Cattedra: Pensare alla scuola non è proibito, ma non basta

di Paolo Maria Di Stefano -

 

Un tempo, la scuola (quella pubblica gestita dallo Stato in particolare) era considerata una opportunità per le signore che si sentivano strette nel ruolo delle casalinghe. Sembra, perché si evidenziavano le diciotto ore settimanali di insegnamento frontale, e dunque l’ampio margine di tempo libero per occuparsi della casa e della famiglia, che è una delle stupidaggini più grandi in assoluto, almeno a danno di quei docenti che preparavano e preparano le lezioni con annessi e connessi. E dunque, nei criteri di valutazione la scuola veniva dopo il lavoro dei metalmeccanici (ad esempio) e di qualsiasi altra categoria di lavoratori, che di ore di lavoro ne hanno sempre fatte ufficialmente e nell’immaginario collettivo almeno il triplo, e che godono di ferie molto più contenute. E credo di potere affermare che le cose non siano poi cambiate più che tanto.
Con una aggravante: che si continua ad escludere dal concetto di “scuola” l’Università, quasi che si trattasse di un mondo a sé, mentre essa è o dovrebbe essere della scuola il momento culminante e creativo: dalle primarie alla superiori, si insegnano principi di vita e cultura sociali, si impartiscono nozioni in qualche modo sedimentate; nelle Università, si elabora quanto imparato a scuola e si allargano e specificano i confini delle materie. Almeno, così dovrebbe essere.

Ma quel vertice della cultura chiamato Università da sempre appare una corporazione più o meno allargata, terreno di caccia per cattedre da assegnare a parenti, amici, amici degli amici e benefattori. In genere, con buona pace della professionalità, della cultura e del merito. Una esperienza diretta risalente ad almeno sessanta anni orsono mi ha insegnato che non la preparazione, non gli studi, non la professionalità ti portano alla cattedra, ma, come è stato detto a me, “tu ne vali dieci, ma la cattedra devo darla a Pinco Palla, allievo del mio Maestro”. Ovviamente, non mi sono fidato della promessa di assegnazione della prossima cattedra, ho cambiato mestiere, sono stato dirigente d’impresa, mi sono occupato di marketing e, dopo molti anni, una Università mi ha dato l’insegnamento come professore a contratto. Quindici anni di “ordinariato atipico” – quale è il lavoro di un docente a contratto – per assistere alla assegnazione di posti di ricercatore (ed altri ancora) a parenti di finanziatori, ad amici, ad amici degli amici, e di insegnamento a personaggi del tutto ignari della materia. E ovviamente, pagato (poco) e in assenza totale dei contributi di legge.

Per la scuola tutta, Università compresa, le soluzioni ci sarebbero, se i Politici sapessero che il loro compito precipuo consiste nel gestire gli scambi del mondo “scuola” secondo criteri noti a tutti, e dei quali si parla ovviamente a sproposito. Ce ne siamo ampiamente occupati più volte anche da queste pagine.
Il problema è, forse, che le premesse fondamentali sono la professionalità e l’onestà di tutti, cose che si imparano anche a scuola, anzi: prima di tutto a scuola, e che se insegnate bene, imparate alla perfezione e messe in pratica con impegno potrebbero ridisegnare l’immagine del nostro Paese a tutti i livelli.
Per ora, comunque, ascoltiamo gli interventi dei Rettori e dei Docenti Universitari su quanto accade per la assegnazione dei posti di ricercatore e delle cattedre: ascoltiamoli, e ci renderemo conto di quanto possa essere non creativo il pensiero di gente che dovrebbe insegnare “creatività applicata”.

Qualcuno insiste: il posto di lavoro è funzione degli studi compiuti. E dunque, le Università non possono sottrarsi al compito di formare i giovani a svolgere una funzione all’interno, possibilmente, di una delle nostre storiche imprese (o di qualche impresa non italiana). Ecco perché negli Atenei italiani si affidano gli insegnamenti, da quelli tradizionali a quelli più improbabili, a docenti improvvisati che nulla o quasi conoscono della materia. Per le imprese (e per quello che tutti chiamano “il mercato”) poche discipline assumono un ruolo importante. Tra queste, il marketing, sia pure nella sua versione di “clone” dilettantesco ed orecchiante. Chiunque non sappia fare alcunché, si ritrova in alcune università italiane (non in tutte, grazie a Dio!) ad insegnare marketing ad ignari e speranzosi studenti. Qualche Università più avanzata e desiderosa di segnalarsi per creatività e innovazione, ha abolito l’insegnamento sostituendolo con un più moderno corso di “gestione d’impresa” o dizione similare. Con questi vantaggi, se non altro:
- di poter affidare l’insegnamento a docenti interni, organici (come si dice), generalmente edotti di contabilità, di calcolo dei costi, e forse anche di statistica e di calcolo della probabilità, quando non addirittura di modelli matematici, ma totalmente estranei alla gestione di una impresa. Anzi: spesso non l’hanno neppure mai vista, una impresa. Ma sono “organici” e magari in una vita precedente sono stati cassieri in una banca di paese o negozianti al dettaglio;
- di tornare alla vecchia concezione del marketing (pubblicità e ricerche di mercato) e quindi di basare l’insegnamento su pilastri che hanno fatto la storia ma che da cinquanta anni sono superati e che proprio per questo, perché superati ma pedissequamente ed acriticamente applicati, hanno garantito alle imprese italiane di occupare gli ultimi posti nelle classifiche mondiali e all’intera economia del nostro Paese di scivolare verso la bancarotta;
- di non essere costrette a “fare scienza”, a “creare innovazione”, a “fare ricerca” in un settore (la gestione degli scambi in genere e di quelli di cui sono protagoniste le imprese in particolare), con conseguente notevole risparmio di risorse.
Come vuole il Ministro, le cui parole mai, come in queste occasioni, sono utilizzate come ombrello. Per giustificare ordinamenti nei quali hanno messe le mani sedicenti sociologi, sedicenti linguisti e sedicenti giuristi di nessuna fama, in genere, salvo lodevoli eccezioni, peraltro a me sconosciute, anch’essi risultato di giochi politici e di clientela.
Che poi i giovani laureati di queste Università non siano in grado di competere per un posto di lavoro è un dettaglio.
Al di là delle parole, di loro, dei giovani, alle Università non interessa alcunché.

E se il Ministro della Pubblica Istruzione intervenisse “alla radice”, almeno provvedendo direttamente e immediatamente a verificare come vengono spesi i fondi che lo Sato elargisce ad ogni Università, provvedendo ad evitare ogni e qualsiasi spreco; a verificare i livelli degli stipendi e delle indennità delle Alte Cariche; a valutare la congruità delle spese di rappresentanza (e di viaggio e di soggiorno); a valutare i “titoli” che giustificano la presenza degli attuali docenti; a valutare la “produzione scientifica” attuale dei docenti e dei ricercatori; a stabilire salutari norme di incompatibilità non solo a livello docenza, ma a tutti i livelli della organizzazione di ogni singola Università. Se il Ministro cominciasse ad operare in queste (e nelle altre) direzioni in modo deciso ed esemplare, non pensate che qualcosa cambierebbe?
Ma forse è impossibile. Per fare tutto questo (e quanto non indicato) occorrerebbe, oltre ai saldi principi etici, una solida cultura di gestione degli scambi a tutti i livelli.
In forza di questa cultura, con molta probabilità potrebbe essere riconosciuto un alto grado di priorità ad una legge che stabilisca nel dettaglio e colpisca con decisione le incompatibilità in ogni settore, sia pubblico che privato; una legge che per forza di cose dovrebbe occuparsi anche della organizzazione degli uffici di ogni ordine e grado, dettagliando le competenze di ciascuno in modo da eliminare o ridurre al minimo i conflitti di competenza, appunto; ed anche stabilendo con precisione le caratteristiche professionali delle risorse umane impiegate. Sarebbe, questo ultimo tema, il collegamento primo proprio con la scuola, la quale verrebbe chiamata a “pianificare dettagliatamente” la propria gestione, descrivendo il prodotto al quale si propone di giungere e le azioni che saranno intraprese per ottenerlo, non solo, ma anche per “venderlo” agli utilizzatori finali.
Tanto per cominciare, a mio parere sarebbe essenziale stabilire la priorità della cultura – e dunque della formazione – umanistica, dalla quale dipende la “comprensione” di tutte le altre materie, le quali acquisterebbero il ruolo di “specializzazione”. Una rivisitazione delle scuole medie superiori in materia potrebbe essere sufficiente, se programmata ed attuata con professionalità e competenza. Lo studio del latino e del greco potrebbe costituirne una delle basi, come l’Economia, e come i “principi di Politica”, materia nuovissima che dovrebbe accompagnare gli studenti fin oltre la laurea. Alle Università, potrebbe riservarsi la “specializzazione”, preoccupandosi per ogni corso di laurea di arricchire gli insegnamenti con uno o più insegnamenti che approfondiscano il collegamento specifico allo studio umanistico che è alla base. Le facoltà che intendono produrre magistrati, avvocati, notai potrebbero riproporre lo studio di quel diritto romano che è alla base della nostra civiltà giuridica; quelle che si basano sulle “scienze” più o meno esatte, potrebbero fare altrettanto, ricordando la storia e quindi l’evoluzione proprio della “esattezza” posta a fondamento degli insegnamenti; e via discorrendo, non senza accennare alla opportunità che l’insegnamento delle scienze mediche venga collegato al greco ed al latino, non fosse altro che per ragioni di comprensione della terminologia.

Tutte le facoltà universitarie, senza eccezione, dovrebbero prevedere una cattedra di “Istituzioni della Politica”, (i principi fondamentali della Politica, a cominciare da una definizione affidabile) scelta a mio parere obbligata, dal momento che tutti hanno il diritto-dovere di “fare politica”, in democrazia.
La materia relativa ad un insegnamento di “Istituzioni della Politica” dovrebbe inoltre entrare a far parte integrante di una legge sulle incompatibilità, almeno per i prossimi venti anni: non può essere affidato a persone che abbiano in qualsiasi modo “fatto” politica attiva, salvo dimostrazione di possesso di una preparazione culturale di livello assoluto. In più, questo insegnamento e la ristrutturazione della “scuola pubblica” a tutti i livelli dovrebbero essere risultato di una pianificazione elaborata a livello europeo (meglio se fosse possibile a livello ONU, ma non contiamoci), ed a quel livello realizzata e controllata.
E smettiamola di invocare il tempo necessario per evitare ogni intervento: la storia dimostra che se si comincia bene…