Cattedra: Forse l’ora del far presto non coincide col far bene

di Palo M. Di Stefano -

Generalità, forse una premessa, per un accordo di base. Tra noi.

Io credo che pochissime cose possano esser date per sicure. Tra queste:
-          In Italia tutti parlano di “necessità di cambiare”, di “aggiornare”, di “snellire”: sembra essere il cavallo di battaglia di ogni formazione che in qualche modo si occupa di Politica. E anche di coloro che della politica affermano disinteressarsi. Pare non esistere materia nella quale questa necessità non si imponga in modo drammatico. A partire dalla Costituzione, che è “il disegno” dello Stato;
-          l’Italia ha un sistema bicamerale definito perfetto: Camera e Senato concorrono a legiferare in modo assolutamente paritetico. In soldoni, significa che ogni proposta di legge viene letta almeno quattro volte, due per ciascuna Camera (commissione e Camera stessa) e diviene legge ed é oggetto di promulgazione soltanto ad accordo sul testo raggiunto (art. 72 della Costituzione);
-          l’Italia ha una produzione di leggi e di regolamenti che tutti affermano essere, se non proprio eccessiva, certamente sovradimensionata;
-          in Italia, qualsiasi tipo di soluzione si afferma esser presa “in tempi biblici”: la questione dei “tempi necessari” pare essersi definitivamente e prepotentemente imposta all’attenzione di tutti;
-          in Italia, il problema dei “tempi” è dai più direttamente collegato con quella che chiamiamo “burocrazia”, ritenuta dai più una sorta di “palude” nella quale concretezza ed operatività si dibattono;
-          una buona parte dei problemi d’Italia (ma, probabilmente, non soltanto) nasce e si sviluppa alla luce e talvolta in forza dei legami di parentela e di clientelismo, spesso cementati dalla possibilità di ricoprire più di un incarico;
-          una parte altrettanto importante dei problemi del nostro Paese è costituita dalla corruzione, arte nella quale pare siamo maestri nel mondo. E non soltanto per quella che riguarda “il privato”, quanto piuttosto per quella che ha le radici, si alimenta, si sviluppa nella Politica e si ramifica in tutti i settori delle attività umane. Senza eccezioni, pare;
-          molte cose di cui tutti noi ci occupiamo nella vita quotidiana appartengono al libro dei sogni; e molte delle cose di cui la Politica si occupa non fanno eccezione. Ma è questa una buona ragione per non affrontare i problemi relativi? L’essere umano per millenni ha sognato di volare, e per millenni ha tentato di farlo, anche cercando di imitare “fisicamente” gli uccelli. Poi, un giorno molto vicino a noi, ha cambiato il modo di guardare alla cosa: non ha più cercato di “crearsi le ali”, ma ha costruito “macchine volanti”. E oggi vola più lontano, più in alto e più velocemente di qualsiasi volatile.

Non a caso l’elenco non è numerato: a me non pare che si possa stabilire una gerarchia tra questioni così generali e interconnesse, non solo, ma anche riferibili a più di una materia. E la numerazione è generalmente associata all’idea di “importanza” e quindi di “gerarchia”.
Secondo me, quello che veramente conta è che l’accordo sull’elenco proposto sia il più ampio possibile, e che venga accettato come base per ogni e qualsiasi ulteriore scambio di idee.
Se così è, proviamo a vedere come si può evolvere il pensiero in materia.

Cambiare, aggiornare, snellire, ammodernare e così via sembrano affermazioni scontate, vuote di significati concreti, e come tali destinate a rimanere mere dichiarazioni di intenti, almeno fintanto che non si cerchi di disegnarne i contenuti.
Ed almeno finché non si concordi su qualcosa che non mi sembra sia stato mai preso nella giusta considerazione: sempre, da che mondo è mondo, chiunque operi in qualsiasi settore difficilmente è disposto ad ammettere di sbagliare nell’esecuzione dei compiti assegnatigli od anche volontariamente e liberamente assunti. Sempre, quando i risultati non rispondono alle aspettative, si tende ad incolpare l’organizzazione, la struttura, le leggi ed i regolamenti, le pastoie burocratiche…, comunque qualcosa o qualcuno di diverso dal soggetto direttamente interessato.

Quando tutto manca, ecco spuntare l’argomentazione principe: l’inadeguatezza ai tempi profondamente cambiati.

1. Tutti ladri, nessun ladro.

Che i tempi siano “profondamente cambiati” è una di quelle affermazioni apodittiche e indimostrate alle quali tutti noi facciamo ricorso quando non siamo in grado di comprendere e spiegare una cosa qualsiasi. O forse, o anche, esprime una speranza che, nei fatti, si dimostra in genere assolutamente infondata.

La verità è che nihil sub soli novi. Niente di nuovo sotto il sole. Neppure il titolo di questo capitolo. Innumerevoli volte un numero infinito di persone ha fatto ricorso a quello che, forse, Renato Rascel avrebbe definito “un giovane presto”: un adagio nato in tempi vicini a noi, e del quale qualcuno afferma di conoscere, se non l’autore, almeno un politico che lo ha citato più volte anche, sembra, per giustificare i comportamenti suoi e dei sodali.
Suggestivo senza dubbio, “tutti ladri nessun ladro” probabilmente non è riuscito, non ostante tutto, ad assurgere a scriminante universale perché la perfezione non essendo di questo mondo, esiste ancora qualcuno che ladro non è e che si rifiuta pervicacemente di esser messo in un angolo. E, per di più, non solo spera che i ladri vengano puniti, ma addirittura ha fede in quella evoluzione morale e dunque anche giuridica della società della quale (evoluzione) tutti in qualche modo si occupano e che un giorno condurrà alla sparizione del furto, della corruzione e dei comportamenti connessi. O almeno alla loro riduzione a livelli fisiologici, sì, ma non generalizzati.
E allora, qualcuno pensa che indagare, scoprire e perseguire furto corruzione e compagnia, abbia un effetto negativo sull’immagine del Paese.
Che si rubi e si cerchi di guadagnare in ogni modo è fatto assolutamente accettato. “La gente” non si aspetta altro e dunque che imprenditori, politici, faccendieri e chi altro cerchino di dirottare a sé ogni e qualsiasi tipo di risorsa e si facciano un punto di onore di evadere le tasse e di finanziare i partiti è nelle cose, tanto che il successo e la professionalità si misurano – e non da ora! – dalla quantità di risorse rubate e dall’essere riusciti a farlo senza essere scoperti.
E’, in fondo, anche il senso di quel “cogliere le opportunità” che ogni economista si fa un punto d’onore di insegnare nelle Università e nei corsi di formazione aziendale, e di perseguire nelle imprese. Direttamente, o quali consulenti di gestione.
Con questo in più: l’elaborazione del concetto di “economia” come disciplina e pratica avulsa dalla morale, dall’etica e, secondo qualcuno, anche dal diritto.
Un mondo ideale: sfrutto a mio vantaggio ogni occasione e realizzo appieno i principi dell’economia, che sono il cromosoma principe di ogni essere vivente.
Il “ma” che sempre tende a rompere l’equilibrio è costituito in Italia da una Magistratura che indaga, accerta, processa, punisce. Con questo, quasi per assurdo venendo meno ad una delle funzioni prime della Giustizia e del Diritto: forgiare, formare, improntare la società in vista (almeno) di un futuro diverso e migliore. Che non vuol dire “andare contro natura”.
Per la Giustizia, “tutti ladri, nessun ladro” sembra essere un brocardo non riconosciuto, al massimo una presunzione relativa, di quelle che sono valide fino a prova del contrario. E dunque non quella verità assoluta che sarebbe opportuna, per la pace sociale e per l’immagine del Paese.
Che è un errore, ovviamente, al quale la Giustizia ed i Magistrati sembrano finalmente risoluti a mettere riparo.
L’azione “anticorruzione” (in senso lato) condotta avanti con pervicacia è stata per lungo tempo scambiata per una forma di repressione: la corruzione (sempre in senso lato) deve scomparire.
Ma la Magistratura non è fatta di ignoranti e praticoni. Si può sostenere che si tratti di una delle categorie professionalmente più preparate, e più concretamente pensose dei destini futuri della società. Tanto da interpretare, correggere, ispirare le leggi che è chiamata ad applicare.
E allora?
Allora la Magistratura ha elaborato un sistema di efficacia quasi certa – nulla è assolutamente certo sotto il sole e tra gli uomini- per mettere a posto le cose: dimostrare in modo inconfutabile che tutti sono ladri e corruttori e corrotti ed evasori fiscali.
A processo ultimato, poiché sarà dimostrato vero che questi (ed altri) comportamenti sono parte integrante della natura umana, incoercibili, indissolubilmente legati ad un istinto primordiale, sarà anche dimostrata l’incongruità di una Giustizia che si ostina a parlar di reati. Sarebbe come stabilire che tutti si nutrono, ma il mangiare è reato, e come tale va punito. Ragionamento insensato, e comunque in pratica non attuabile: se tutti si nutrono ma chi mangia delinque, tutti coloro che mangiano dovrebbero essere pesantemente puniti. Vorrei vedere come si potrebbe fare!

E allora, se tutti rubano, che senso avrebbe punire il furto? Accettando che“tutti ladri, nessun ladro”, avremo tre vantaggi certi:

  • la diminuzione del numero delle leggi, perché quelle relative al furto, alla corruzione, all’evasione fiscale, al falso in bilancio e al finanziamento illecito del partiti non avranno più ragion d’essere;
  • la diminuzione conseguente del numero dei processi, e dunque del carico di lavoro della magistratura, a tutto vantaggio della efficienza;
  • la diminuzione del numero degli ospiti delle “colonie penali”. Il sovraffollamento delle carceri sarà solo un cattivo ricordo.

Corollario primo: l’Unione Europea non avrà più occasione di comminare sanzioni ad un’Italia finalmente concretamente virtuosa.

Corollario secondo: la riforma della Giustizia ha ora un obbiettivo ed una ragione precisa. Questo: la messa in condizione di non nuocere di tutti quei magistrati che si ostinassero a considerare reati il furto, la corruzione, l’evasione fiscale e il finanziamento illecito dei partiti.
Con annessi e connessi.
Infine, ancora un possibile vantaggio: il diminuire degli studiosi (e delle pubblicazioni e delle cattedre) che si interrogano se, fatta l’Italia, siano stati fatti gli italiani.
O no?

PS: ho usato il correttore del PC. Ha proposto – il correttore! – di correggere la frase “per la Giustizia tutti ladri nessun ladro”con questa: “per la Giustizia tutta ladra nessuna ladra”. Che avrà voluto di’?

2. Attorno alla Costituzione e in particolare al Senato della Repubblica

Quando si tratta della Costituzione italiana, forse bisognerebbe ricordare che ragionare in termini di inadeguatezza alle nuove e diverse esigenze create dai nuovi e diversi tempi avrebbe certamente un senso maggiore di quanto non sembri se i dettami elaborati dai padri costituenti fossero stati correttamente seguiti e la Costituzione fosse stata concretamente realizzata.
Il che non è stato. Senza dubbio alcuno.

Ma non vuol dire che non si possa e non si debba pensare a qualche modifica, anche perché tutto ha un ciclo vitale, tutto invecchia, e il “prodotto” Costituzione non fa certamente eccezione.
Or accade che si pensi che quanto stabilito per la formazione delle leggi sia almeno in grande parte obsoleto.
Ricordando che la duplice lettura fu stabilita dai costituenti a garanzia della “qualità” delle leggi, chi di noi ha mai sentito reclamare una “professionalità di legislatore” a carico dei rappresentanti del popolo eletti proprio per legiferare? E chi di noi ha mai sentito un eletto riconoscere di “non sapere” o di “non essere preparato” o, ancora, di “non essere in grado” di concorrere a “fabbricare” leggi? E dunque di assolvere il compito assegnatogli?
Tutti, però, reclamano un “cambiamento”.
Non della propria personale cultura, ma della struttura del Parlamento e dunque anche del modo di legiferare.

Ma se il problema è, almeno in parte, la mancanza di professionalità nell’attività del legiferare, il contenuto del cambiamento auspicato non potrebbe (dovrebbe?) andare nella direzione della “qualità” della legge e dunque della “professionalità della produzione delle leggi”?
Senza dimenticare – mi pare ovvio – che la legge è un prodotto e come tale è oggetto di “scambi” e va quindi resa “apprensibile” e “conosciuta”.

Nulla osta, a mio parere, che il settore “produzione” delle leggi operi grosso modo così come accade nelle tante, invidiate ed efficienti imprese portate così spesso ad esempio da economisti e politici e sociologi e docenti universitari …: il Senato potrebbe assumere il compito di “progettare ogni singola legge” in modo tale da consentire all’altra Camera di approvarla, una volta riconosciuta la sua rispondenza agli obbiettivi.
In altre parole:
-          il Governo, ogni singolo membro delle Camere, gli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale, il popolo (sono le parole dell’articolo 71 della Costituzione) propongono quel “disegno” che, se tutto va bene, verrà esaminato da una commissione (art.72). E qui una prima possibile modifica: la Camera dei Deputati decide che la proposta di legge merita attenzione e la invia ad un Senato che abbia il compito di “progettare” fisicamente una norma che risponda al meglio agli obbiettivi chiaramente definiti dalla Camera dei Deputati, e ciò faccia in tempi assolutamente tassativi;
-          Il Senato “disegna” la legge richiesta e la struttura in modo che risponda al meglio agli obbiettivi ed in modo, anche, che suoni assolutamente chiara ai destinatari. Sia, cioè, comunicabile ed apprensibile in modo facile e chiaro;
-          La Camera dei Deputati può accettare il progetto e farlo divenir legge, oppure – se qualche modifica fosse opportuna- disporne l’introduzione nel testo, magari ricorrendo di nuovo alla collaborazione del senato progettista. Una volta così “messo a punto” il testo, la Camera dei deputati la vota e, se l’approva, il “progetto” elaborato dal Senato diviene legge…
-          e Il Presidente della Repubblica la promulga.

Intanto, potrebbe significare che alla Camera dei Deputati spetterebbe un compito di “indirizzo” dell’attività del Senato, e di esame del progetto. A questi, si aggiungerebbe la “approvazione” e dunque la trasformazione del progetto in legge e la presentazione al Presidente della Repubblica per la promulgazione.
Poi, potrebbe anche indicare i criteri di massima della formazione del Senato: professionisti del diritto in grado di formulare la legge e di comunicarne l’interpretazione autentica. Significa che a far parte del Senato potrebbero essere chiamate e/o elette persone professionalmente abilitate a “fare, distribuire e comunicare il diritto”: docenti, magistrati, avvocati e notai in testa. Comunque, giuristi.

Il che si collegherebbe immediatamente anche a quel “problema della giustizia italiana” il quale, essendo anche e innanzitutto una questione di interpretazione, verrebbe in buona parte risolto dall’obbligo di formulare le leggi in vista di un obbiettivo preciso e di corredarle di un’interpretazione autentica. E questo avrebbe un effetto benefico sul numero e sulla durata dei processi.
E neppure gli effetti sulla “burocrazia” sarebbero da trascurare. Non possiamo dimenticare, infatti, che anche per gli uffici pubblici esiste un “problema interpretazione”, un “modo di vedere” troppo spesso diverso da ufficio a ufficio, con impiego di tempo e risorse molto spesso anche antieconomico. Non pensate che una legge ben fatta e una interpretazione autentica possano contribuire a “snellire la burocrazia”, oltre che a quella tanto invocata “certezza del diritto”?

Il consentire l’ingresso in Senato a “cultori, studiosi e professionisti del diritto” dovrebbe avere almeno un limite: nessun parente o affine entro il quarto grado nel Senato e neppure nella Camera dei Deputati. A qualsiasi livello. Significa che dovrebbe far parte delle proposte relative alla modifica del Senato una legge, preventivamente approvata, che stabilisca le incompatibilità fondamentali almeno per ricoprire pubblici uffici.
Si noti bene: tutti gli uffici e gli incarichi pubblici, non soltanto la carica di Senatore della Repubblica.
Tutti.
Lo spirito della norma essendo quello di evitare nei limiti del possibile qualsiasi tipo di connivenza, l’incompatibilità dovrebbe riguardare – ripeto – tutti gli uffici direttamente o indirettamente in collegamento con quello di Senatore. Anche l’usciere, il portiere, l’addetto alle pulizie e tutti gli altri normalmente considerati uffici di livello non particolarmente elevato. E dovrebbe anche riguardare ogni e qualsiasi tipo di prestazione, non soltanto quelle di dipendenza diretta. Per esempio, le consulenze, gli appalti e via dicendo.
E l’incompatibilità dovrebbe essere stabilita a carico di entrambe le parti.
Significa: se nell’Ufficio Pubblico presta la sua opera un addetto alle pulizie parente o affine di un eletto o nominato al Parlamento, l’elezione non può essere validata, così come non può esser effettuata l’assunzione di un parente o affine quale autista o usciere e tanto meno come funzionario o dirigente a qualsiasi livello. E neppure una moglie o un cugino o un cognato possono essere incaricati di funzioni di consulenza o di prestazione di servizi. Oltre, naturalmente, a non poter far parte della stessa struttura.
Problema non nuovo. Quando ero giovane, si parlava e non poco di un Senatore della Repubblica marito di una onorevole e padre di un deputato. Tutto in contemporanea. E sempre quando ero giovane, una legge che non so se ancora in vigore stabiliva che, se avessi voluto esercitare la professione di avvocato, mio padre allora Consigliere di Corte d’Appello avrebbe dovuto chiedere il trasferimento. O forse sarebbe stato trasferito d’ufficio.
Che è stata, anche, la fortuna mia e del Paese: un avvocato in meno, in Italia, non guasta.

Intendiamoci: di leggi che in qualche modo intervengono sulla materia ce n’è, e forse sono anche troppe. Il problema mi pare consista nel fatto che si tratta sempre di leggi, peraltro non chiarissime, che tentano di regolare singoli casi. E si tratta anche di leggi che si occupano dell’assunzione di incarichi contemporanei o anche al cessare di quello principale.
Che è già qualcosa, ma la mancanza di un disegno generale e di una normazione coordinata si sente e quanto!
Tutti noi ci rendiamo pienamente conto come in materia di incompatibilità ci si trovi in pieno libro dei sogni ed anche in una selva di problemi molti dei quali quasi certamente non sono risolvibili, non per ora e non da noi; altri, forse lo sono, ma a prezzo molto, troppo caro. Ma è questa una buona ragione per trascurare quelli che, invece, hanno la possibilità di trovare una soluzione praticabile?

Si potrebbe dunque pensare sia il caso di cogliere l’occasione per migliorare le leggi esistenti ed elaborare un “codice delle incompatibilità” il quale, oltre tutto, entrerebbe in modo dirompente nel sistema, al momento tutto da definire, della scelta dei Senatori.

Dunque bisogna rispondere e in modo motivato almeno a queste domande:

  • Cosa il nuovo Senato deve fare
  • Perché
  • Dove
  • In quanto tempo
  • Da quante persone deve essere composto
  • Da quanti e quali uffici
  • Come i soggetti attivi entrano a comporre l’organo Senato.
  • Quali caratteristiche devono possedere coloro che dovranno “fare”.

Tanto per esser pignoli: ciascuna di queste domande qui esposte in modo estremamente sintetico è in realtà un mondo complesso, composto da una serie di problemi a ciascuno dei quali deve esser data una risposta affidabile.
E ancora una nota: quel “Dove” va analizzato e composto con attenzione estrema. E’ forse vero che, trattandosi del Senato della Repubblica Italiana, si potrebbe rispondere “in Italia”. Ma forse, se si prendesse atto che comunque, almeno fino ad ora, l’Italia si avvia a divenire una provincia d’Europa, ragionare su un “dove” che si chiami Unione Europea potrebbe condurre a risultati di tutto rispetto.
Guarda caso: all’orizzonte, compare l’ombra dei famosi (e purtroppo per noi famigerati) “5 W?”.

2. Attorno all’assetto territoriale e in particolare all’abolizione delle Provincie

Sembra ormai acclarato (come dicono i Maestri, quelli seri, titolari di cattedra universitaria) che senza l’abolizione delle Provincie l’Italia sia destinata a morte certa. Dopo lunga e dolorosa agonia. Ed è sicuro che di qualsiasi cosa si tratti, morte o rinascita, il processo relativo si è rivelato di una lunghezza e di una difficoltà al di là del bene e del male. Il tutto spiegabile anche con la circostanza – tutt’altro che trascurabile – che anche semplicemente toccare le Provincie significa agire su posizioni di potere, con annessi e connessi. Compresa la possibilità di inciuci di tutti i tipi. Fatto, questo, che ovviamente non riguarda soltanto le Provincie, ramificato come è ai Comuni, alle Regioni e (ovviamente) allo Stato. Non so se anche alle “città metropolitane” perché devo confessarlo: non ho ancora ben chiaro di cosa si tratti, ma sono certo che in quanto centri di potere, difficilmente si può immaginare siano esenti da quanto si imputa agli altri Enti Territoriali.

I quali sono istituiti e regolati dal titolo V della Costituzione vigente, che all’art.114 recita “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle città metropolitane , dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Provincie, le città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti , poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (…)”. Al successivo articolo 116, la Costituzione dice che “Il Friuli-Venezia Giulia, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige /Sudtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. (…)”
In materia, ovviamente, fiumi di inchiostro sono stati versati. Ma dal momento che i tempi sono cambiati e le tenere simpatiche romantiche penne sono state abolite, sostituite dapprima dalla macchina da scrivere e oggi dai PC, forse parlare di “fiumi d’inchiostro” non è più del tutto proprio. Anche se credo si possa e si debba accennare all’infinito numero di “cartucce” utilizzate per stampare i file del PC. Sempre di inchiostro si tratta, con questo in più: che il consumo di carta non si è ridotto più che tanto, con questo smentendo alla grande le previsioni dei soloni dei “cervelli elettronici” e “cervelloni” anch’essi, anche in virtù della sfiducia nelle precarie memorie elettroniche, pronte a sparire quando meno te lo aspetti.
Non so bene perché, ma il tutto mi sembra una specie di apologo sulle Provincie: il PC doveva uccidere penne e matite, e non è accaduto; doveva trucidare gli archivi cartacei, e neppure questo è accaduto; doveva ridurre pressoché a zero il consumo della carta, ma neanche questo si è realizzato.
Qualcosa non quadra.

Dicevo: l’abolizione delle Provincie.
Pare che sia assolutamente necessario anche per il risparmio di risorse che se ne ricaverebbe. Ma se il problema è economico, perché non cominciare dalle Regioni a statuto speciale? Sembra siano pozzi senza fondo capaci di sperperare milioni, di creare privilegi di tutti i tipi, di dar vita a clientele numerosissime, e chi più ne ha più ne metta.
Non sarebbe il caso di cominciare da qui, così anche creando una situazione di “parità” nel territorio italiano, parità che consentirebbe esami più approfonditi ed affidabili in tema di “organizzazione e gestione”?
Le ragioni che consigliarono i Padri Costituenti a disporre la creazione di Regioni a Statuto speciale sono oggi tutte da verificare, e probabilmente non ne esiste più neppure una.

Tutto questo a parte, è pensabile che il pensiero di abolire le Provincie in una con quello di non occuparsi anche delle Regioni e in particolare di quelle a statuto speciale sia il frutto (anche) di un atteggiamento quanto meno discutibile: mettere in prima linea la questione economica nel suo indeterminato insieme, e dunque senza neppure un riesame del sistema economico nel suo complesso. Questo ha portato alla individuazione del “risparmio” quale “causa ultima” degli eventuali interventi, e il pensare al risparmio conduce quasi inevitabilmente al costo del lavoro. Che è un errore, ma che dal punto di vista puramente tecnico costituisce il modo più semplice e più rapido per stilare bilanci meno negativi. Pura illusione, naturalmente, ma ciò che appare è sovente ritenuto faccia prevalente della verità, soprattutto da parte di chi non ha voglia o non dispone degli strumenti e delle capacità necessarie per analizzare a fondo le questioni.

3. Attorno al sistema elettorale ed alla governabilità

Forse bisognerebbe ricordare “al legislatore” che il Parlamento non è sovrano, bensì esercita la sovranità in nome e per conto di quel “popolo italiano” che della sovranità è il vero ed unico detentore. L’art.1 della nostra Costituzione, grazie a Dio ancora vigente, in questo è di una chiarezza esemplare: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
E il popolo “detentore della sovranità” demanda a persone che ha scelto liberamente il compito di “fare” le leggi che consentano di raggiungere gli obbiettivi previsti e voluti, e questo fa ancora una volta nei modi che la Costituzione ha previsti.

E allora, intanto una domanda: un popolo realmente sovrano è libero oppure no di scegliere un organo (individuale o collegiale) diverso dalle Camere e dotato di quei poteri che possono anche esser definiti assoluti o comunque “autoritari”? Tanto per intenderci e semplificare: un popolo realmente sovrano è libero di nominare una figura simile a quella nota in Roma antica come “dictator rei pubblicae servandae”? Certamente no fino a che la Costituzione vigente disegna quella “democrazia” in fondo limitata che obbliga il popolo sovrano a servirsi di una struttura predisposta; certamente sì se si immagina una sovranità popolare e quindi una democrazia piena e dunque in grado di scegliere la forma e la struttura dello Stato.
Ma forse è anche vero che non è scritto da nessuna parte che democrazia e autorità siano antitetiche. Vuol dire che la democrazia non significa dotare gli organi democraticamente eletti di una “autorità monca”, bensì accettare che “il potere” possa essere esercitato anche con interventi d’autorità, purché questi siano effettuati da organi democraticamente eletti.
E, naturalmente, entro i limiti stabiliti dalla Costituzione.

Ed a me pare anche il caso di ricordare che il sistema elettorale è uno degli elementi della governabilità, essendo in fondo un modo per consentire il raggiungimento di quella maggioranza che è necessaria per governare, appunto.
Ma l’altro e più importante fattore di governabilità è costituito da una chiara e completa pianificazione di gestione dello Stato, non tanto e non solo perché pianificazione (anche) operativa e dunque vincolante, quanto perché base principe del consenso elettorale e quindi del raggiungimento dei numeri necessari per fare quelle leggi e quegli altri provvedimenti che sono “la materia” del governare.

4. Attorno alla spending review

La materia è di quelle adatte a consentire una valutazione della onestà, della capacità, della professionalità, della cultura di chi se ne occupa.
Il ridurla a sola enunciazione di principio ed a pochi e ininfluenti interventi significa nella migliore delle ipotesi che si è in mano ad incapaci; nella peggiore, che si tratti, invece, di capacissimi a vendere fumo per mantenere il potere ed i vantaggi economici, magari conquistandone di nuovi.
Amen.