Cattedra: E se le casalinghe contribuissero a nuove assunzioni?

di Paolo Maria Di Stefano -

La visita di Francesco a Genova si è rivelata di importanza ancor più straordinaria di quella cui il Papa ci ha abituati da sempre. Per poche parole, in fondo: “l’obbiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti”.
È assolutamente essenziale che noi tutti si comprenda che alla base della situazione umana c’è soltanto la dignità che promana dal lavoro. Qualsiasi altra forma di reddito che non derivi da una attività lavorativa è destinata comunque ad essere di secondo momento – quando va bene, quando può essere qualificata come dignità – nei confronti di quella derivante dal lavoro.
I vari “redditi di cittadinanza” con annessi e… “sconnessi” appaiono certamente mere argomentazioni elettorali, nella pratica senza supporto alcuno, foriere di conseguenze difficilmente controllabili. Ad esempio, la lotta sempre più dura contro tutti coloro che chiedono asilo, ai quali la cittadinanza sarà negata con forza ancora maggiore, comportando, se e quando concessa, un aumento di risorse o una diversa divisione di quelle esistenti, con conseguente taglio al “reddito” di chi già ne gode. E dunque conflitti e disastri diversi.
È vero: il lavoro bisogna crearlo, se si vuole che tutti lo abbiano e dunque se si vuole che tutti abbiano dignità. Ma “creare” significa “trarre dal nulla qualcosa che attualmente non c’è”, ed è cosa difficile.
Ma, forse, qualcosa si può fare, magari guardando al concetto stesso di lavoro con una attenzione appena maggiore di quella che normalmente usiamo.
E forse soprattutto ricordandosi sempre che il lavoro è dignità in sé, senza distinzioni e graduatorie di sorta, almeno dal punto di vista del “valore” di un uomo. Mentre per il reddito il discorso si fa assolutamente diverso, dal momento che a reddito più elevato non corrisponde necessariamente dignità maggiore. È sempre più spesso vero il contrario: i redditi più elevati non di rado concretano ingiustizie e comportamenti non commendevoli, e sempre più spesso agli autori di veri e propri delitti noi riserviamo la nostra ammirazione e il nostro rispetto. Perché ricchi e potenti. E sempre più spesso noi insegniamo ai nostri figli che è necessario guardare ai ricchi ed ai potenti per imitarli, diventare come loro e possibilmente superarli in ricchezza e in potere.
E manifestazione di potere è anche il proporre quella sorta di “carità di Stato” che chiamiamo reddito di cittadinanza: siccome sei mio e mio servo, io Stato ti pago affinché tu continui a servirmi. Cosa questa che si concreta anche nel timore di perdere quel minimo reddito, se chi me lo ha promesso e me lo dà non conserva il potere che si è comprato e che io gli ho venduto.
In realtà, è obbligo di uno Stato far sì che i suoi cittadini abbiano la dignità che deriva dal lavoro, ma è anche obbligo dello Stato far sì che il lavoro lo abbiano tutti e sia a tutti retribuito nella giusta misura. Perché il lavoro non retribuito o malamente pagato non appaga il bisogno di dignità della persona.
E allora, è necessario creare lavoro retribuito giustamente per tutti. Che è quanto di più difficile oggi si possa cercar di fare. Ma probabilmente non impossibile.
Quanto segue espone la sintesi estrema di una ipotesi di lavoro, da prendersi come un quasi delirio, un “pensiero in libertà”, bisognoso di approfondimenti e aggiornamenti di non poco peso.
Dunque: non è forse vero che siamo tutti d’accordo che una “casalinga” – intesa come una donna che si dedichi soltanto alla casa, (e al marito ed alla prole, se ci sono) – svolge una attività delicata, impegnativa, pesante e complessa? E pericolosa, anche? E non è forse vero che l’attività della “casalinga” è nell’immaginario collettivo riconosciuta come vero e proprio lavoro?
Allora, se si tratta di “lavoro”, per quale ragione non è retribuita come tutti gli altri “lavori”?
Il lavoro casalingo va pagato perché “lavoro”.
E proprio perché tale, prescindendo dal sesso di chi lo svolge.
Tra una donna “casalinga” e un uomo che svolge lo stesso lavoro non c’è differenza: bisogna smetterla con quell’alone di ridicolo, con quel sorriso di sufficienza che da noi almeno quasi sempre accompagna l’uomo che fa il casalingo. Che è un impegno culturale, di educazione civica prima ancora che personale.
Certamente chi svolge il lavoro “casalingo” va retribuito. In fondo lo è già, quando a svolgerlo in tutto o in parte è un “collaboratore domestico” il quale sostituisce la padrona o il padrone di casa in mansioni, in genere abbastanza modeste, che questi non intendono o non possono svolgere. In questi casi, è “la famiglia” che assume un lavoratore o una lavoratrice ed è la stessa famiglia datrice di lavoro che assolve agli obblighi che l’assunzione di un dipendente comporta.
Ma si potrebbe pensare a retribuire il lavoro domestico proprio perché lavoro anche quando ad eseguirlo è “la casalinga”, padrona di casa, oppure il padrone di casa che abbia deciso di assumerne l’onore a preferenza di altri lavori. Perché, per esempio, la moglie svolge una attività più interessante e meglio pagata di quella che egli ha svolto fino ad un momento prima, che non gli interessava e che comunque non lo soddisfaceva finanziariamente.
E’ consuetudine ritenere che in una famiglia il lavoro della casalinga – in genere la donna – sia in pratica retribuito dallo stipendio di cui gode il marito: il fatto sembra mascherare una sorta di assunzione della donna alle dipendenze del “capo di casa” per svolgere un lavoro meno importante e forse anche più comodo. E soprattutto, tende a creare una dipendenza non sempre gratificante. Tanto che più di una donna preferisce lavorare fuori di casa – cosa che aggiunge in genere fatica e impegno – piuttosto che dover chiedere al marito o al compagno le risorse per l’acquisto di “cose per se stessa”, dalle scarpe al parrucchiere, all’istituto di bellezza, al teatro con le amiche (…) In questa ipotesi, le famiglie che possono permetterselo assumono personale esterno al quale affidano i compiti necessari: dalla pulizia della casa alla cucina all’assistenza ai bambini o alla vecchia madre…
Generalmente, una donna che lavora (che per tradizione significa svolgere un lavoro fuori di casa, più o meno alle dipendenze di qualcuno) lo fa per sé e per aiutare la famiglia, e non sempre quanto guadagna risolve i problemi. Anche perché quel qualcuno da cui dipende è molto più spesso di quanto non si creda uno sfruttatore del lavoro altrui che cerca di pagare il dipendente il meno possibile. Ed anche perché una parte o tutto ciò che guadagna finisce poi nelle mani della collaboratrice domestica, della baby sitter o della badante.
Allora: non si potrebbe pensare ad uno Stato che retribuisca il lavoro a tempo pieno della casalinga? Non è possibile che una buona parte delle signore che attualmente lavorano fuori di casa sarebbe felice di occuparsi della casa, dei figli, del marito sapendo (anche) che questo lavoro è riconosciuto per la dignità che merita, è retribuito e produrrà un giorno una pensione? Non è pensabile che alcuni dei posti di lavoro attualmente occupati dalle signore che lavorano tornino sul mercato, a beneficio di altre persone che il lavoro non hanno? E sarebbe poi così strano ripetere il ragionamento mettendo al posto delle signore i signori?
Il lavoro casalingo potrebbe essere riconosciuto possibile per uno dei coniugi o comunque dei conviventi riconosciuti, magari fissando anche un tetto al reddito familiare, nel senso che quei XYZ euro di retribuzioni potrebbero esser previsti se il reddito della famiglia non supera un livello da identificarsi, al raggiungimento del quale la retribuzione per il lavoro casalingo potrebbe cessare.
E la retribuzione prevista per il lavoro casalingo potrebbe essere assunta quale base minima di una realistica scala delle retribuzioni. Se dovesse, per pura ipotesi, trattarsi di cinquecento euro al mese, questa sarebbe anche la somma dalla quale partire per retribuire tutti gli altri lavori.
C’è qualche probabilità che un sistema del genere liberi posti di lavoro attualmente occupati da mogli o compagne che pensano di arrotondare gli introiti familiari e che sulla carta guadagnano di più facendo l’operaia o l’impiegata, ma che preferirebbero stare a casa, magari anche rendendosi conto che il costo di una baby sitter e di altri servizi svolti all’esterno già di per sé esaurisce il guadagno extra.
E c’è anche qualche probabilità che, legando la retribuzione del lavoro casalingo ai rapporti tra coniugi e assimilati, migliori l’educazione dei figli e tendano a diminuire le separazioni ed i divorzi.
L’ipotesi di lavoro non è pura follia. La follia pura potrebbe consistere nel pensare che i nostri legislatori riescano a produrre una legge chiara, efficiente ed efficace, fonte anche di quella certezza che invano mi pare invochiamo in Italia.

E siamo arrivati – delirando, se volete – al tormentone della legge elettorale. Perché le buoni leggi non possono che essere il risultato dell’attività di un ottimo legislatore, e il legislatore viene prodotto a sua volta da buone leggi. La legge elettorale è una di queste, e dovrebbe dirci “come” mandiamo al Parlamento i professionisti della Politica perché ci diano le leggi che ci servono. Che è quello di cui ci si occupa, senza impegnar tempo più che tanto a mettere a punto il “cosa” e il “come” quel “chi” che eleggiamo dovrebbe fare.
In materia, pare si pensi a due cose, sostanzialmente: come assicurarsi la vittoria (o anche solo la presenza) in Parlamento e quale legge elettorale prendere a modello da quale Paese.
La Germania è in pole position. Oggi, mentre scrivo. Quando leggerete, non lo so.
Ma una cosa credo di sapere: nessuno esamina la possibilità di sottoporre agli elettori veri e propri programmi di gestione dello Stato.
Perché sanno, i Politici, che una cosa sono i “programmi”, altra le “pianificazioni”.
E queste ultime, per la stragrande maggioranza, sono aggeggi misteriosi e anche un poco pericolosi.