hanno ispirato i sistemi giuridici.

La Catalogna vuole l’indipendenza dalla Spagna, e quest’ ultima si oppone, anche ricorrendo a sofismi e sottigliezze giuridiche, cosa peraltro alla quale la Catalogna non sembra sfuggire. La realtà pare essere che non ci si rende conto appieno dell’importanza dell’essere insieme che, in fondo, è la giustificazione di vita di uno Stato: essere uniti vuol dire difendere meglio gli interessi di tutti e soddisfare nel miglior modo possibile i bisogni dei singoli.
Non so come finirà, ma credo di sapere che – a differenza di quanto è accaduto e accade per altre richieste di indipendenza – la Catalogna aspiri a rimanere nell’Unione Europea in qualità di Stato Indipendente e Sovrano. Che potrebbe essere una opportunità per tutti i Paesi dell’Unione: una possibilità di revisione e ridiscussione dei principi che hanno portato a questa Europa Unita che appare asfittica, immobile, senza idee e via dicendo. Cosa resa difficile, peraltro, proprio dalla spirito che anima la Catalogna: credere di poter proteggere meglio gli interessi propri facendo “da sola”. Così stando le cose, una Catalogna indipendente dalla Spagna non sarebbe che un’altra voce che si aggiunge al coro dei “prima io, prima noi”, con tutte le implicazioni del caso e dunque con ulteriore difficoltà di accordo tra i Paesi. I quali ultimi sono al momento legati da un elemento soltanto: la non conoscenza dei “veri bisogni” non tanto della gente, quanto degli Stati stessi. Ignoranza aggravata dalla mancata conoscenza dei veri bisogni e dunque dei veri interessi della Unione nel suo complesso.
Senza contare quella tendenza alla imitazione che potrebbe scuotere tutti gli Stati Europei, creando rischi non da poco.
Da questo punto di vista, l’Europa potrebbe dare una mano alla Spagna, “descrivendosi” ai Catalani, agli Spagnoli, a gli altri Paesi attraverso una dettagliata pianificazione di gestione di se stessa, ovviamente frutto di un attento riflessione e di una profonda conoscenza.
Cose, al momento, solo sperate.

Due bambini continuano a giocare a farsi i dispetti sulla scena mondiale. Trump e Kim Jong-Un. E si insultano, proprio come fanno i bambini quando giocano. Che è abbastanza preoccupante, quando si pensi che comunque i nostri destini dipendono anche dagli umori di bambini che hanno a disposizione giocattoli pericolosi e che una volta sì e l’altra pure minacciano a vicenda di fare del male. In comune, probabilmente, quello che potrebbe diventare un delirio di onnipotenza, ammesso che già non lo sia. Quando io ero un bambino ancora, nella mia strada abitavano un fruttivendolo e suo figlio, un ragazzino cui nessuno avrebbe dato un soldo di credito, grassottello e apparentemente incapace di difendersi. La scuola di suo padre era: picchia per primo, vedrai che andrà bene. Così, senza nessuna ragione apparente, quel bambino non appena incontrava un coetaneo gli si scagliava addosso, picchiandolo di santa ragione. Fino al momento in cui non ricevette un pugno in faccia che gli fece un occhio nero e un labbro spaccato. Divenne il bambino più innocuo, disponibile e divertente del quartiere. Io credo che Trump e Kim siano nello stadio del gioco, entrambi augurandosi – ma non è sicuro – che il tutto si limiti a mettere paura all’altro. E come i bambini, non si preoccupano più che tanto dell’immagine.
Che la dice lunga sulla Politica e sui Politici: fare leva sui sentimenti più bassi della popolazione assicura il consenso e, con esso, il mantenimento del potere.