LO STATO E L’ETICA
di Benedetto Croce -
In questo breve saggio del 1924, poi raccolto in Etica e politica nel 1931, Croce indaga il rapporto tra politica e morale. Il filosofo mette in guardia dall’esaltazione dello Stato etico, che «non tollera né sopra né accanto a sé altre forme di associazione, che tutte debbono essergli sottoposte, ovvero sono da esso negate e annullate».
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Nell’operare politico, nel procurar di conseguire un determinato fine, tutto diventa mezzo di politica, tutto non escluse in certa guisa la moralità e la religione, ossia le idee, i sentimenti e gl’istituti morali e religiosi. La situazione iniziale è data caso per caso: gli uomini coi quali si ha da fare, sono inizialmente quello che sono; i loro concetti, i loro preconcetti, le loro buone o cattive disposizioni, le loro virtù e i loro difetti porgono il materiale sul quale e col quale bisogna operare, e non c’è modo di commutarlo con altro che piaccia meglio. Se bisognerà, per accordarsi con essi in una comune azione, per muoverli al consenso, carezzare le loro illusioni, lusingare la loro vanità, fare appello alle loro credenze più superstiziose e più puerili, per esempio il miracolo di san Gennaro, o ai loro concetti più superficiali o più superficialmente intesi, per esempio l’eguaglianza, libertà e fraternità e gli altri cosiddetti «principi dell’89» (che, quale che sia il loro valore teoretico, sono nondimeno grosse realtà passionali), converrà adoperare questi mezzi. Né c’è da prenderne scandalo. Ogni forma dell’attività umana, nell’atto che si dispiega, si afforza delle altre tutte, e i prodotti delle altre tutte sottomette a sé e fa suoi. Tanto varrebbe, dunque, scandalizzarsi del poeta che pensieri ed affetti, e gioie e dolori, e bene e male, tutto adopera come materiale di poesia, tutto riduce a immagini alate.
Ma non c’è da prenderne scandalo anche per un’altra ragione. Come la poesia, che è tutta poesia, non discaccia dallo spirito e dal mondo la riflessione, la critica e la scienza, e anzi le prepara e quasi le chiama, così la politica, che è e non può non essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non c’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sé, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale, nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità.
Ora lo spirito etico ha nella politica la premessa della sua attività e insieme il suo strumento, quasi un corpo che esso riempia di un’anima rinnovata e pieghi ai suoi fini. Non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica; prima il «vivere» (dicevano gli antichi), e poi il «ben vivere». Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo. E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica. Osserva uno storico, nel riferire due lettere di san Bernardo, scritte nel corso della sua vivace e varia lotta a pro della Curia contro re Ruggiero di Sicilia, e nelle quali a breve distanza di tempo si asseriscono due cose opposte, che «codesta era ben politica, ma non politica da santo»; al che si deve controsservare che era appunto «politica da santo», di un santo che nell’attuare i suoi fini santi si valeva (da galeotto a marinaro) dei soli mezzi reali di attuazione, che erano quegli offertigli dalla politica. E il protestantesimo stesso, che tanto contribuì a restaurare l’intimità e sincerità morale, non dové adottare, sin dall’inizio, metodi politici, e imparare poi, per questa parte, dai suoi avversari gesuiti, eccellenti maestri di tali cose in dottrina e in pratica?
L’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serva da strumento di vita morale. Ma, come la cerchia della politica non è la sola, così neppure basta a sé stessa; e questo è necessario avvertire affinché la specificità non sia mal concepita e travisata in una sorta di partenogenesi e non s’immagini che possa darsi in concreto un politico privo affatto di coscienza morale; il che varrebbe ammettere che si possa essere «uomo politico» senza essere «uomo». La specificazione sorge sempre sul tronco dell’unità e dell’umanità come momento di un circolo spirituale: un poeta che non avesse esperienza di affetti, di moralità, di pensieri, un poeta frigido, ottuso e deficiente, sarebbe mai poeta? Non è risaputo che la poesia è l’espressione di una personalità, e perciò che, per creare poesia, occorre in primo luogo lo svolgimento di tutto l’uomo? Non ridiamo noi di quei pretendenti poeti, che inseguono la poesia mercé sforzi stilistici e procedimenti metrici e notazioni di ciò che cade loro sotto i sensi, e non li consigliamo a tornar bene indietro, alle radici dell’essere, e a farsi un cuore e un intelletto? Similmente un politico senza esperienza e perciò senza coscienza morale, non solo non durerebbe nell’opera sua, non le si consacrerebbe come ad alto ufficio, ma non potrebbe neppure maneggiare gli altri uomini, giovandosi come di comodi strumenti dei loro sentimenti morali, la cui psicologia gli sarebbe ignota perché non mai da lui vissuta; e perciò egli non potrebbe essere neppure, come si dice, «politico cinico».
Ma nella cerchia etica, nella quale ora siamo entrati, non si tratta più dell’esperienza morale e umana, indispensabile al puro politico; la cerchia politica è qui oltrepassata: si vive la vita morale, alla quale, come si è detto, la politica è mezzo e non fine. L’uomo morale è il vir bonus agendi peritus; la sua educazione morale richiede insieme l’educazione politica, e il culto e l’esercizio delle virtù più propriamente pratiche, come la prudenza e l’accorgimento e la pazienza e l’ardimento.
In questa elevazione dalla mera politica all’etica anche la parola «Stato» acquista nuovo significato: non più semplice relazione utilitaria, sintesi di forza e consenso, di autorità e libertà, ma incarnazione dell’ethos umano e perciò Stato etico o Stato di cultura, come anche si chiama. E, con la parola «Stato», prendono nuovo significato quelle di «autorità» e di «sovranità», che sono ormai l’autorità e la sovranità del dovere e dell’ideale morale; e di «libertà», che in quanto libertà morale non può non essere tutt’una cosa con quel dovere e con quell’ideale; e di «consenso», che è ormai approvazione etica e devozione bensì alla «forza», ma alla forza che è forza di bene, sicché il consenso non è più o meno forzato, ma si fa pieno e intero, dal terrore si passa all’amore, dalla «legge» alla «grazia», per dirla in termini teologici; e perfino prende nuovo significato la parola «eguaglianza», che non vuol dire più eguaglianza matematica, ma la cristiana eguaglianza in Dio, di cui tutti, umili e alti, siamo figli, coscienza della comune umanità e dei comuni diritti; e via discorrendo. Lo Stato etico, per questo suo carattere, non tollera né sopra né accanto a sé altre forme di associazione, che tutte debbono essergli sottoposte, ovvero sono da esso negate e annullate. Quando la Chiesa fronteggiava Io Stato e primeggiava, la Chiesa era il vero Stato etico; e quando lo Stato terreno impegnò la lotta con la Chiesa, non si fu arrestato che non l’ebbe in sé risoluta, considerando sé stesso come la vera e unica Chiesa, rappresentante delle esigenze di una più perfetta moralità.
Sotto quest’aspetto, può sembrare irreprensibile, se anche ridondante, quell’esaltazione dello Stato, che, iniziata nel periodo classico della filosofia germanica dallo Hegel, e ripetuta in Italia dallo Spaventa e da altri, risuona ancor oggi di frequente nella scuola. Poiché lo Stato veniva inteso come la vita morale, la concretezza stessa della vita morale, era affatto conseguente innalzarlo al fastigio sul quale il Kant aveva collocato la legge morale, e proporlo a oggetto della medesima reverenza e venerazione. Ma l’errore di quei dottrinari consisteva, e consiste, per l’appunto nell’aver concepito la vita morale nella forma, a lei inadeguata, della vita politica e dello Stato.
Lo Stato, politicamente inteso, cioè lo Stato senz’altro, coincide, come sappiamo, col governo; ed è un rapporto di autorità e consenso, che ha a fronte come nemici, e tratta come tali, quelli che non l’accettano e intendono a cangiarlo. Costoro vengono dichiarati, secondo i casi, traditori, ribelli, cospiratori, indesiderabili, e mandati a morte, alle prigioni, agli esili, e in altri modi perseguitati e castigati. E per la tendenza che ha e deve avere quel rapporto politico, ossia quell’ordinamento statale, a conservarsi, sono altresì da esso tenuti d’occhio e in sospetto tutti gli spiriti liberi e indocili, e perfino gli uomini di critica e di pensiero, i quali, avendo lo sguardo all’eterno, vanno sempre oltre l’esistente e il presente. I governanti, alternando alle intimidazioni le lusinghe, procurano anche di amicarsi questi uomini o di guadagnarseli; e i più diversi regimi si circondano di «letterati», o, come ora si dice, d’«intellettuali», che poi, in quanto riescono a esser docili e si prestano ai servigi dello Stato e a coniare teorie o poemi utili allo Stato, non possono essere, com’è da aspettare, se non letterati e intellettuali di qualità poco fine. Per quelli di buona razza e di tempra fine, per gli indocili, pei tormentatori e turbatori di sé e degli altri, pei tentatori e seduttorí di anime, il poeta dei poeti ha messo in bocca al politico il motto: «He thinks too much: such men are dangerous»; e un teorico ha formolato la sentenza: «Omnis philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa».
Ma la vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo e i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie dell’avvenire e procurano l’avanzamento delle società umane. Per essa non vi sono altri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri dell’idea. Per essa ciascun uomo di buona volontà serve alla causa della cultura e del progresso a sua guisa, e tutti in concordia discorde.
Concepita la «moralità» come «Stato etico», e identificato questo con Io Stato politico o «Stato» senz’altro, si giunge alla concezione (dalla quale i teorici di quella scuola non rifuggono), che la moralità concreta è tutta in quelli che governano, nell’atto che governano, e i loro avversari debbono considerarsi avversari della morale in atto, degni non solo di essere, secondo legge e fuor di legge, puniti (che s’intende o può intendersi), ma di alta condanna morale. È, per così dire, una concezione «governativa» della morale, la cui prima origine si può anche giustificare relativamente, cioè in relazione alla polemica a cui si sentì spinto lo Hegel contro le velleità e la vaporosità e la presuntuosità romantiche delle anime belle e sensibili (onde gli parve opportuno lodare sull’uomo geniale e sull’eroe il buon cittadino), e, se non giustificare, si può spiegare nel rimanente con la personale disposizione conservatrice dello Hegel, ligio allo Stato prussiano della restaurazione; ma che non comprendiamo come possa formare ancora oggetto di tanto fervore quanto se ne sente presso gli scrittori della scuola, che sembrano inebriarsi e cadere in estasi all’immagine sublime dello Stato. Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governamentale, bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; cosi fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone.