ALBERTINI E IL “CORRIERE”: DALLA CRISI DEL 1914 ALL’INTERVENTO

di Alessandro Frigerio -

Torna in formato e-book uno dei più autorevoli e al tempo stesso appassionati resoconti dei mesi che separano l’attentato di Sarajevo, nel giugno 1914, dall’ingresso in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell’Intesa dopo le giornate del “maggio radioso”.

 

albertiniLa crisi del luglio 1914, la neutralità e l’intervento è il nuovo titolo che si aggiunge alla collana “Grande Guerra” in formato e-book, lanciata da Storia in Network . Come nelle uscite precedenti, lo spirito dell’iniziativa è invariato: riportare all’attenzione dei lettori, in occasione del centenario della Prima guerra mondiale, volumi di grande pregio ma ingiustamente dimenticati dai grandi circuiti editoriali. Da una parte saggi e memoriali per rivivere le vicende belliche e i retroscena politici e diplomatici attraverso gli occhi di chi ne fu testimone e talvolta protagonista. Dall’altra, narrativa e poesia, con alcuni titoli che, al momento della loro uscita, fecero letteralmente scalpore e furono premiati dal pubblico al pari di opere oggi considerate come veri e propri classici.
Questo volume di Luigi Albertini (1871-1941) può a buon diritto essere considerato uno dei più autorevoli, storicamente attendibili e al tempo stesso appassionati resoconti dei mesi che separano l’attentato di Sarajevo, nel giugno 1914, dall’ingresso in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell’Intesa dopo le giornate del “maggio radioso”. Documentato, preciso e analitico, è sorretto da una scrittura limpida e a tratti accalorata, che pur abbandonandosi senza remore alla polemica giornalistica riesce a mantenere un punto di vista distaccato rispetto alle complesse vicende politiche e diplomatiche che sancirono il travagliato, e a tratti ambiguo distacco del nostro Paese dalla Triplice Alleanza in favore dell’alleanza con Francia, Inghilterra e Russia.
Albertini, storico direttore del
Corriere della Sera dal 1900 al 1925 – anno in cui, in un clima di progressiva fascistizzazione, venne estromesso dalla guida del quotidiano – mise mano a questo ponderoso volume (il terzo dei cinque tomi di un’imponente opera, Venti anni di vita politica, dedicata al periodo 1898-1918) nell’ultimo periodo della sua vita, sul finire degli anni ’30, per rievocare le posizioni sue e del quotidiano rispetto alle vicende che avevano visto l’Italia liberale affermarsi nel primo decennio del secolo e poi smarrire, dopo la guerra, gran parte del capitale politico accumulato in precedenza.
Albertini schierò subito il
Corriere della Sera, fin dal luglio 1914, su posizioni prima antineutraliste e poi interventiste. Lo fece dall’alto di considerazioni ispirate al tempo stesso alla passione e alla realpolitik. Da un lato con un forte e genuino richiamo al compimento di un’unità nazionale cui mancavano solo gli ultimi lembi di terre irredente – il Trentino e Trieste -, nel solco, se vogliamo, di quella tradizione risorgimentale che ancora accendeva i cuori della borghesia illuminata milanese di fronte allo storico “nemico” asburgico. Dall’altro reputando indispensabile evitare di sottrarsi alle grandi trasformazioni epocali che la guerra avrebbe provocato, e cercando invece di pilotarle a proprio favore. Senza tuttavia cedere ad ambizioni egemoniche rispetto ai popoli slavi: lo stesso principio di nazionalità invocato per Trento e Trieste, spiegava Albertini, non poteva non applicarsi alle esigenze di autodeterminazione delle altre popolazioni sottomesse al vicino impero multietnico.
Gli eventi sono osservati in queste pagine con estrema attenzione, sia negli sviluppi interni sia in quelli internazionali, dando conto delle diverse posizioni in campo. Albertini ricostruisce minuziosamente i momenti della dichiarazione di guerra alla Serbia e le esitazioni della Germania, segue i passi che condussero alla mobilitazione russa e critica la debolezza dell’atteggiamento inglese, che non riuscì a far pesare il suo ruolo di grande potenza – diplomatica prima ancora che militare – nelle settimane che precedettero la consegna delle dichiarazioni di guerra. Ricostruisce le vicende della neutralità italiana e del filotriplicismo di San Giuliano e di gran parte delle gerarchie vaticane. Non trascura gli sviluppi bellici, soprattutto le alterne fortune dell’Intesa e degli Imperi centrali sulla Marna e in Galizia, con i relativi contraccolpi politici in Italia. Polemizza con il neutralismo della
Stampa di Frassati e analizza il ruolo dei cattolici, dei liberali e dei socialisti, dedicando alcune acute pagine alla “conversione” di Mussolini. E condanna senza appello l’azione di Giolitti in favore del “parecchio”, svolta quando ormai la scelta di Sonnino e Salandra a favore dell’Intesa, con la firma del Patto di Londra – siamo nella primavera del 1915 – era ormai cosa fatta.
Pubblicato nel 1951 e mai più ristampato, Storia in Network propone per la prima volta
La crisi del luglio 1914, la neutralità e l’intervento in formato e-book. Il volume è disponibile su Amazon e può essere acquistato cliccando sull’immagine di copertina qui sopra.
In esclusiva per i nostri lettori offriamo un estratto dei primi due paragrafi dedicati al prologo della tragedia, cioè alle tensioni austro-serbe che precedettero il conflitto e all’attentato di Sarajevo.

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Luigi Albertini

Luigi Albertini

Austria e Serbia di fronte
Nel 1914 in Europa si respirava aria di guerra. La conflagrazione generale era stata evitata nel 1906 durante la conferenza di Algesiras; nel 1908-09 dopo l’annessione della Bosnia Erzegovina; nel 1911 in seguito al colpo di Agadir; infine nel 1912-13 durante le due guerre balcaniche ed i loro strascichi. Ma tutte queste crisi, sebbene si fossero superate, avevano creato tale tensione nei rapporti internazionali e provocato tale febbre di armamenti da far apparire la pace come molto precaria. I conflitti latenti erano molti e gravi. Vanno ricordati fra i maggiori quello franco-tedesco per l’Alsazia-Lorena; quello anglo-tedesco per gli armamenti navali della Germania; quello russo-tedesco per Costantinopoli; quello austro-russo per i Balcani; quello austro-italiano per le terre italiane irredente e per l’oriente; quello austro-serbo per le aspirazioni dell’Austria e della Serbia su territori reciprocamente serbi ed austriaci; infine quello serbo-bulgaro per la Macedonia ed ungaro-romeno per la Transilvania. Essi avevano determinato uno schieramento dei contendenti in due gruppi: quello della Triplice Intesa anglo-franco-russa a cui faceva capo la Serbia, e quello delle potenze della Triplice Alleanza e della Romania, verso cui gravitavano Bulgaria e Turchia. Ma Italia e Romania, che rivendicavano terre austro-ungariche e perseguivano una politica balcanica avversa a quella della duplice Monarchia, erano alleate molto incerte degli Imperi Centrali, i quali non potevano contare sulla loro cooperazione in una guerra diretta ad aumentare l’influenza e la penetrazione austriaca nei Balcani.
Quale fra tutti questi attriti avrebbe generato l’incendio? Il più acuto, il più minaccioso era quello austro-serbo. Scomparsa quasi la Turchia dal continente europeo, la grande malata d’Europa era l’Austria-Ungheria. Minavano la sua esistenza le lotte interne fra i molti popoli che componevano il suo decrepito organismo e che volevano ribellarsi al giogo tedesco-magiaro; ma il maggiore pericolo le sovrastava al sud, dove la Serbia non solo le contendeva la marcia verso Salonicco, ma mirava ad assorbire i suoi sudditi slavi.
Le origini del conflitto austro-serbo sono remote. Si può dire che il conflitto nacque il giorno in cui il piccolo Stato serbo ebbe i natali, giacché da’ quel giorno diventò a poco a poco il centro di attrazione degli Slavi meridionali. Basti ricordare che già nel 1866 il principe Michele di Serbia aveva concluso un accordo con Nicola di Montenegro, in base al quale questi s’impegnava ad abdicare quando Michele fosse riuscito ad unire gli Slavi del Sud. Questo principe, che aveva stretto un patto col comitato rivoluzionario bulgaro per proclamare Bulgari e Serbi fratelli chiamati dalla divina provvidenza a vivere assieme sotto la stessa bandiera, vagheggiava un impero degli Slavi meridionali da fondarsi coll’aiuto dei Magiari, i quali invece strinsero l’Ausgleich con Vienna a spese delle altre nazionalità. Michele cadde assassinato e l’Austria prese a favorire il movimento pancroato contro quello panserbo. Fu con la crisi orientale del 1875-78 che il conflitto austro-serbo divenne aperto ed insanabile. L’insurrezione delle due regioni jugoslave, Bosnia ed Erzegovina, contro la Turchia aveva sollevato le speranze dei Serbi che si erano gettati nella lotta in favore dei loro fratelli. Ma queste speranze erano state frustrate dal congresso di Berlino, che aveva dato all’Austria-Ungheria il mandato di «occupare ed amministrare» la Bosnia-Erzegovina.
La politica austrofila di Milan e Alessandro Obrenovic aveva per molti anni fatto tacere il dissidio. Per ottenere il titolo di re con l’appoggio di Vienna, Milan aveva concluso un trattato coll’Austria che metteva la Serbia sotto una specie cli protettorato austriaco e la impegnava a cercare eventuali ingrandimenti solo alle sue frontiere meridionali, il Sangiaccato di Novi Bazar escluso. Forte dell’approvazione di Vienna, nel 1885 Milan attaccava la Bulgaria, era sconfitto, e sfuggiva alle conseguenze della sua temerità in seguito alla minaccia di un intervento austriaco contra la Bulgaria. Il figlio Alessandro, suo successore dal 1889 al 1903, continuava a rimaner legato agli interessi della duplice Monarchia, sospendeva la costituzione liberale del 1889 sostituendola con altra più conservatrice, sposava Draga Maschin, una vedova di discussa reputazione, e nel 1903 nominava un gabinetto militare. Le finanze erano in condizioni deplorevoli; storie scandalose circolavano sul conto della regina accusata di intrigare per assicurare ad uno dei suoi fratelli la successione al trono di Serbia; la condotta personale del Re diveniva sempre più autoritaria, quando un gruppo di ufficiali (fra i quali si trovavano il capitano Dragutin Dimitrievic ed il sottotenente Voya Tankosic, che undici anni dopo ebbero parte considerevole nei delitto di Sarajevo) organizzava e compiva nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1903 l’assassinio dei due sovrani, la fucilazione dei fratelli della regina ed il massacro di alcuni ministri e chiamava al trono Pietro Karageorgevic.
La prima che riconobbe re Pietro fu l’Austria-Ungheria. Ma il nuovo sovrano e gli elementi che lo sostenevano erano di tendenze russofile, e si proponevano di compiere l’unita nazionale del paese procurandogli da un lato i territori serbi occupati dai turchi e dall’altro la Bosnia-Erzegovina. Esponente politico di tale tendenza era Nicola Pasic, che considerava la Serbia il «Piemonte dei Balcani». Il suo partito, quello dei radicali, fondato nel 1881, si proponeva appunto di raggiungere l’unita nazionale con l’aggregazione delle altre parti della patria serba. Ecco fissati i termini del conflitto austro-serbo. L’Austria era spinta ad assorbire o ad assoggettare la Serbia; la Serbia ad ingrandirsi a spese dell’Austria conquistando i territori austro-ungarici abitati da popolazioni slave. Avrebbe vinto il principio nazionale rappresentato dalla Serbia, oppure la monarchia danubiana sarebbe riuscita a salvare la sua compagine ed a trovare ragione di vita con l’espandersi nei Balcani? Evidentemente non era solo con la violenza che l’Austria poteva vincere la partita. Essa doveva fare assegnamento soprattutto sulle simpatie dei suoi sudditi slavi, e cercare che essi, di religione diversa dai Serbi e d’una civiltà superiore, rifuggissero dall’unirsi alla Serbia ed aspirassero al contrario ad attrarre questa sotto lo scettro degli Absburgo, trasformando il dualismo in trialismo, acquistando cioè piena e libera vita nazionale nell’ambito della Monarchia. Poi l’Austria doveva conseguire l’appoggio o per meglio dire la complicità della Russia nell’impresa di assorbimento della Serbia, senza di che avrebbe posto a repentaglio la sua esistenza, come la pose nel 1914, perdendola nel 1918.
Di simili esigenze si rendeva conto l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando, il quale voleva far rivivere l’alleanza dei tre Imperi, rimanere in buoni termini con la Serbia e risolvere col trialismo il problema degli slavi meridionali della Monarchia. L’annessione della Bosnia-Erzegovina e le vittorie e l’ingrandimento della Serbia in seguito alle guerre balcaniche avevano inasprito il conflitto austro-serbo. Sconfitte non erano solo la Turchia e la Bulgaria ma anche l’Austria stessa, che veniva a trovarsi ai confini un Piemonte vittorioso, di proporzioni raddoppiate, verso il quale si protendevano le speranze di liberazione degli Slavi della Monarchia, e che, imbaldanzito dal successo delle sue armi, parlava liberamente di volersi unire al Montenegro, e di aspirare alla conquista di Croazia, Dalmazia e Bosnia, e favoriva una sfrenata campagna di irredentismo sussidiata da mezzi terroristici. Un funzionario della Ballplatz, Musulin, originario della Croazia, visitando dopo una lunga assenza il suo paese nell’estate del 1913, notava un profondo mutamento intervenuto nel sentimento dei Croati: «Ho constatato – scrive egli – che il contrasto tra Serbi e Croati si è in gran parte dissipato nelle classi colte e che l’idea croata si e indebolita in modo significativo… Il mondo intellettuale vive sotto l’impressione di un grande sviluppo della razza serba sull’altra riva della Drava. In molte località v’è la convinzione che la salute verrà di là… L’attività politica della Serbia si fa sentire in tutte le direzioni».
Peggio in Bosnia. Lì la borghesia e in generale la vecchia generazione si accontentavano di un’agitazione legale nella speranza che l’avvento al trono dell’arciduca Francesco Ferdinando, instaurando uno spirito nazionale liberale, mutasse le condizioni del paese. Ma la nuova generazione delle classi medie e povere, i contadini, gli artigiani, i professori, gli studenti non si adattavano al regime esistente, in preda com’erano ad un intransigente nazionalismo jugoslavo che si manifestava col pullulare di piccoli giornali stampati alla macchia. Gli studenti leggevano gli autori rivoluzionari russi, soprattutto Herzen e Kropotkin. Alcuni di essi viaggiavano all’estero ed entravano in contatto coi rivoluzionari russi esiliati. L’assassinio politico li attraeva, esasperati com’erano dalla brutalità della polizia e desiderosi di tener desta con atti terroristici l’ostilità delle masse verso il regime degli Absburgo.
Il primo atto di terrorismo fu il tentato assassinio del governatore della Bosnia, generale Vareshanin, compiuto nel 1910 all’apertura della Dieta dallo studente Bogdan Zherayic. Il primo pensiero di questo era stato di uccidere l’imperatore Francesco Giuseppe recatosi a Sarajevo appunto per inaugurate la Dieta. Ma, considerando che il suo gesto avrebbe avuto per solo risultato l’avvento al trono dell’arciduca Francesco Ferdinando, Zherayic tirò cinque colpi sul governatore. L’attentato fallì e l’attentatore si uccise. Da questo momento Zherayic fu considerato come il primo martire dell’idea jugoslava. Nel giugno del 1912 a Zagabria, un serbo, Luka Jukic, tirava un colpo di pistola sul bano di Croazia, Cuvaj. Nell’agosto 1913 un emigrato croato, Ivan Daycic, ritornava appositamente dall’America per attentare alla vita del nuovo bano Skerlecz, e nel marzo 1914 un altro croato, Jakob Shefer, tentava di uccidere lo Skerlecz al teatro dell’opera di Zagabria.
Si può immaginare l’eco che avevano in Serbia queste gesta. Commentando il 10 giugno 1913 l’attentato contro Cuvaj, la Pravda di Belgrado scriveva: «Dobbiamo deplorare dal profondo del cuore che tutti non abbiano agito come il nostro Jukic. Ma noi abbiamo l’odio, abbiamo la collera, abbiamo oggi dieci milioni di Jukic. Siamo convinti che Jukic dalle finestre della sua cella sentirà ben presto il primo colpo del cannone della libertà». Nei numeri di Pasqua dell’aprile 1914 tutti i giornali serbi esprimevano la speranza che i fratelli non liberati, asserviti, oppressi avrebbero ben presto festeggiata una felice resurrezione.
L’associazione che in Serbia cercava tener desti questi sentimenti, ed in cui il governo austro-ungarico ravvisava non solo il focolare della propaganda irredentista ma anche il centro di organizzazione degli atti terroristici, era la Narodna Obrana fondata nel 1908, quando l’Austria-Ungheria aveva proclamato l’annessione della Bosnia, ed avente un carattere nazionalistico rivoluzionario cui solo apparentemente rinunciò quando nel marzo 1909 la crisi dell’annessione fu alla meglio superata. La legazione russa a Belgrado, a capo della quale era il ministro Hartwig, un panslavista fortemente appoggiato dai nazionalisti di Pietroburgo, soffiava sul fuoco alimentando la propaganda e promettendo l’appoggio della Russia alle rivendicazioni serbe. Ma l’ente più torbido e pericoloso era rappresentato dalla società segreta Unione o morte, detta la Mano Nera. Ai suoi capi, responsabili dell’assassinio di re Alessandro e di sua moglie perpetrato nel 1903, parve nel 1911 che la politica di Pasic fosse troppo debole ed infruttuosa, ed allora serrarono le file e fondarono la Mano Nera, che nel suo statuto diceva di preferire, per raggiungere l’unione di tutti i Serbi, «un’azione terroristica alla propaganda intellettuale», e si proponeva di organizzare «l’azione rivoluzionaria in tutti i territori abitati da Serbi». Un’associazione simile non poteva essere che rigorosamente segreta. I suoi soci infatti, identificati con un numero, non si conoscevano generalmente fra loro; solo il comitato centrale ne aveva l’elenco. Chiunque introduceva un socio nuovo si rendeva garante di esso a prezzo della propria vita. «Ogni membro entrando nell’organizzazione, deve sapere che per questo solo fatto perde la sua personalità». Pronunciata una condanna a morte «la sola cosa importante è che l’esecuzione abbia luogo ad ogni costo, non importa in qual modo». Adeguata a tale spirito la formula del giuramentoiii. Presidente s dominatore della Mano Nera, che aveva soci comuni e legami con la Narodna Obrana, era il colonnello Dragutin Dimitrievic, capo dell’ufficio informazioni dello stato maggiore serbo. E del comitato centrale facevano parte il maggiore Voja Tankosic, il comandante Vulovic ed altri ufficiali superiori. Il prestigio che circondava costoro, il fascino che esercitavano gli uccisori degli Obrenovic e il considerevole numero di ufficiali e di funzionari che appartenevano all’associazione danno un’idea dell’ambiente di Belgrado e spiegano la paura che ebbero sempre Pasic e gli altri governanti serbi di colpire i capi della Mano Nera.
Bisogna aggiungere che Dimitrievic ed alcune delle sue anime perdute avevano qualità di primo ordine ed erano dominati da un fanatismo che superava ogni ostacolo materiale e morale. Secondo lo storico serbo Stanoje Stanojevic, che fu il primo a far luce sulle responsabilità della Mano Nera, Dimitrievic «nel 1903 fu l’organizzatore principale della congiura contro re Alessandro; poi nel 1911 incaricò un suo emissario di assassinare Francesco Giuseppe e l’erede al trono; nel 1914 si accordò con un comitato segreto bulgaro per far assassinare re Ferdinando di Bulgaria, e più tardi organizzò l’attentato contro Francesco Ferdinando; nel 1916 tentò di far ammazzare re Costantino e poco dopo entrò in relazione col nemico e organizzo una congiura contro il principe reggente di Serbia, Alessandro. Perciò fu arrestato, processato, condannato a morte e fucilato al fronte di Salonicco nel giugno 1917».Stanojevic però, radicale e amico di Pasic, è sospetto. Dal processo di Salonicco non risultò che nel 1913 Dimitrievic avesse tentato di far uccidere il principe reggente Alessandro e meno ancora che fosse entrato in relazione col nemico. Anzi quest’ultima accusa non gli fu nemmeno mossa. La verità è che Pasic approfittò dell’occasione per sbarazzarsi con un procedimento balcanico della Mano Nera. La questione sull’ingiustizia del verdetto di Salonicco fu lungamente dibattuta in Serbia. Non è invece da dubitarsi che Dimitrievic abbia avuto nel complotto contro l’erede del trono austriaco una parte predominante.

L’attentato di Sarajevo
Uno degli uomini più odiati e temuti dai nazionalisti sudslavi era l’erede del trono austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, che alla fine del giugno 1914 doveva partecipare in Bosnia alle manovre di due corpi d’armata stabilite da tempo allo scopo di incoraggiare gli elementi fedeli alla Monarchia e riaffermare la irrevocabile intenzione di questa di non cedere al movimento panslavo. All’uopo, con discutibile opportunità, era stata predisposta una visita dell’erede del trono a Sarajevo nel giorno di San Vito, in cui ricorreva il 575° anniversario della sconfitta riportata dai Serbi a Kossovo. Ma prima ancora che si avesse notizia del viaggio dell’Arciduca, nel gennaio 1914, tre bosniaci appartenenti all’associazione rivoluzionaria bosniaca Mlada Bosna (Giovane Bosnia), Gatcinovic, Golubic e Mehmedbasic, si erano incontrati a Losanna ed avevano deciso di far assassinare Francesco Ferdinando ed altri alti funzionari austriaci. L’iniziativa dell’incontro era stata di Gatcinovic, autorevole rivoluzionario bosniaco residente a Ginevra e membro della Mano Nera, il che fa supporre che sia stato il colonnello Dimitrievic a promuovere questa riunione. Certo è che egli fu messo al corrente delle decisioni prese e pienamente le condivise. L’occasione venne offerta dal viaggio dell’arciduca Francesco Ferdinando in Bosnia. Tre giovani bosniaci, che vivevano a Belgrado, gli studenti Gavrilo Princip e Trifko Grabez e il tipografo Nedeiko Cabrinovic, occupato nella tipografia di Stato, dichiaratisi pronti a compiere un attentato contro l’arciduca ereditario, ebbero armi ed appoggi dal maggiore Voja Tankosic, uomo di fiducia di Dimitrievic. Dopo essere stati addestrati al tiro con la rivoltella ed al maneggio delle bombe, i tre cospiratori partivano da Belgrado il 28 maggio con sei granate a mano, quattro browning, munizioni, danaro ed un tubetto di cianuro per avvelenarsi a colpo compiuto, e, ben raccomandati al confine ad ufficiali e agenti di finanza serbi, riuscivano a varcare la frontiera e ad arrivare a Sarajevo. Qui erano accolti dal maestro Danilo Ilic, che fissava il compito di ognuno dei tre esecutori, il proprio e quello di altri tre congiurati da lui trovati ed ignorati dai primi. Gli attentatori così erano sette.
Le parti erano perfettamente distribuite quando il mattino del 28 giugno l’erede al trono degli Absburgo, al rombo delle salve d’artiglieria faceva il suo ingresso ufficiale a Sarajevo (da lui visitata tranquillamente due giorni prima) in un’automobile preceduta da quella del sindaco della città e seguita da altre quattro. Aveva al suo fianco la moglie, duchessa di Hohenberg ed era accompagnato dal maresciallo Potiorek, governatore militare della Bosnia-Erzegovina. Nel tragitto che l’Arciduca doveva percorrere lungo il Quai Appel per giungere al municipio erano scaglionati i sette congiurati. Il corteo stava per giungere all’altezza del ponte Cumuria quando Cabrinovic lanciava una bomba che cadeva sul tetto dell’automobile dell’Arciduca, rotolava a terra ed esplodeva colpendo abbastanza gravemente il tenente colonnello Merizzi, che si trovava nella vettura successiva, e lievissimamente, cosicché se ne accorse solo al municipio, anche la duchessa. Compiuto il suo gesto, Cabrinovic si gettava nel fiume, ma veniva arrestato.
La vettura dell’Arciduca, fermatasi un momento, proseguiva verso il municipio. Francesco Ferdinando era in preda a tal collera che, quando il sindaco cominciava a leggere il discorso preparato, lo interrompeva bruscamente: «Bella cosa! Si viene a visitare la città e si è ricevuti con le bombe». Terminata la cerimonia al municipio il corteo si rimetteva in moto per recarsi prima all’ospedale a visitare il colonnello Merizzi, poi al Konak, cioè al palazzo del governatore.
Ma Francesco Ferdinando non era tranquillo e diceva al seguito: «Credo che oggi ci toccherà ancora qualche pallottola». Giunto presso il ponte Lateiner, lo chauffeur militare, che non conosceva Sarajevo, invece di continuare lungo l’Appelkai, voltava come aveva fatto l’automobile del sindaco che precedeva quella dell’Arciduca. Potiorek gli dava ordine di proseguire per il quai. Lo chauffeur fermava la macchina e faceva marcia indietro per raddrizzarla. Princip, che si era da principio collocato sul ponte Lateiner ma non aveva tirato quando, dopo la bomba di Cabrinovic, l’automobile dell’Arciduca gli era passata davanti, e si era poi portato dalla parte opposta della strada, spianava la sua rivoltella e tirava due colpi. Il primo colpiva l’Arciduca all’arteria cervicale, l’altro la Duchessa al basso ventre. Giunta la vettura al Konak, si constatava che la Duchessa era morta; l’Arciduca spirava poco dopo.