CHI AVEVA PAURA DI JAN MASARYK?

di Alessandro Frigerio -

Nel marzo 1948 la misteriosa morte del ministro degli esteri cecoslovacco gettò un’ombra sulla presa del potere comunista a Praga. Fu un intrigo ordito dai servizi segreti sovietici o una disgrazia dovuta a una crisi di sconforto? Ripercorriamo gli avvenimenti di quei giorni e la scia di morti violente che seguirono il tragico volo dalla finestra dell’unico ministro non comunista nel governo Gottwald.

Il corpo di Jan Masaryk nel cortile di palazzo Czernin

Il corpo di Jan Masaryk nel cortile di palazzo Czernin

Praga. All’alba del 10 marzo 1948 il ministro degli esteri Jan Masaryk scende dal suo appartamento al secondo piano di palazzo Czernin direttamente in cortile. Lo fa percorrendo la via più breve, attraverso la finestra.
Il corpo senza vita, che presentava i piedi e le caviglie completamente fracassate, fu rimosso dopo il sopralluogo di rito della polizia. L’inchiesta si concluse rapidamente, archiviando la morte come suicidio e facendo risalire il momento di quel breve volo tra le 5 e le 6 del mattino.
Il giorno successivo la stampa internazionale riportò con grande enfasi la notizia. E le interpretazioni di quella tragica morte risentirono immediatamente del clima di guerra fredda che già attanagliava l’Europa. Per la stampa di sinistra Masaryk era stato vittima di una persecuzione da parte degli Stati Uniti, che non avevano apprezzato la sua partecipazione al governo di Klement Gottwald. Persecuzione «a base di insulti, di allettamenti e di minacce che, a lungo andare – scriveva L’Unità –, deve aver scosso e spinto alla disperazione l’animo nobile del ministro degli Esteri […] Risulta infatti che prima di mandare ad effetto la tragica decisione, Masaryk si era trattenuto nel suo ufficio a leggere telegrammi e lettere pervenutegli dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti e in cui si esprimevano minacce e disapprovazioni per la sua partecipazione al nuovo governo». Valutazioni opposte venivano naturalmente espresse dalla stampa di orientamento liberale, che avanzava il sospetto delle longa manus dei servizi segreti sovietici. Insomma, una defenestrazione violenta e in pieno stile praghese, come quella che nel 1618, con il “lancio” dei funzionari asburgici, aveva dato il via alla guerra dei trent’anni. Solo che in questo caso le parti si erano invertite: a cadere dalla finestra non erano stati i rappresentanti della potenza occupante ma l’ultimo difensore dell’indipendenza cecoslovacca. Nel destino di Jan Masaryk, figlio di Thomas Garrigue Masaryk, lo storico fondatore della repubblica cecoslovacca, si leggeva quello di quasi tutti i paesi dell’Europa centrorientale “liberati” dall’Armata Rossa.
Ma la verità sulla sua morte, come vedremo in seguito – e per quello che si è potuto fino a oggi ricostruire – stava nel mezzo. Una cosa è certa, l’occupazione sovietica e i condizionamenti imposti dalla cortina di ferro ebbero un peso fondamentale.

praga1947

Manifestazione comunista a Praga, 1947

Nel marzo 1946, ovvero due anni prima, in occasione di un viaggio negli Stati Uniti Winston Churchill aveva enunciato la storica frase con cui metteva sul chi vive tutto l’Occidente libero: «Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è scesa sul continente». Il destinatario di queste parole era naturalmente il potente alleato americano, che tuttavia sembrò non darvi eccessivo peso. O meglio, l’idea di un confronto con l’Unione Sovietica era già stata accettata da Washington, ma dopo cinque anni di guerra l’opzione militare era considerata improponibile. Brandire la supremazia nucleare sotto il naso di Stalin sembrava la soluzione meno dispendiosa sotto tutti i punti di vista. Tanto più che nel 1946 la situazione europea, con la divisione in sfere di influenza e la promessa di libere elezioni, pareva agli Stati Uniti ancora facilmente gestibile.
Ma la cortina di ferro stava scendendo lenta e inarrestabile. La prima fase della conquista comunista del potere si compì tra la fine del conflitto e il Piano Marshall (luglio 1947). Nei paesi liberati dall’Armata Rossa si erano costituiti dei fronti nazionali composti dai comunisti e da ciò che restava dei vecchi partiti anteguerra. La parte del leone era però svolta dai primi: nati e cresciuti in esilio a Mosca, giunti come liberatori al seguito dei T-34 russi, gli esponenti comunisti di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria erano gli unici che potevano vantare una cristallina fede antifascista, oltre a una solida coscienza politica. Erano stati loro le principale vittime della repressione nazista, loro avevano organizzato la resistenza, loro quindi potevano vantare una completa verginità di fronte all’opinione pubblica. Al contrario, gli altri partiti avevano trovato un modus vivendi con l’occupante nazista oppure si erano rifugiati in esilio a Londra. E il ritorno in patria lo avevano fatto in aereo e senza la copertura di un esercito liberatore.
Non stupisce perciò che nei governi provvisori instauratisi nel 1945 siano stati proprio gli esponenti comunisti ad ottenere il controllo sui ministeri degli interni e della giustizia, a guidare le forze di polizia e ad avere i propri uomini piazzati ai vertici dei ricostituiti eserciti nazionali. Le forze di sinistra imposero la nazionalizzazione delle principali aziende, così da eliminare subito ogni centro di potere concorrente, introdussero le riforme agrarie per conquistare il ceto contadino, sottraendolo alla sua antica vocazione conservatrice, denunciarono e criminalizzarono chiunque avesse avuto rapporti con i precedenti governi.
Di questo clima di intimidazione e di epurazione fecero le spese i partiti privi di strutture organizzative o meno capaci di far fronte, per indole e per determinazione, a un nuovo periodo di feroci battaglie politiche. Nella trappola caddero il partito agrario bulgaro, organizzazione di antiche tradizioni e priva di qualsiasi compromissione con i nazisti. In Romania l’accusa di atteggiamenti filo-borghesi rappresentò la condanna per altre formazioni partitiche; gli esponenti più vigorosi vennero rimossi dai loro incarichi mentre i più disponibili al compromesso ebbero incarichi di governo. In Ungheria il partito dei piccoli proprietari accettò la condivisione del potere con il partito comunista, sperando, così facendo, di stemperarne gli estremismi. In Polonia i giochi erano fatti perché il governo era già totalmente asservito all’URSS. In Cecoslovacchia, invece, era in vita una coalizione tra socialisti nazionali, rappresentati dal vecchio presidente Edvard Beneš, populisti, socialdemocratici e comunisti, questi ultimi capitanati da Gottwald.

A questo punto, per soggiogare completamente i governi dell’Europa centrorientale Mosca non doveva far altro che eliminare i partiti non comunisti. La seconda tappa nella scalata verso il potere prese il via nel luglio 1947 quando i Paesi del costituendo blocco sovietico furono costretti a rifiutare l’offerta del Piano Marshall.
Emblematico è il caso Cecoslovacco. Il governo diede il suo assenso al Piano ma pochi giorni dopo il primo ministro Gottwald e Jan Masaryk, responsabile per gli esteri, vennero precipitosamente chiamati a Mosca dove Stalin impose loro di ritornare sulle proprie decisioni. In cambio della rinuncia al piano americano il dittatore georgiano offrì un fantomatico piano Molotov, che alla prova dei fatti si rivelò un bluff. Partiti per Mosca con pieni poteri, gli esponenti del governo cecoslovacco tornarono a Praga titolari di una sovranità limitata.
La situazione subì a questo punto un’accelerazione. In settembre fu istituito il Cominform, che diede il via alla conquista definitiva. La tecnica adottata per eliminare gli altri partiti dal governo passerà alla storia come “tattica del salame”, chiamata così dal suo teorico, il comunista ungherese Mátyás Rákosi. La tecnica prevedeva l’uso di atteggiamenti di apertura verso gli elementi più disposti al dialogo alternati a pressioni di piazza e della stampa contro i “reazionari”. Una fetta dopo l’altra tutti i partiti sarebbero quindi stati assorbiti o eliminati.
A Praga il grande regista fu Gottwald. Comprimari e vittime il vecchio presidente Beneš e l’inesperto ministro Masaryk, che si trovava nella spinosa situazione di dover conservare al suo paese il ruolo di “ponte” tra occidente e oriente facendo fronte all’ingombrante presenza del fratello russo.
Ma quella parte non era stata scritta per Jan Masaryk, che in gioventù era vissuto negli Stati Uniti, inviatovi dal padre per invogliarlo allo studio. Qui il giovane Jan aveva preferito dedicarsi con maggior interesse al pianoforte e alle orchestre jazz. Trasferitosi in Inghilterra nel 1925, dove rimase fino al 1945 come ambasciatore e ministro del governo cecoslovacco in esilio, si fece fama di abile conversatore, resistente bevitore e gran tombeur de femmes. Tornò quindi in patria con un bonario aplomb anglosassone, ormai avvezzo alla vita in una moderna democrazia liberale, ma privo di difese immunitarie nei confronti del dispotismo stalinista.

Le dimissioni dei ministri non comunisti

Le dimissioni dei ministri non comunisti

Il colpo di stato a Praga si consumò tra il 13 e il 25 febbraio 1948. Nelle settimane precedenti i comunisti, grazie al controllo dei ministeri chiave degli interni e della difesa, avevano consolidato la loro presenza nei vertici di polizia ed esercito. Numerosi mandati d’arresto in bianco, già firmati dal ministro degli interni Nosek, erano pronti per essere inviati ai funzionari più recalcitranti; non ci voleva molto a montare contro di loro le accuse più disparate, dal coinvolgimento nei traffici del mercato nero alla cospirazione filoccidentale. Il 20 febbraio, per protesta, i ministri moderati decisero di dimettersi, sperando così di indurre Beneš a nuove elezioni. Ma sbagliarono i calcoli. Erano solo in dodici, mentre nel governo il numero complessivo dei dicasteri era di venticinque.
Intanto il partito comunista aveva mobilitato la piazza contro i dimissionari. Forte di una capillare macchina organizzativa riuscì a ricostituire le milizie operaie e a creare i “comitati d’azione del fronte nazionale”, una specie di soviet in versione praghese. E grazie al controllo di gran parte dei mezzi di informazione lanciò un appello alla popolazione affinché rifiutasse «con tutta la forza necessaria le intenzioni sovversive della destra reazionaria», salvaguardando gli interessi dello Stato e della nazione Dal 22 al 25 di febbraio 4500 uomini della polizia occuparono la capitale: a farne le spese furono i partiti moderati, con perquisizioni nelle loro sedi, arresti, divieti di indire manifestazioni e blocco delle forniture di carta ai giornali. Le milizie e i comitati d’azione – a cui erano state distribuite le armi –, completarono l’opera occupando le sedi dei giornali e l’università. Praga era ormai calata in una atmosfera orwelliana.
Confuso e intimidito da tanta mobilitazione Beneš accettò le dimissioni dei ministri e controfirmò la lista dei subentranti: tutti uomini del partito comunista o vicini a esso. Uno dei ministri dimissionari, Prokop Drtina, in segno di estrema protesta decise di togliersi la vita gettandosi nel vuoto, ma se la cavò con qualche ferita.

In quei giorni convulsi Jan Masaryk rimase piuttosto defilato. Non aveva digerito il colpo comunista e tantomeno la volontà di Gottwald di proporsi come continuatore della repubblica fondata da suo padre. Ma caratterialmente non era un decisionista, al pugno di ferro preferiva l’accordo, anche a costo di subirlo. Accettò controvoglia l’offerta di Gottwald di restare al dicastero degli esteri. Voleva tenere alto con il suo nome l’ultimo baluardo di democrazia. A Gottwald quel nome serviva invece per conferire una facciata rispettabile al governo.
Nei giorni successivi Jan Masaryk rilasciò interviste concilianti: «Sono entrato in questo nuovo governo come democratico convinto e servirò la nostra nuova democrazia con tutte le mie forze». Ma in privato, incontrando l’ambasciatore americano, disse di rendersi conto che la posizione sua e di Beneš era equivoca. Tuttavia – aggiunse con le lacrime agli occhi – entrambi sarebbero restati ancora un po’ al loro posto per salvare il salvabile.
Il 9 marzo era giorno di vigilia. Per l’indomani era previsto il giuramento ufficiale dei ministri. Jan Masaryk si recò da Beneš, nella sua casa di campagna. Il vecchio presidente era debole, reduce da due ictus. Non è dato sapere quel che i due si confidarono privatamente. Sappiamo solo che Masaryk uscì dal colloquio come sollevato. Forse disse a Beneš che si sentiva pedinato, spiato? Forse gli comunicò la sua intenzione di mettere a segno un colpo a sorpresa – magari le dimissioni – per il giorno dopo, e proprio nel momento in cui le telecamere avrebbero ripreso il giuramento? O forse disse a Beneš che voleva fuggire dal Paese, come affermò più tardi il suo medico personale?
La finestra sul cortile interno di palazzo Czernin rese ancor più legittimi tutti questi dubbi. Quando la mattina successiva il suo corpo venne rinvenuto sul selciato le perplessità si moltiplicarono. Il cameriere che aveva servito la cena in camera a Masaryk disse di non averlo visto più afflitto o nervoso del solito. Eppure durante il sopralluogo della polizia l’appartamento fu trovato in grande disordine: il tavolino rovesciato, frammenti di vetro e lamette da barba sul pavimento del bagno, un cuscino sporco nella vasca, tracce di escrementi lungo il davanzale della finestra che si affaccia sul cortile (proprio quella del bagno, tra tutte la più scomoda e angusta). Il corpo era caduto di piedi e non presentava segni apparenti di violenza, ma sotto le unghie si trovarono residui dell’intonaco del muro. E dietro l’orecchio destro c’era una macchia – qualcuno ha detto un piccolo foro – che durante l’esposizione della salma, prima delle esequie, un’abile mano occultò con un mazzolino di fiori.
Fu veramente una defenestrazione? Una cosa è certa, per i comunisti Masaryk era il testimonial che meglio di tutti avrebbe garantito credibilità al nuovo governo. Sarebbe stato assurdo eliminarlo dopo averlo invitato a mantenere la sua carica. Ma proprio per la credibilità internazionale di cui godeva, un voltafaccia o una fuga all’ultimo minuto avrebbero creato ancora più scalpore.
Fu un suicidio, allora? L’ipotesi è credibile, ma le cause non furono le pressioni subite da parte dell’Occidente. Come abbiamo anticipato all’inizio, la verità forse è nel mezzo. Provato dalle tensioni di quei giorni, combattuto tra la fedeltà alla patria e la sua presenza in un regime di cui non era riuscito a cogliere in tempo la vena liberticida, Jan Masaryk può aver scelto di riscattare con un beau geste le indecisioni e i cedimenti che lo avevano portato al compromesso.

Jan MASARYK - Èeskoslovensko

Jan Masaryk

Il caso venne riaperto venti anni dopo, durante l’effimera primavera di Praga. Ma in quell’arco di tempo la sorte si era accanita contro alcuni importanti testimoni. Il portiere e la guardia di palazzo Czernin erano scomparsi entrambi, tutti e due travolti da un’auto in corsa. Un medico legale che aveva espresso dubbi sul referto della morte di Masaryk aveva nel frattempo deciso di suicidarsi con un’iniezione di benzina. Più di venti persone che avevano avuto a che fare con il “suicidio” di Masaryk (o che sapevano qualcosa) erano finite subito dopo in prigione; una decina di loro erano state giustiziate. L’inchiesta aperta nel 1968 si protrasse a lungo, la primavera di Praga fu normalizzata e tutto si risolse in una bolla di sapone.
Oggi a più di cinquant’anni da quei fatti difficilmente si potrà risalire alla verità sull’affare Masaryk. Ma come ha scritto lo storico François Fejtö «per gran parte dei cechi, forse per la maggior parte, i comunisti sono stati direttamente o indirettamente la causa della morte del ministro, morte che ha cancellato il ricordo dei suoi voltafaccia, della sua debolezza e dei suoi compromessi, per farne un martire della causa della democrazia».

Così concludevamo la nostra inchiesta pubblicata su Storia in Network nel marzo 2000. Oggi la verità pare sia finalmente emersa. Nel 2003, sulla base di una nuova perizia, l’esperto forense Jiří Straus ha confermato che il rinvenimento del corpo di Jan Masaryk a più di due metri dal muro esterno è una prova del fatto che non si gettò volontariamente. Anche le fratture alle caviglie sono compatibili con una caduta indotta. La polizia praghese ha fatto sue queste conclusioni – omicidio quindi, non suicidio – sebbene manchi ancora la prova regina, cioè un documento con l’ordine scritto da Mosca (anche se è noto che Stalin preferiva non lasciare indizi). Ma su questo fronte occorrerà attendere: dopo le aperture seguite alla dissoluzione dell’URSS, da diversi anni le autorità russe negano gli accessi agli archivi sensibili, compresi quelli che potrebbero fare luce sui nomi dei killer. Il libero accesso agli studiosi sarebbe l’unico modo per confermare non solo le conclusioni degli inquirenti ma anche le voci che circolano sempre più insistentemente da qualche anno a questa parte. Nel 2006 un giornalista russo, Leonid Parshin, ha rivelato che la madre, Elizabeth Parshina, già funzionaria dell’intelligence sovietica a Praga, poco prima di morire era venuta a conoscenza dell’identità degli assassini: Mikhail Illich Byelkin, figura di primo piano dei servizi segreti sovietici in Europa Centrale, e il detective Bondarenko. Il giornalista investigativo russo Arkadi Vaksberg – scomparso nel 2011 – ha invece individuato in Aleksander Korotkov (alias Korotkin, Kudriat, Stepanov o Erdberg), generale sovietico dirigente della Quarta sezione del dipartimento di spionaggio, la mente e il braccio della defenestrazione di Masaryk. Secondo Vaksberg quella notte Korotkov sarebbe giunto a Praga con l’intento di convincere il ministro degli esteri alle dimissioni. Di fronte al rifiuto lo avrebbe scaraventato dalla finestra aiutato da Augustin Schramm, comandante della sicurezza dello Stato in Cecoslovacchia, a sua volta ucciso un paio di mesi dopo in circostanze mai chiarite.

Per saperne di più
Una storia infausta. L’Europa centrale e orientale dal 1917 al 1990, di J. M. Le Breton, Il Mulino, 1997
Storia delle democrazie popolari, di F. Fejtö, Bompiani, 1977
Il colpo di stato di Praga, di F. Fejtö, Bompiani, 1977
Il caso Masaryk, di C. Sterling, Mondadori, 1970
I veleni del Cremlino. Gli omicidi politici in Russia da Lenin a Putin, di A. Vaksberg, Guerini e associati, 2007
Police close case on 1948 death of Jan Masaryk: murder, not suicide http://www.radio.cz/en/section/curraffrs/police-close-case-on-1948-death-of-jan-masaryk-murder-not-suicide
Masaryk murder mystery back in headlines as Russian journalist speaks out http://www.radio.cz/en/section/curraffrs/masaryk-murder-mystery-back-in-headlines-as-russian-journalist-speaks-out
Jan Masaryk http://celebiography.net/jan-masaryk.html
Takhle zemřel Jan Masaryk: Po téměř 50 letech byly zveřejněny důkazní fotografie (Così è morto Jan Masaryk: dopo quasi 50 anni pubblicate le fotografie) http://www.blesk.cz/galerie/zpravy-krimi/502461/takhle-zemrel-jan-masaryk-po-temer-50-letech-byly-zverejneny-dukazni-fotografie?foto=8