WILHELM RÖPKE, ECONOMISTA LIBERALE DISSIDENTE

di Massimo Iacopi -

I dibattiti in materia di economia tendono spesso a opporre l’ultra liberalismo globalista alle nostalgie socialiste. Tuttavia appare possibile e necessario esplorare altre vie per non restare in questo vicolo cieco.

Il culto del mercato e la logica capitalista dell’interesse non sono mai state tanto denunciati dai media come oggigiorno. Associato alla deregolamentazione (in particolare quella dei mercati finanziari), al passo indietro dello Stato, allo smisurato potere dei “giganti” del business e della finanza, alla concentrazione delle ricchezze, all’esplosione delle diseguaglianze e alla concorrenza selvaggia, il “neo liberismo” viene descritto come un “fondamentalismo del mercato”. Tuttavia, il liberismo non può essere ridotto solo alle sue forme più estreme. Sotto questo aspetto, il pensiero di Wilhelm Röpke (1899-1966) merita oggi di essere tenuto in considerazione.
Molti ideologi, di cui a volte non si sa se desiderano coscientemente o meno il ritorno del controllo dello Stato sui salari e sui prezzi o la rinascita del “collettivismo” di sovietica memoria, sostengono la tesi dell’unità fondamentale del liberismo. Di fatto, il neoliberismo contemporaneo per loro non è altro che il compimento logico e inevitabile del progetto filosofico individualista derivato dalla filosofia dell’Illuminismo. I più radicali si arrischiano persino ad affermare che liberismo e neoliberismo sono arrivati alla loro fine. Per numerosi storici delle idee, le cose non stano esattamente così.

Una ideologia plurale

Contrariamente a ciò che alcuni lasciano intendere, il liberismo e il neoliberismo non sono correnti univoche e monolitiche, Le loro storie sono diverse e pluraliste, fatte di rotture e di disaccordi, così come di continuità e di convergenze. Esiste un liberalismo politico e un liberismo economico, con punti di contatto e di divergenza (si pensi alla classica distinzione crociana tra liberismo come ideale metapolitico e liberismo come puro strumento “gestionale”), ben lungi però dall’essere assoluti e permanenti. Quanto al solo liberismo economico, le differenze che oppongono la Scuola di Vienna (Ludwig von Mises e Friedrich Hayek) o la Scuola di Chicago (Milton Friedman e George Stigler) alla Scuola di Friburgo in Brisgovia (Walter Eucken e Wilhelm Röpke), per limitarsi solo a queste, sono evidenti e profonde.
Forgiato per opposizione al vecchio liberismo, il termine neoliberismo non è nuovo. Esso compare alla fine degli anni ’30 del secolo scorso. La versione revisionata del libro dell’economista tedesco Franz Oppenheimer, Der Staat, del 1929, ha indubbiamente giocato un ruolo precursore in materia. A quell’epoca, però, il senso del termine neoliberismo era molto diverso: corrispondeva al contrario di ciò che assumerà negli anni ’70 a seguito dell’esperienza dei “Chicago Boys”, discepoli ultraliberali di Friedman e dell’influenza degli istituti di ricerca (Think Tanks) inglesi e americani, fautori di uno Stato minimale, come l’Institute of Economic Affairs di Londra o la libertaria Foundation for Economic Education di Atlanta.
Nella comparsa del pensiero neoliberale deve peraltro essere sottolineata una tappa importante: il cosiddetto Colloquio Walter Lippmann, riunito a Parigi nel 1938 per iniziativa di Louis Rougier. Per i 26 partecipanti, si trattava di definire un neoliberismo concepito come una terza via fra il “laisser faire, laisser passer” del vecchio liberismo (il cosiddetto “provvidenzialismo della mano invisibile”) e il dirigismo del comunismo marxista, del nazionalsocialismo, del fascismo e delle differenti varianti keynesiane, planiste e neosocialiste. Gli economisti, politologi e sociologi presenti si erano schierati in maggioranza dietro le figure di Walter Lippmann, Louis Rougier, Jacques Rueff, Alexander Rüstow e Wilhelm Röpke. Le tesi dei vecchi liberali come Ludwig von Mises e Friedrich Hayek erano risultante minoritarie. Per la stragrande maggioranza dei partecipanti risultava evidente che il neoliberismo dovesse accettare una buona parte della tesi dell’intervenzionismo e integrare una dimensione politica, sociale e morale. Il loro neoliberismo o “liberismo delle regole” si definiva in quattro punti: priorità al meccanismo dei prezzi, libera impresa, sistema di concorrenza e Stato forte e imparziale.
La seconda tappa capitale di tale pensiero corrisponde alla nascita della Società del Monte Pellegrino (sopra Vevey, in Svizzera), nell’aprile 1947. Fondata, tra gli altri, da Hayek, Albert Hunold e Röpke questa organizzazione riunì, in occasione della prima conferenza, 37 membri, dei quali la metà composta da Americani. La dichiarazione finale insisteva sulla “necessità di un quadro legale ed istituzionale per preservare il buon funzionamento della concorrenza” (punto 5) e “sulle necessità ed il presupposto di ogni società libera”, ovvero di “un codice morale largamente condiviso che deve governare le azioni pubbliche e private” (punto 8). Hayek occuperà la presidenza dell’organizzazione dal 1948 al 1960 e Wilhelm Röpke gli succederà dal 1961 al 1962. Ma è noto che nel seno della “Società” avverranno importanti discussioni e scontri sulla maniera di comprendere il liberismo.

I fautori dell’ordo-liberalismo

Già a partire dalla prima riunione ordinaria, avvenuta a Seelisberg (Svizzera) nel 1949, l’ordo-liberale Walter Eucken si oppone all’utilitarista Ludwig von Mises. I dissensi vengono di nuovo a galla nell’Assemblea di Torino del 1961, che vedono opporsi Friedrich Hayek e Wilhelm Röpke. Gli ordo-liberali tedeschi e più in genere gli economisti europei di un neoliberismo della terza via, come Bertrand de Juvenel des Ursins, Rueff, Rougier o Maurice Allais vengono giudicati “troppo socialisti”, spesso tacciati di “utopisti reazionari” e persino accusati, non senza perfidia, di “connivenza mascherata con il fascismo”. Essi non tarderanno ad essere relegati in secondo piano dai fautori delle scuole austriache ed anglosassoni, tutte favorevoli al ritorno ad un liberismo classico. La Società del monte Pellegrino evolverà, si radicalizzerà e diventerà, alla fine degli anni 1970, una specie di gruppo di riflessione ultraliberale. Riguardo alla storia ed ai dibattiti politico economici dell’inizio del XXI secolo, il pensiero di Wilhelm Röpke, il grande rivale sfortunato di Friedrich Hayek, assume una dimensione inattesa. Dimenticato e sconosciuto per quasi 40 anni, la sua figura intellettuale merita di essere riscoperta.

Wilhelm Röpke

ropke-wilhelmFiglio di un medico, Röpke nasce a Schwarmstedt, nella Bassa Sassonia (nei pressi di Hannover), il 10 ottobre 1899 e muore il 12 febbraio 1966 a Coligny, nel Cantone di Ginevra. Il suo pensiero rappresenta una interessante sintesi fra la difesa dell’economia di mercato e quella del conservatorismo politico, etico e religioso. Il suo rispetto delle forme di vita tradizionali, la sua ostilità al gigantismo e al culto del colossale, la sua denuncia della società dei consumi e della pubblicità commerciale, la sua critica della distruzione catastrofica dei paesaggi urbani e dell’ambiente naturale, la sua opposizione alla globalizzazione e all’omogeneizzazione delle comunità politiche che giudicava incompatibili con l’eterogeneità culturale della civiltà europea, la sua deplorazione, infine, per la perdita del senso della comunità, ne fanno uno dei grandi economisti neoliberali, avvocato dell’avvento di una “terza via”, al di là del liberismo e del socialismo.
Wilhelm Röpke ha occupato durante la sua vita una posizione di primo piano. Il suo prestigio ha persino finito per eclissare quello di altri economisti e scrittori politici ordo-liberali come Walter Eucken, Franz Böhm, Alexander Rüstow ed Alfred Müller-Armack. Mobilitato nel settembre 1917, un anno prima della fine della Prima Guerra Mondiale, viene ferito nel 1918 in occasione della Battaglia di Cambrai. Decorato della Croce di Ferro di seconda Classe e smobilitato, riprende i suoi studi di economia che aveva iniziato presso l’Università di Göttingen. Si trasferisce quindi presso l’Università di Tübingen e poi in quella di Marburg, dove nel gennaio 1921 difende la sua tesi di dottorato, sotto la direzione dell’economista Walter Troeltsch.
Röpke non sarà solo un professore e un teorico dell’economia, ma anche un consigliere del principe. Lavora inizialmente presso il Ministero degli Affari Esteri, a Berlino, come consulente incaricato dei pagamenti delle riparazioni di guerra. Fra il 1924 ed il 1928 insegna all’Università di Jena e quindi, grazie ad una borsa di studio della Fondazione Rockfeller visita gli Stati uniti, dove studia economia agraria. Nel 1928 amministra corsi di economia politica presso l’Università di Graz in Austria e ottiene, appena un anno più tardi, una cattedra presso l’Università di Marburg. Nel 1930-31 entra a far parte di una commissione di esperti, incaricata di proporre al governo delle politiche anticicliche contro la disoccupazione.

Ostile alla rivoluzione conservatrice e al nazionalsocialismo

Alla vigilia delle elezioni del 14 settembre 1930, che vedranno l’entrata in parlamento del partito nazionalsocialista, Röpke prende nettamente posizione contro l’NSDAP. Una polemica l’oppone agli intellettuali del gruppo della rivista Die Tat, che costituirà il riferimento emblematico della rivoluzione conservatrice fino al giugno 1937. Egli pubblica tre articoli dedicati all’anticapitalismo della rivista e se la prende, in particolare, con Ferdinand Fried fautore delle teorie nazionalsocialiste sulla fine del capitalismo e della necessità dell’autarchia.
Di nuovo, in un discorso pronunciato a Francoforte l’8 febbraio 1933, Röpke critica la demagogia della retorica nazionalsocialista. La sua carriera universitaria finisce tre settimane più tardi, il 27 febbraio 1933, giorno dell’incendio del Reichstag. Decano della facoltà, incaricato di pronunciare l’orazione funebre del suo maestro Walter Troeltsch nel cimitero di Hockerhäuser a Marburg, egli denuncia: “un’epoca che si compiace a convertire il giardino della civiltà in una foresta primitiva”. Dichiarato nemico del popolo ed espulso dall’Università il 25 aprile 1933, Röpke rifiuta di ritrattare pubblicamente e di affiliarsi all’NSDAP ed è costretto a lasciare la Germania, con la moglie e i tre figli. Dopo un breve esilio in Inghilterra e in Olanda, la famiglia si imbarca per la Turchia, dove il regime del presidente Kemal Atatürk accoglie volentieri gli universitari tedeschi costretti all’esilio.
All’Università di Istanbul, Röpke ritrova il suo collega e amico il professore Alexander Rüstow. Occupa la cattedra di economia politica fino al settembre 1937, quando raggiunge l’Istituto universitario di alti studi internazionali di Ginevra.
Durante la guerra, Röpke redige una trilogia famosa Die Geselleschsftskrisis der Gegenwart, 1942, Civitas Humana, 1944 e Internationale Ordnung. Questa trilogia verrà tradotta in diverse lingue e contribuirà a costruire la sua reputazione.

Ispiratore di Adenauer e di Erhard

Alla fine del conflitto Röpke pubblica un saggio più polemico, Die deutsche Frage, 1945, che gli attira le invettive della destra e della sinistra, in quanto, per Röpke, la tragedia della Germania è una conseguenza dello spirito prussiano, del romanticismo e di un certo fondamentalismo nella realizzazione delle idee. Secondo lui, la soluzione per la Germania non può venire che da una rivoluzione morale, da una rieducazione nei valori della civiltà occidentale e da una confederazione di stati autonomi. L’aspetto più caratteristico del lavoro resta comunque la sua prevenzione assoluta contro il collettivismo russo, fatto che spiega perché egli spinga per l’entrata della Germania nella comunità atlantica.
Il suo pensiero e la sua retorica si ritrovano ben presto dentro i discorsi del ministro Ludwig Erhard, che ha ottenuto dagli Alleati, sin dal 1945, di essere nominato ministro dell’economia del governo della Baviera. Röpke diventa consigliere, inizialmente ministeriale e quindi presidenziale nel governo di Konrad Adenauer. Egli difende “l’economia sociale di mercato”, motto già utilizzato da Müller-Armack e sostenuto in Francia, in Italia e in Spagna da Jacques Rueff, Luigi Einaudi e Alberto Ullastres. Ma alla fine rompe con il la CDU (Unione Cristiano Democratici) a causa della sua opposizione all’integrazione tedesca nella comunità europea. La via sovranazionale che si apre negli anni 1950, gli sembra pericolosa per l’avvenire delle patrie e delle culture, sul piano spirituale e dannosa per il mercato, sul piano economico. Il pensiero di Röpke è marcato dalla critica dottrinale ai totalitarismi, allo Stato previdenza e alle politiche keynesiane, ma per certi aspetti anche da una simpatia per il neo conservatorismo politico morale. Egli trae numerosi elementi della sua dottrina da Jean Charles Leonard Sismondi, Pierre Joseph Proudhon, Frederic Le Play, Piotr Elexeievic Kropotkin, Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc, ma la sua famiglia di pensiero è quella di José Ortega y Gasset, Lippmann, Johann Huizinga, Guglielmo Ferrero, Juvenel, Ran Halévi, Julien Benda e Paul Hazard. L’esperienza della fine degli anni Venti è per lui la prova che l’economia non può organizzarsi da sola. Le risposte collettiviste al capitalismo sono delle reazioni che giudica comprensibili di fronte alla miseria, ma egli ritiene che esse rinforzino la condizione miserabile del proletariato e che essa conducano inevitabilmente alla tirannia,

Contro lo Stato previdenziale

Röpke respinge con altrettanta forza lo Stato previdenza, “espressione dell’emozione e della passione delle masse” che “istituzionalizza il proletariato e deresponsabilizza il cittadino”. Tutto questo non gli impedisce di denunciare severamente la poca chiaroveggenza del liberismo classico, la pretesa apoliticità liberale, che egli giudica una mera mistificazione. Il suo liberismo economico è associato al realismo politico. Egli riconosce l’irrazionalità sociale del capitalismo, in particolare l’inevitabile concentrazione della proprietà, l’espansione del salariato, tutte tappe fatali sul cammino del collettivismo e propone strumenti per evitarle, per ristabilire la vitalità imprenditoriale dei lavoratori. La vera causa dello scontento della classe lavoratrice è rappresentata dalla devitalizzazione dell’esistenza che non può essere guarita con salari più elevati, da vacanze o dal gioco. Invece di ingabbiare i lavoratori nel Welfare State, occorre favorire la loro libertà e la loro responsabilità, dare loro la voglia di diventare imprenditori proprietari.
L’ordo-liberismo di Röpke considera che i mercati hanno bisogno di un quadro etico, giuridico e politico per assicurare la sopravvivenza dei valori liberali. Per lui, la concorrenza è indispensabile e la deproletarizzazione delle relazioni sociali, come lotta contro la concentrazione capitalista e in favore della promozione della libera impresa costituiscono dei doveri dello Stato. Il neoliberismo di Röpke non si identifica con uno Stato debole alla mercé delle forze economiche ma con uno Stato forte. Uno Stato capace di ridurre e controllare la concorrenza e di assicurare le condizioni sociali e ideologiche di una economia libera. La libertà economica e l’autorità politica sono per l’economista due facce di una stessa moneta ed esiste una interdipendenza fra le due; l’economia non ha una esistenza indipendente. Il mercato libero è incapace di assicurare da solo una società integrata. La tendenza alla proletarizzazione è inerente alle relazioni sociali capitaliste e, quando non è controllata, ne conseguono crisi sociali e disordini. L’arginamento di questi aspetti è un compito dello Stato. L’economia di mercato non può esistere senza un capitale morale, senza l’appoggio della tradizione, della religione e del senso civico. Lo Stato ha l’obbligo di intervenire nella sfera economica e nella sfera non economica per assicurare le condizioni etiche e sociali sulle quali si basa una concorrenza efficace.
Röpke auspica un’attività economica a livello umano, basata sul tessuto sociale delle piccole e medie imprese. Auspica una legislazione contro i monopoli, la più ampia diffusione possibile della proprietà privata, il controllo del mercato per assicurare una sana concorrenza, un intervento dello Stato limitato ai soli settori indispensabili e una applicazione stretta del principio di sussidiarietà. Richiamando l’attenzione sulla pericolosità delle diseguaglianze estreme, egli accetta la ridistribuzione del reddito e le sovvenzioni, a patto che non intacchino il cuore dell’economia di mercato. Rifiuta di saltare il settore privato a spese delle legittime funzioni dello Stato e deplora l’adozione acritica di tutti i progressi tecnologici, preoccupandosi allo stesso tempo delle conseguenze della distruzione della famiglia tradizionale, della crescita demografica e dell’immigrazione senza limiti. L’edonismo, l’egoismo, il piacere trasformati in idoli, l’atomismo psicologico, il naturalismo e il determinismo costituiscono valori e idee che gli sono completamente estranei. Le parole chiave del pensiero di Wilhelm Röpke, padre della social market economy, sono pertanto: demassificazione, deproletarizzazione, decollettivizzazione e decentralizzazione.
Protestante, Röpke, tiene nondimeno in grande considerazione la dottrina sociale della Chiesa cattolica, con la quale egli cerca di stabilire un punto di contatto. La sua preoccupazione per il deterioramento della tradizione cristiana occidentale e l’irreligiosità dell’uomo contemporaneo non cessa di accrescersi nel corso della sua vita. “La decadenza dell’Europa non è solamente morale e politica – scrive l’economista – essa è anche religiosa”, e aggiunge “tutto è tenuto e crolla a causa della religione”.
Il neoliberismo di Röpke rappresenta l’alternativa perfetta al neoliberismo di questo inizio del XXI secolo. Mentre quest’ultimo difende il capitalismo contro lo Stato, il neoliberismo di Röpke difende lo Stato contro il capitalismo. Russel Kirk, teorico del conservatorismo americano, bestia nera dei neoconservatori di oggi ma fine conoscitore dei disaccordi fra l’utilitarista Ludwig von Mises e l’ordo-liberale Röpke, amava raccontare il seguente aneddoto. Röpke, sostenitore dei giardini operai, piccoli appezzamenti di terra messi a disposizione degli abitanti dalla municipalità di Ginevra, mostrò un giorno a von Mises gli operai che scavavano e curavano le loro parcelle. A questa vista von Mises scosse mestamente la testa: “Una maniera veramente inefficace di produrre alimenti”. Al che Röpke rispose: “Forse si, ma forse no, perché è anche un modo efficace di produrre felicità umana”.
Precursore e Cassandra, come lo erano i prestigiosi colleghi ordo-liberali e neoliberali degli anni 1930-1970, Wilhelm Röpke aveva la convinzione che una società ossessionata dal PIL, preoccupata esclusivamente dall’efficacia del sistema economico indipendentemente dalle conseguenze sugli essere umani, va inevitabilmente incontro all’autodistruzione.

Per saperne di più
Jean Solchany, Wilhelm Röpke, l’autre Hayek: Aux origines du néolibéralisme, Paris, Publications de la Sorbonne, 2015
Samuel Gregg, Wilhelm Röpke’s political economy, Edward Elgar Publishing Limited, 2010
Friedrich A. von Hayek, Liberalismo, Rubbettino, 2012
Giuseppe Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Rubbettino, 2015