In libreria: A scuola di declino

81nq9bfymzl-_sl1500_Una trentina d’anni fa l’editore Bonacci pubblicò Il capitalismo e gli storici, opera di un team di studiosi capitanati da Friedrich Hayek, autorevole rappresentante della scuola liberale e liberista. Vi si denunciava l’infondatezza dell’immagine marxista della rivoluzione industriale intesa come sfruttamento di uomini, donne e bambini sradicati da una salubre vita pastorale, schiavizzati da un capitalismo barbarico e vorace. Il volume era a sua volta una riedizione dell’originale uscito trent’anni prima. Oggi, con uguale intento analitico ma circoscrivendo il tiro alla persistenza dell’immagine nei manuali scolastici si è cimentato un pool di docenti universitari e professori di liceo. Con risultati a dir poco sconcertanti. A scuola di declino: la mentalità anticapitalista nei manuali scolastici (di A. Atzeni, L.M. Bassani, C. Lottieri, Liberilibri 2024) fa emergere un quadro  tetragono a qualsiasi cambiamento culturale o revisione storica. Scorrendo le pagina di questo volume le lancette dell’orologio non sembrano ferme a qualche trentennio fa: per la loro immobilità appaiono scolpite nella pietra ai tempi del barbuto autore de Il Capitale. Autore che, forte della sua ambiziosa onniscienza (filosofo, economista, politologo, storico, giornalista e politico, Wikipedia docet), viene ancora oggi elevato a maître à penser nei più diversi ambiti dello scibile scolastico.
Ecco allora che nei manuali di oggi la borghesia capitalista continua ad essere descritta come artefice di uno sviluppo economico e tecnologico malsano, cui solo il socialismo e il welfare potranno porre rimedio. E l’autorevole scopritore delle leggi che regolano i rapporti economici – così un brano che ricalca Engels – «è la più grande mente dell’epoca nostra […] come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana». Legge basata su assunti come la teoria dell’accumulazione iniziale del capitale, il plusvalore e l’alienazione, tutti concetti astratti, spesso fallaci e che non reggono a una critica logica e attenta. Ma accettati da oltre mezzo secolo senza batter ciglio da insegnanti (a scrivere i manuali sono soprattutto loro) spesso del tutto digiuni di nozioni economiche.
Il risultato, spiegano gli autori, va però al di là della semplice rielaborazione faziosa dei fatti storici o dell’atteggiamento indulgente verso ideologie socialisteggianti o dal sapore dirigista se non addirittura pianificatorio. E non è nemmeno tutta colpa della tradizionale visione marxista che attribuisce ai rapporti economici l’origine di ogni cambiamento politico, sociale e spirituale vissuto dall’umanità intera. Più pericoloso è il sedimentare continuo nel discorso culturale (che inizia appunto dalle scuole e dalle università) di un atteggiamento acriticamente anticapitalista che per contrappunto ha assunto le forme dell’elogio del burocratismo statale, del terzomondismo e dell’ecologismo catastrofista. Forme, se vogliamo, di per sé approvabili o contestabili in modo razionale. «Il punto cruciale, però, è che gli autori dei testi scolastici non sembrano in alcun modo interessati a che vi sia un confronto tra posizioni differenti: sposano ogni ideologia avversa al mercato e ai diritti individuali con il furore di chi sta difendendo l’unica tesi ammissibile e in questo modo non ritengono opportuno offrire un punto di vista alternativo». Se la cultura politica italiana è ai minimi termini e se il nostro è tra i paesi al mondo quello che meno è cresciuto negli ultimi quarant’anni, la spiegazione si trova anche in queste pagine.
A. Atzeni, L.M. Bassani, C. Lottieri, A scuola di declino: la mentalità anticapitalista nei manuali scolastici – Liberilibri, Macerata 2024, pp. 156, euro 16,00

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Paolo Borruso, L’Italia e l’Africa: strategie e visioni dell’età postcoloniale (1945-1989) – Laterza, Roma-Bari 2024, pp. 288, euro 22,00
L’impero coloniale italiano è crollato con la Seconda guerra mondiale, molto prima rispetto a quelli delle grandi potenze europee. Paradossalmente, proprio questa decolonizzazione ‘precoce’ ha consentito all’Italia un impegno, sul piano politico e diplomatico, in termini non più di soggezione ma di partenariato. La creazione dell’associazione euro-africana, prevista dai Trattati di Roma del 1957, è stata un’occasione per giocare un ruolo ponte e acquisire una fama inedita presso i paesi di nuova indipendenza. A interagire con queste prospettive fu anche la Chiesa cattolica. Le aperture del Concilio Vaticano II – cui partecipò per la prima volta una visibile rappresentanza africana – e le attenzioni manifestate da papa Paolo VI con i suoi viaggi in Africa, impressero una spinta decisiva alle proiezioni africane dell’Italia. In questo quadro entrarono in gioco nuovi soggetti della società civile, come l’associazionismo cattolico e laico e le reti missionarie, che contribuirono alla maturazione, nella società italiana, di una sensibilità e di un variegato slancio solidaristico.
Tutto questo si esaurisce con il 1989: la fine del mondo bipolare e, sul piano interno, la dissoluzione di assetti politici e il crescente fenomeno immigratorio, aprono una stagione di forti spinte introspettive e ‘afropessimiste’. Si incrina, così, quella proiezione unitiva che aveva animato visioni e strategie sul piano politico e a livello collettivo, isolando l’Italia e condizionando gli sviluppi di un’eredità storica di lungo periodo.

Mark Gilbert, Fuori dall’abisso: dal fascismo alla democrazia, storia del miracolo politico italiano 1940-1954 – Rizzoli, Milano 2024, pp. 600, euro 25,00
Una nazione dilaniata da una guerra mondiale perduta, sepolta sotto le macerie di un regime crollato, abbandonata dal suo stesso re, piagata da una povertà dilagante e priva di qualsiasi credibilità internazionale. Questa era l’Italia del 1945, dopo il collasso finanziario, politico e persino morale che l’ave- va investita. Dieci anni dopo, quello stesso Paese entrava a far parte delle Nazioni Unite, guidava da protagonista il processo di ricostruzione del continente e correva a grandi passi verso il «miracolo» del boom economico. La stampa era libera, la vita politica fiorente e una vibrante società civile affrontava una modernizzazione impetuosa, realizzando una delle trasformazioni nazionali più impressionanti a cui la storia europea recente abbia mai assistito. Com’è stato possibile? Mark Gilbert risponde a questa domanda con un sapiente uso delle fonti e una prosa che sa catturare il lettore senza mai perdere il rigore dello storico. Fuori dall’abisso è un imponente affresco sociale ma soprattutto una straordinaria galleria di ritratti: grandi personaggi in un’epoca di grandi passioni e grandi ideali. Uomini al centro della Storia, quella dell’Italia e quella del mondo intero: da Togliatti e Secchia, in un Pci diviso tra aspirazione di progresso e fedeltà a Mosca; passando per Nenni e i socialisti, che riu-scivano a vedere gli orrori del comunismo reale ma non a recidere il cordone ombelicale che li legava al mito dell’Urss, per arrivare ai partiti minori, con la loro vitalità e i piccoli egoismi. E infine, i protagonisti della Democrazia cristiana, primo fra tutti Alcide De Gasperi, una figura che ha avuto un ruolo centrale per la Repubblica e tuttavia è oggi spesso quasi dimenticata. La sua opera fu decisiva per permettere all’Italia di uscire dal buco nero del fascismo e della guerra, imboccando il cammino che dal totalitarismo la portò alla democrazia e allo sviluppo.

Gastone Breccia, L’ultimo inverno di guerra: vita e morte sul fronte dimenticato – Il Mulino, Bologna 2024, pp. 330, euro 27,00
Nel pomeriggio del 13 novembre 1944, il generale Harold Alexander, comandante del XV Gruppo d’Armate alleato, trasmette alla radio un messaggio rivolto ai partigiani attivi oltre le linee tedesche: le piogge e il fango hanno ormai fermato l’offensiva angloamericana, e i patrioti devono prepararsi a una nuova fase della lotta. Inizia così l’ultimo inverno di guerra in Italia. I partigiani si trovano di fronte alla scelta tra sbandarsi e sopravvivere o tentare comunque di contrastare il nemico; i tedeschi, si impegnano con feroce tenacia nella difesa della valle del Po. Per tutto l’inverno si combatte una durissima guerriglia, mentre i civili attendono la fine della «stagione morta», chi fiducioso nella vittoria alleata, chi temendone le conseguenze. A ottant’anni dall’inverno decisivo per le sorti dell’Italia, Gastone Breccia racconta i mesi meno conosciuti della guerra di liberazione.

Marco De Montis, Dal lampo rosso ai bagliori di guerra: dall’Italia dei record aeronautici alle esigenze belliche, industria italiana e anglosassone a confronto, 1933-1943 – LoGisma Editore, Vicchio 2024, pp. 204, euro 26,50
Negli anni Trenta l’Italia dominava la scena aeronautica mondiale, i primati tecnici e sportivi conquistati e le crociere di massa a lungo raggio di Italo Balbo posero l’Italia all’attenzione del mondo intero. Pochi anni dopo quella stessa tecnologia vincente si trovò a fronteggiare la Seconda guerra mondiale ma non resse il confronto con le altre nazioni. Questo libro illustra e spiega come sia stato possibile non dare seguito alle eccellenze acquisite per precipitare così rapidamente nel tragico abisso della guerra senza la preparazione necessaria. Contemporaneamente si esamina la rapida e impressionante ascesa del potere aereo degli Alleati. I numeri e le statistiche parlano chiaro: il divario fra Italia e paesi anglosassoni si fece via via sempre più ampio, fino a diventare incolmabile. L’autore ci accompagna nella sua analisi rigorosa, con l’ausilio di 200 illustrazioni, offrendoci gli strumenti per la lettura di un decennio che fra diverse situazioni politiche, tecnologiche, produttive e organizzative fu determinante per il progresso dell’aeronautica.

Ernesto Galli Della Loggia, Una capitale per l’Italia: per un racconto della Roma fascista – Il Mulino, Bologna 2024, pp. 240, euro 16,00
Roma fu il luogo dove l’atmosfera novecentesca abbigliata in veste fascista ebbe le sue maggiori manifestazioni pubbliche, dove il regime impregnò di sé opere e sogni, vie e piazze, campi sportivi e studi cinematografici, periferie e istituti culturali, testate giornalistiche e aule universitarie. Rimessa prepotentemente al centro della vita nazionale, la scena urbana della capitale fu per antonomasia la scena del fascismo. Adesso che il ventennio è una vicenda ideologicamente e politicamente conclusa, anche la Roma del duce può essere finalmente vista non solo come un panorama di crimini archeologici e urbanistici, ma nel suo rapporto con le grandi correnti culturali e artistiche del Novecento e come il luogo di nascita di una nuova società borghese destinata a stabilire una sorta di «egemonia romana» sulla futura Italia democratica.

Aram Mattioli, Tempi di rivolta: una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti – Einaudi, Torino 2024, pp. 384, euro 32,00
Siamo abituati a immaginare la storia dei nativi americani come una storia di infinita oppressione subita passivamente; a pensare che dopo le grandi battaglie in cui capi leggendari sfidavano leggendari generali i popoli indigeni del Nord America abbiano accettato in maniera stoica il proprio destino di sconfitti. Ma le cose non sono andate proprio cosí, anzi, la loro resistenza non si è mai fermata, ha trovato altre strade: dalla disobbedienza civile ad azioni di protesta anche dura. E ancora oggi il popolo delle antiche tribú fa sentire la propria voce contro le politiche statunitensi che non hanno mai smesso di essere coloniali. Gli attivisti indiani, deposti le asce, l’arco e le frecce, hanno continuato a considerarsi guerrieri ma di tipo nuovo, cercando di raggiungere i propri obiettivi con i mezzi resi disponibili dalla costituzione, dalla democrazia e dallo stato di diritto degli Usa. Nella loro resistenza si sono serviti di risoluzioni, petizioni e sconfinamenti organizzati di massa della frontiera canadese-americana, per rivendicare le promesse sancite dai trattati storici; cosí come di pressioni politiche sul Congresso e di udienze e azioni legali. Aram Mattioli, uno dei massimi studiosi delle popolazioni indigene nordamericane, ci racconta, in modo documentato e appassionante, le pagine piú vivide di questa resistenza, restituendoci il ritratto di uomini e donne dimenticati che nel corso dell’ultimo secolo non hanno smesso con spirito indomito di denunciare le ingiustizie subite e di conquistare i propri piccoli spazi di libertà; e mostrandoci come la resistenza indigena attraversi come un filo rosso la storia statunitense del XX secolo, inserendosi nel contesto globale delle lotte per l’autoaffermazione anticoloniale.

Guido Barbujani, L’alba della storia: una rivoluzione iniziata diecimila anni fa – Laterza, Roma-Bari 2024, pp. 208, euro 20,00
Diecimila anni fa, nella preistoria, si sono messe in moto trasformazioni che ancora ci riguardano, che ancora influenzano il nostro modo di lavorare, di vestirci, di mangiare, di confrontarci con gli altri membri della nostra comunità. È una rivoluzione che ha cambiato anche l’ambiente intorno a noi e le nostre relazioni con piante e animali, tanto che il DNA – sia il nostro, sia quello di molti animali e piante – ne è uscito diverso. Si chiama rivoluzione neolitica: il momento in cui, più che in qualunque altro, biologia e cultura si sono intrecciate, influenzandosi a vicenda e producendo la nostra storia. È stato allora che un’umanità in precedenza sempre affamata ha cominciato a produrre il cibo di cui aveva bisogno, e quindi a crescere e a diffondersi sul pianeta. Nel giro di qualche millennio la rivoluzione è arrivata ovunque, sulle gambe dei rivoluzionari che dalla Mezzaluna fertile, dalla Cina, dall’America centrale e dalle Ande hanno esportato in tutto il mondo i propri geni, le piante coltivate e gli animali allevati. Abbiamo iniziato ad abbattere foreste, per farne campi e pascoli, modificando il paesaggio; abbiamo smesso di essere nomadi, costruendo villaggi e poi città dove ha preso forma la nostra società, anche in certi suoi aspetti che sembrerebbe difficile collegare alla preistoria. Ma è così: se oggi in Europa molti digeriscono il latte, se abbiamo la pelle chiara e parliamo lingue che si somigliano, è grazie alle migrazioni neolitiche. E non è tutto: abbiamo cominciato a modificare geneticamente piante e animali proprio allora e non abbiamo mai smesso. Ripensarci – oggi che la consapevolezza è cresciuta – ci permette di ragionare più lucidamente su costi e benefici della moderna ingegneria genetica. Allo stesso modo, ricordare come per millenni l’umanità si sia ripetutamente spostata e rimescolata può aiutarci a osservare con meno ansia le trasformazioni che la nostra società sta attraversando, e a spegnere qualche allarme ingiustificato.

Luciano Capone, Carlo Stagnaro, Superbonus: come fallisce una nazione – Rubbettino, Soveria Mannelli 2024, pp. 214, euro 16,00
Il Superbonus avrebbe dovuto essere lo strumento per il rilancio dell’economia italiana dopo le chiusure per il Covid e un caposaldo della via italiana alla transizione ecologica. Invece, assieme agli altri bonus edilizi, è stato il più costoso intervento di politica economica della storia repubblicana, il più colossale fallimento delle strutture tecniche che avrebbero dovuto stimarne l’impatto di bilancio, il più gigantesco trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi, e il più gettonato argomento della campagna elettorale da sinistra a destra. Un disastro del genere non poteva che avere una condivisione trasversale, pressoché unanime, da parte della classe politica italiana e degli interessi organizzati. Insomma: il Superbonus ha rappresentato la grande illusione che si potessero avere “gratuitamente” crescita economica e transizione ecologica; e si è rivelato la più pesante zavorra che abbia mai ingessato le nostre finanze pubbliche. Il Superbonus incarna perfettamente tutte le illusioni della politica italiana: l’idea “di sinistra” che la strada per la crescita sia lastricata di spesa pubblica e quella “di destra” che si possa fare deficit senza limiti e senza pagare alcun prezzo.