Cattedra: Città, una parola da amministrare

di Paolo Maria di Stefano -

 

Sono certo che la gran parte dei grilli parlanti – adusi in genere al ragionare per slogan e sentito dire – troverà materia di scandalo non tanto nel contenuto di ciò che dirò, quanto piuttosto nella circostanza che tenterò di usare un linguaggio per quanto possibile semplice, comprensibile a tutti, cosa questa che da sempre esclude chiunque la pratichi così dalla dignità della docenza universitaria come da quella della Politica: se tutti capiscono ciò che vuoi dire, significa che stai sbagliando. Oppure – o anche – che quanto dici non ha importanza nessuna.
E io intanto sostengo questo: che non comprendo perché da noi sia ritenuto necessario un corso di formazione seguito da uno o più corsi di aggiornamento per intraprendere ed svolgere qualsiasi mestiere, mentre per “fare” il politico, a qualsiasi livello, null’altro occorre se non una dichiarazione: mi occupo di politica.
E già sento il grillo parlante di turno: ma se esistono scuole di politica a iosa!
E’ vero, ma si tratta di “scuole” di partito nelle quali si insegna al più a condividere ed a “vendere” ciò che il partito offre, quando ha qualcosa da offrire. Che è cosa tutta da vedere. Anche perché chi insegna è al più abile rimestatore d’acqua in un mastello quale che sia.
Manca quello che io chiamo un corso di “istituzioni della Politica”, a mio parere obbligatorio per tutti i cittadini, nel quale sia definita con certezza la Politica e la materia di cui si occupa e siano tracciati i “modi” del fare Politica, a qualsiasi livello.
E, soprattutto, si crei un linguaggio comune che esprima, anche, la “natura” delle cose di cui ci si occupa.
Per esempio, la città, che della politica è materia in quello che i colti chiamano “comune sentire”.
Avete provato mai a chiedere una definizione di “città”?
Avrete le risposte più diverse, compresa “ma che fai, scherzi?”, ma se provate a dire che la città è un prodotto strumentale complesso verrete guardato con una punta di schifo annoiato e subito si parlerà d’altro.
Eppure, io ricorderei agli aspiranti amministratori locali che proprio la natura di “prodotto strumentale complesso” apre la strada alla concretezza di una attività, quella di “amministrare la città”, che in genere si perde tra gli stracci degli interventi a macchia di leopardo, degli interventi tampone i quali tutti, tra l’altro, solo molto raramente rispondono ai reali bisogni della città.
Perché la città in quanto tale, perché prodotto individuo, ha bisogni suoi propri che solo in maniera mediata e bilanciata hanno a che fare con quelli dei singoli cittadini che la abitano e che da essa si attendono la soddisfazione di bisogni ai quali è possibile rispondere solo se lo si fa insieme.
Ed ecco di nuovo i grilli parlanti, ovunque annidati: non vorrai mica sostenere che la città è un prodotto!
Certo che lo sostengo, e lo faccio da decenni senza aver mai trovato chi mi smentisse: la città è prodotto perché tutto è frutto di attività, e dunque prodotto. Non solo: proprio perché prodotto, la città è destinata “alla vendita” (che vuol significare alla accettazione da parte degli abitanti, da un lato, e dei fruitori diversi dall’altro) e dunque deve avere le caratteristiche di essere utile, conosciuta e apprensibile.
Che sono, in estrema sintesi, le materie di cui deve occuparsi chiunque voglia “amministrare” la città: descrivere e pianificare i “prodotti” della città, renderli conosciuti e apprensibili tutti e ciascuno. E farlo in una con il “prodotto città”. Ma se alla città non si guarda come ad un prodotto complesso strumentale, la cosa si fa molto ma molto dura. Perché – come per ogni altro prodotto, bene o servizio che sia – è necessario disporre di un archetipo al quale confrontare il prodotto che va producendosi e sul quale operiamo per quello che si può.
Ricordare che la “produzione della città”, proprio la sua struttura fisica, per esempio, è in grandissima parte assolutamente spontanea, e implica, dunque, non soltanto l’opera di architetti, ingegneri, tecnici diversi, ma anche e soprattutto quella di “educatori”, di “formatori” di “lettori della natura e dei comportamenti e delle relazioni” e quindi la qualità delle scuole e degli insegnanti…
Qualcosa di più va fatto disponendo di un archetipo, appunto, e chiedendosi “cosa” il prodotto strumentale complesso chiamato città è destinato a produrre. E la risposta a questa domanda appare, non ostante tutto, abbastanza semplice. Probabilmente una mano la dà quel fine costituito da ciò che Aristotele chiama “un qualche bene” , in vista del quale la città nasce. Se e quando meglio descritto, questo “bene” (ma meglio sarebbe forse parlare di “prodotto” o di linea o insieme di prodotti) potrebbe concorrere a distinguere la città da altre comunità, le quali tutte sorgono per perseguire “qualche bene”, e le quali tutte pertanto si distinguono le une dalle altre e tutte e ciascuna da quella comunità chiamata città probabilmente non perché perseguono “un qualche bene”, bensì perché perseguono “quel determinato bene” e probabilmente perché lo fanno “in quel determinato modo”.
E siccome con buona pace di molti manager e imprenditori di mia conoscenza un prodotto, bene o servizio che sia, nasce sempre e soltanto per soddisfare un bisogno, significa che sarebbe bene dare una risposta almeno a queste domande:
1.    Di quali bisogni si tratta quando ci si riferisce ad un conglomerato urbano?
2.   A chi il conglomerato demanda la definizione dei bisogni che gli sono propri, di quali di essi si chiede la soddisfazione, con quali priorità, in quale misura e con quali modalità?
3.    Chi deve attivarsi per soddisfare i bisogni propri di un conglomerato urbano?
Qui posso ovviamente soltanto accennare a quello anche a me pare il problema principe di fronte al quale si trova chiunque pensi alla amministrazione della città: la individuazione dei suoi bisogni. E i bisogni che la città assume come propri sono o tendono ad essere o dovrebbero essere la migliore mediazione possibile tra gli stati di insoddisfazione (espressi o meno) dei singoli cittadini, e la loro soddisfazione dovrebbe avere come punto di riferimento questi “nuovi e diversi bisogni mediati” e dunque spersonalizzati, quando li si guardi facendo riferimento ai singoli.
E’ anche da notare come “l’individuo chiamato città”, proprio perché individuo, non soltanto ha suoi propri bisogni, ma ha anche una sua propria scala sulla quale questi bisogni si dispongono, ordinati per intensità. Il che si presta ad alcune considerazioni immediate, prima tra tutte questa: occorre che esista un sistema affidabile per la individuazione della scala di bisogni propri di una città e dunque per la descrizione di ciascuno di essi.
E il sistema esiste: la scala di Maslow, è perfettamente riferibile al “soggetto città”. E dunque concorre alla descrizione dei bisogni di questa ed al disegno della scala delle priorità.
Come credo dimostrato dalle necessariamente brevissime e parziali considerazioni che qui di seguito propongo.
L’accoglienza del cittadino potrebbe essere considerata una linea di prodotti diretti a soddisfare al meglio un bisogno di base della città: la sopravvivenza attraverso l’arrivo di nuovi soggetti. Abitanti di una città si diventa. Per nascita o per scelta, libera o obbligata che questa sia. E allora, ancora una volta sembra incontrovertibile che sia nell’interesse della comunità chiamata città la circostanza che i nuovi cittadini possano giovarsi di un “sistema di ingresso” affidabile e tale da contribuire ad un corretto ciclo di vita non solo della città, ma anche del nuovo abitante nella sua qualità di “cittadino”.
Significa almeno due cose:
-      la prima, che probabilmente andrebbero esplorate (o “meglio” esplorate) le possibilità e l’opportunità di guardare alla “nascita del cittadino” come un insieme di fatti tendenti a “produrre il cittadino” anche in modi diversi dalla nascita fisica;
-      la seconda, che le strutture (l’organizzazione) destinate alla nascita del nuovo cittadino devono essere considerate vere e proprie “organizzazioni produttive” e come tali ordinate e controllate non soltanto dal punto di vista tecnico, ma anche da quello dello scambio a realizzare il quale sono dirette.
La formazione del cittadino è, sempre a mio avviso, in diretta connessione con la sua nascita, e dovrebbe essere considerata una delle risposte al bisogno della città rappresentato dalla insoddisfazione generata “nella città” dalla mancanza di consapevolezza, da parte dei fruitori, che si tratta di una “comunità” , “organizzata”, il cui obbiettivo potrebbe anche essere indicato come “fare in modo che i cittadini ne fruiscano nel migliore dei modi possibili non soltanto per se stessi, ma anche (e soprattutto, da questo punto di vista) per la qualità di vita della città stessa, per la sua sopravvivenza e per la sua proiezione verso “il futuro migliore possibile”.
Dunque, la prima linea di prodotti alla quale si può pensare che una città debba dar vita e debba quindi farne oggetto di scambio sembra poter essere definita come educazione del cittadino, un’attività di formazione complessa, di vastità enorme, ma dalla quale mi pare non si possa assolutamente prescindere. Le regole del “vivere in città” devono essere elaborate e trasmesse, ed occorre che se ne assicuri il rispetto assoluto da parte di tutti. Senza eccezioni. E quando si pensi a quali e quante siano queste regole, ci si rende probabilmente conto che una gestione corretta della linea di prodotti chiamata “formazione del cittadino” è un fatto che non soltanto richiede la massima attenzione, ma anche altissima professionalità.
La salute e la sopravvivenza del cittadino. Non si tratta soltanto della “salute fisica” e della “sopravvivenza fisica” del cittadino- fatti di enorme importanza – ma anche della salute e della sopravvivenza della “persona cittadino a questa qualifica”, al mondo “della cittadinanza”.
Per quanto riguarda il primo aspetto, quello relativo alla salute fisica, è quasi superfluo ricordare che chi abita la città è una persona fisica. Questo senza dubbio significa che si tratta di una persona legata alla sopravvivenza “fisica”, appunto, e che questa sopravvivenza dei singoli è uno dei fattori di sopravvivenza della città.
Ma c’è un secondo aspetto concerne “la salute e la sopravvivenza” del cittadino, che concerne “la qualità, il modo di essere, la persona dell’abitante il conglomerato urbano, del cittadino in quanto tale”. Mutatis mutandis, a questo proposito sono dell’opinione che possa essere in tutto e per tutto ripetuto quanto ho avuto occasione di affermare: il “cittadino” in quanto tale ha una sua propria salute che va oltre il fatto fisico, e che riguarda tutte quelle caratteristiche che fanno della persona fisica “un cittadino” appunto. La cui nascita e la cui morte alla città in nulla o quasi si distinguono dalla nascita e dalla morte fisica.
La sicurezza del cittadino. Non facciamoci illusioni. Per quanto si faccia nella formazione (molto poco, a mio parere, e con costi elevati), in prevenzione (forse anche meno, e forse con costi ancora maggiori) e in repressione (forse qualcosa di più ma forse anche male e comunque con costi tutt’altro che contenuti), pensare che si possano eliminare i crimini e la criminalità appare quanto meno azzardato. Soprattutto ai nostri giorni, segnati da azioni criminali condotte da imbecilli anche non facenti parte della comunità di riferimento con il solo scopo di seminare paura.
E allora ecco che lo stato di insoddisfazione chiamato “insicurezza”, “pericolo” o altro acquista rilevanza primaria e impone una serie di prodotti aventi l’obbiettivo, appunto, di diminuire il grado di penosità del bisogno e far ciò, probabilmente, attraverso la prevenzione e la repressione. Con una preferenza, ovviamente, per la prima.
La libertà del cittadino. La violenza di qualsiasi tipo non soltanto mette in forse la sicurezza degli individui e della comunità di riferimento, ma sostanzialmente nega loro il diritto all’esercizio della libertà. E che la libertà sia un “bene” assoluto, un “valore”, non è assolutamente in discussione. Almeno apparentemente, perché poi nella realtà il contenuto del Valore chiamato libertà – e dunque i prodotti che lo compongono- sembra essere di difficilissima individuazione . E non sarò certo io a risolvere la questione. Io voglio soltanto ricordare che la libertà è un problema di limiti e che tanto più l’uomo è libero quanto meglio conosce questi limiti e si comporta in conseguenza. E voglio anche ricordare che i contenuti della libertà vengono ancora oggi riferiti all’individuo come avulso dalla compagine sociale di riferimento, ad un individuo, dunque, che nella realtà della città o della comunità diversa di riferimento si pone come “altro” e dunque quasi per definizione in conflitto di interessi.
E la città mi pare possa essere considerata uno dei luoghi della libertà oltre che deputati, anche più affascinanti.
Ma non è questa la sede per approfondimenti che meriterebbero ben altro luogo e spazio e probabilmente ben diversa capacità.
Io voglio qui limitarmi soltanto a dire che:
1. I bisogni della città vanno identificati, nel senso di descritti nelle caratteristiche proprie che ciascuno di essi assume in quanto “avvertito dalla comunità nel suo insieme”, dalla città o dall’agglomerato urbano in quanto entità individua diversa dai singoli che la compongono; e vanno ordinati, nel senso letterale di disegnare e descriverne la gerarchia ed i rapporti reciproci, così ricavando una indicazione affidabile circa le priorità;
2. I prodotti che sono destinati ad essere ideati, fabbricati, comunicati e distribuiti per soddisfare in tutto o in parte questi bisogni vanno conosciuti e trattati secondo la loro vera natura, che è “essere oggetto (potenziale o attuale) di scambi”; devono essere gestiti nello stesso modo, e con le stesse tecniche e la stessa organizzazione con le quali una qualsiasi impresa gestisce i propri prodotti e gli scambi relativi, perché i prodotti della città hanno la stessa “causa” dei prodotti d’impresa o, meglio, hanno la stessa “causa” di qualsiasi prodotto desinato allo scambio: essere il mezzo per generare utilità.

La causa della città. Probabilmente, la “causa”, il “fine ultimo” della città si compone di una serie più o meno vasta di “cause” riferibili ciascuna ad una delle linee di prodotti dalle quali è costituito quel “prodotto complesso e strumentale” chiamato città, e può essere genericamente indicata come “creare utilità pubblica producendo, facendo conoscere, distribuendo e garantendo la fruizione di beni e servizi comuni, attraverso la gestione di risorse comuni”.
E’ corretta – checché se ne dica – la qualifica di “impresa” riferita alla città, che certamente deve produrre, comunicare e rendere apprensibili i suoi prodotti, e ciò fa con la precisa “causa” costituita dalla “utilità”, e dunque anche quella di “cliente” attribuita al cittadino il quale, oltre ad essere “fruitore” della città e dei suoi prodotti; oltre ad “acquistarli” sotto forme e con “pagamenti” diversi, dovrebbe partecipare – e di fatti, quando essa è svolta, partecipa – “ad un’attività di ricerca in grado di fornire elementi conoscitivi a chi si occuperà del governo del territorio, consentendo così di formulare finalmente ipotesi ragionate e motivate di programmazioni antecedenti a scelte inaspettate di pianificazione”.
Che è esattamente quanto una qualsiasi impresa dovrebbe fare prima di intraprendere qualsiasi attività diretta ad ottenere, dalla attuazione di uno scambio, l’avveramento della “causa” che le è propria, e che nel caso di una città io ho credo opportuno qualificare come “pubblica” nel senso di “generale e comune”, perché a mio parere il senso di una città che perseguisse innanzitutto (quando non addirittura esclusivamente) utilità privata o di parte sarebbe quanto meno discutibile, anche con riferimento a quella “qualità del vivere” di cui tanto si parla e che certamente, se non realizzata a livelli accettabili, potrebbe provocare in uno scenario futuro parziali fenomeni migratori e di spopolamento.
Che sostanzialmente significa che gli utilizzatori della città nel suo insieme, in presenza di certe situazioni possono decidere di “uscire dalla città” e dunque di non fruirne più. Con questa immediata conseguenza: il prodotto città diviene, per tutto per parte degli abitanti fruitori, un prodotto inutile.
E allora è forse giunto il momento di segnalare alcune conclusioni possibili, a mio parere talmente ovvie da poter essere considerati inutili. Queste, tra le altre.
La prima cosa da fare è l’identificazione puntuale dei bisogni ai quali il prodotto strumentale chiamato città è destinato a dare totale o parziale soddisfazione, e il loro grado di intensità e di urgenza. Poi

  • Occorre descrivere un modello al quale ispirarsi e verso la realizzazione del quale si devono orientare tutte le attività qualificabili come “produttrici della città”. A questo si aggiunge
  •  Una gestione “corretta” delle risorse e dell’organizzazione necessarie perché il prodotto chiamato città possa essere “fabbricato”, “comunicato”, “scambiato” e dunque “fruito”.

In cauda venenum. Problema: forse è tutto giusto e tutto vero. O forse no. E se tutto fosse giusto, chi sono e dove sono i referenti?
Risposta: se non sappiamo chi sono e se non sappiamo dove sono, e sempre che non abbiamo commesso sbagli nella ricerca, vuol dire che non abbiamo insegnanti, professionisti, politici, cittadini degni di questo nome. Il che non è vero.
Soluzione: trovarli e coinvolgerli.
Che è innanzitutto un fatto di creatività e di comunicazione. Della Politica.