RISVEGLIO DEL PENSIERO CIVILE IN ITALIA ALL’INIZIO DEL ’700
di Arrigo Solmi –
Storico e giurista di ispirazione nazionalista, Solmi individua in questo saggio scritto negli anni ’30 l’avvio di una coscienza civile italiana già dal primo Settecento. È qui che, secondo l’autore, prende le mosse il Risorgimento, innescato poi dalla Rivoluzione francese ma sedimentato in una consapevolezza politica e culturale che attraverso l’età comunale era giunta fino alle Accademie, per svilupparsi in personaggio come Muratori, Maffei, Vico e Giannone.
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L’Italia sul principio del secolo XVIII
Sul principio del Settecento l’Italia era divisa in molti e diversi Stati, di cui alcuni piccolissimi; era, in buona parte, soggetta al dominio degli stranieri, Spagnoli, Austriaci e Francesi, più che mai, campo aperto e insanguinato delle grandi guerre di predominio europeo; viveva la vita oscura e grama di un piccolo paese, che campa sugli avanzi e sulle tradizioni di un glorioso passato, ma che, nell’ora che volge, ha rinunciato a farsi valere e quasi si compone, fiaccato e indifferente, in un silenzio mortale. I suoi governi, quando non dipendono direttamente da volontà straniere, sembrano intenti soltanto a vivere alla giornata o a gareggiare in sterili competizioni di precedenza, o di titoli; la sua nobiltà, che sarà fustigata fra breve dallo scudiscio pariniano, trascina nelle corti o nei salotti mondani una esistenza oscura e vuota; la sua borghesia, decaduta dagli splendori dell’età comunale, è formata di pochi nuclei mediocremente attivi, nelle città impoverite e illanguidite; il suo popolo, destituito di ogni sentimento politico e nazionale, vivacchia neghittoso e servile, sotto il giogo dei suoi molteplici padroni, e sembra un armento, nato solo per cibarsi e per riprodursi, finché la morte non lo spazzi dalle tristezze terrene.
E tra queste rovine, da cui emerge appena qualche segno di vita, giganteggia, soltanto una piccola schiera di spiriti, magni, scienziati, artisti, poeti, pensatori, che par quasi creata per rendere più profondo il dissidio con una moltitudine inerte e neghittosa; sicché anche questo tenue segno di vita, forza superstite della stirpe, sembra cadere sul terreno sterile, incapace di qualsiasi ripresa.
Primi segni di risveglio
Eppure avvenne di fatto che, da quella materia, che pareva inerte, si compose, in ampie e salde linee, la grande opera del nostro Risorgimento; da quelle tragiche rovine, che parevano troppo sconvolte per essere suscettibili di una ricostruzione da parte di un volgo disperso, si leva mirabile e poderoso l’edificio della nuova Italia. Ed anzi, in questo secolo, da cui vogliamo prendere le mosse, proprio nel momento medesimo in cui l’Italia pareva toccare il fondo estremo della sua abbiezione politica, prende inizio il grande movimento, che prepara e avvia la redenzione nazionale. Si deve a quei governi, indigeni o stranieri, la saggia opera delle riforme, che, già avanti la metà del secolo XVIII, sconvolge in Italia il vecchio ordinamento e spinge vigorosamente verso i tempi nuovi. Dalle file di quella nobiltà, che pareva deviata e infiacchita, escono le figure più eminenti del secolo, Marsili, Vallisnieri, Maffei, Verri, Alfieri, che osano i maggiori ardimenti, nel campo della scienza, della letteratura, del pensiero, della politica. La borghesia delle nostre città, forte delle antiche tradizioni, avendo ormai superato il triste periodo delle epidemie e dell’inerzia, riprende a operare silenziosamente, ma energicamente, nelle professioni liberali, nell’artigianato, nei commerci, anelando a forme più libere di produzione e di scambi. E quel popolo sonnolento, che era apparso per tanti secoli indifferente, abbietto e servile, è quello stesso che, nel 1746, a Genova, seguendo l’ardito gesto dell’eroico fanciullo, insorge inerme contro la tracotanza dell’esercito austriaco, libera la città e salva la Francia da una invasione ormai prorompente; è quello stesso che, avanti la fine del secolo, mentre le classi colte e abbienti si piegano umili al vincitore Bonaparte, sferra, quasi inerme, contro le schiere formidabili e vittoriose dei Francesi, la sanguinosa reazione delle Pasque veronesi o le insurrezioni del Monferrato, di Como, di Varese, di Binasco e di Pavia; è quello stesso che, quando, nel 1799, di fronte alle truppe dello Championnet, vedeva fuggire il Re, coi cortigiani, coi ministri e coi generali, nelle montagne dell’Abruzzo, nei fertili campi della Terra di Lavoro, nelle vie popolose di Napoli, opponeva ai vincitori la sua oscura, disperata, eroica reazione.
Sono, in parte, movimenti torbidi e incomposti, correnti spesso incerte di idee e di programmi; ma pure, tra nuvole ancor dense, si scorge la prima luce di una nuova aurora; nel silenzio ancor fondo della notte, suonano gli appelli vivaci di un mondo che si risveglia, si ode il rumore distinto di un popolo in marcia.
Le origini nazionali del Risorgimento italiano
È stato detto e ripetuto a sazietà che, a rompere quel sonno, a fugare quell’oscura cortina di nuvole, era necessaria una scossa violenta, un uragano liberatore, un colpo deciso di una forza esterna. Soltanto questo colpo, si disse, poteva rompere e far saltare la crosta inveterata dell’incoscienza politica e dell’inerzia, che impediva la circolazione del sangue della razza e la libera manifestazione di un pensiero. La Rivoluzione francese, l’intervento delle milizie straniere avrebbero vibrato quel colpo, e da allora, ossia soltanto dagli ultimi anni del secolo XVIII, prenderebbe il suo primo inizio il grandioso fenomeno del Risorgimento italiano.
Contro questa tesi, che fu combattuta già dal Gioberti, dal Balbo e da altri numerosi pensatori e storici, gli studi più recenti hanno accumulato materiali e prove, che dimostrano sempre più chiaramente l’originalità e la forza spontanea di affermazione e di sviluppo del grandioso rivolgimento, che preparò e sospinse l’Italia, nel secolo XVIII, verso la sua redenzione.
Quelle forze, che condussero alla rivoluzione liberale e nazionale dei popoli moderni, sono già tutte in azione in Italia, almeno dalla metà del secolo XVIII; e l’opera delle riforme, preparata e voluta, con sottile ingegno e con instancabile impeto, da pensatori e da patrioti italiani, che seppero vincere le riluttanze dei governi e dei principi o che seppero profittare di qualche felice inclinazione di questi ultimi, anche se più tardi interrotta dai pavidi pentimenti per il terrore della rivoluzione, dà il segno sicuro di una coscienza politica maturata e profonda, che vede chiaramente le esigenze indeclinabili della nuova società, e ad esse si volge, con intuito sicuro e con passo fermo.
È vero: perché quel movimento potesse condurre la patria a unità e indipendenza mancava ancora non piccola cosa: mancava una forza che scardinasse il pesante giogo straniero, il quale teneva quasi tutti i passi alpini, dominando militarmente i nodi strategici più importanti, e favoriva interessatamente il vecchio spirito regionalista e municipale, ancora saldamente abbarbicato. Quella forza non poteva venire che dall’esterno; e venne, infatti, almeno in parte, dall’impeto rivoluzionario francese e dalle vittorie napoleoniche, benché sostituisse soltanto un giogo ad un altro; ma valse almeno a stringere, nel Regno Italico, una vasta parte del territorio italiano, e a far sentire l’esigenza di una superiore e libera organizzazione nazionale.
Ma errore è credere che quella forza sia stata il fattore primo e decisivo del risorgimento italiano; mentre, già da due generazioni almeno, tutti i fattori veramente operosi per l’unità, per la libertà e per l’indipendenza erano pienamente maturi, non soltanto nelle classi colte, ma anche in alcuni strati cospicui del popolo, e si doveva aspettare soltanto che le circostanze esterne, determinassero quella scossa formidabile, necessaria a sconvolgere e a far crollare le vecchie e ingiuste soprastrutture che impedivano ogni movimento.
L’opera riformatrice in Italia, nel secolo XVIII, fu una vera rivoluzione; una rivoluzione pacifica, ma non per questo meno decisiva e profonda. Essa si svolge, più o meno coraggiosa, o meno rapida, presso tutti gli Stati italiani grandi e piccoli; essa è preparata e voluta da correnti abbastanza vaste delle classi sociali, che quasi la suggeriscono e l’impongono; essa porta con sé i segni caratteristici dell’indole e della tradizione nazionale, per cui si distingue nettamente dagli ideali e dalle forme della Rivoluzione francese. Anche senza esagerare la decadenza intellettuale italiana del secolo XVII, è certo che, dopo la schiera degli uomini insigni, nati ancora nel Cinquecento, come il Botero, il Gabbi, il Campanella, il Tassoni, il Chiabrera, il Testi, vi era stato quasi un tempo d’arresto. Se, nelle scienze matematiche, la scuola del Galilei rifulge ancora col Torricelli, col Cassini, col Viviani, col Marchetti, e se, in quelle mediche, si possono vantare i nomi del Redi e del Malpighi, è fuori di dubbio che il pensiero filosofico, dopo il Bruno e il Galileo, si era illanguidito; che, nelle scienze politiche, dopo le potenti creazioni del Gentili e del Botero, e le coraggiose invettive del Tassoni, non si erano avute che meschine elucubrazioni, ispirate a sentimenti pietisti e prive di qualsiasi contenuto; che, nelle scienze economiche, dopo lo Scaruffi e il Serra, vi era stato un silenzio di quasi cento anni; che, nelle discipline giuridiche, per tutto il secolo XVII, avevano prevalso i metodi dei giuristi pratici, i quali facevano opera di raccolta e di ripetizione, ma nulla innovavano negli studi. Cosi la decadenza delle opere del pensiero e delle scienze faceva riscontro a quella delle lettere e delle arti, per cui la poesia correva sempre più verso le gonfiature e le stravaganze che si dicono frutto del secentismo; il teatro tranne per l’opera in musica allora nata per creazione italiana e tuttora in pieno sviluppo, si riduceva alle scene a soggetto, e l’architettura, pure ancora grande col Bernini e col Borromini, si caricava di linee pesanti e violente, non meno della pittura, che volgeva verso l’orgia dei colori e verso la sovrabbondanza dei particolari, rinunciando alla sobrietà e alla perfezione dell’insieme.
La tradizione del pensiero nazionale
Ma questa decadenza aveva appena toccato il fondo, con le generazioni che separano il Galilei e il Tassoni dal Vico e dal Muratori, e già dalle assopite energie si risvegliava il fuoco del pensiero civile; e questo per forza intima sua, senza inframmettenze straniere, e a ogni modo ben prima che queste operassero, scoteva e rianimava le facelle non ancora ben spente del glorioso Rinascimento; riscaldava e rinnovava il sangue delle nuove generazioni, facendolo rifluire pieno nelle vene sensibili delle nostre vecchie città; risvegliava le membra intorpidite, ma robuste e sane, del nostro popolo generoso, incitandolo alle opere civili. Nella Francia ricca, potente, egemone; nella Francia di Mazarino e di Luigi XIV, si dilatava un sottile razionalismo, che si allontanava sempre più dalla realtà e che sconvolgeva, con le illusioni della logica, le conoscenze più sicure; e invece, nelle nostre modeste città, separate da tante barriere, gli spiriti si attaccavano più tenaci, con mirabile concordia, alla vecchia tradizione, all’indagine erudita, alla storia di un passato glorioso, e da questi elementi frammentari costruivano lentamente e pazientemente il nuovo tessuto organico, unitario, aderente alla realtà viva, su cui dovranno disegnarsi tra breve le forme della nuova società. Nonostante le divisioni degli Stati, nonostante la bassezza dei governi, nonostante la varietà dei nostri climi e delle nostre città, nonostante il contrasto degli eventi, non vi è lembo d’Italia che non partecipi a questo movimento, dalle vette delle Alpi al mare di Sicilia, nello spazio territoriale che la sapiente mano d’Augusto aveva segnato, e che la Rinascita aveva scosso e rianimato, dopo il sonno dell’alto medio evo, con le duecento fiamme ardenti dei nostri gloriosi comuni. Anzi, a segnare visibilmente la concordia completa di questo risveglio per tutte le terre d’Italia, noi troviamo, proprio al suo primo movimento, una organizzazione veramente nazionale, fondata a Roma, nel 1690, da dotti venuti dai cieli più diversi della nostra penisola, tutti ugualmente sensibili all’idea comune dell’unità fondamentale della nostra vita e della nostra storia, l’Arcadia, la quale ebbe subito le sue colonie in tutte le principali città italiane e raccolse, quasi senza eccezione, tutti gli uomini d’ingegno, in un intento concorde, il quale era prima di tutto un intento di purificazione civile.
È noto che i fondatori di questa grande Accademia la quale voleva purgare le lettere e il costume dagli eccessi del secentismo, venivano non soltanto dalla letteratura, come il Crescimbeni e il Menzini, o dalla filosofia, come il Bianchini, o dall’archeologia, come il Ciampini e il Fabretti, ma anche dalle aule austere della giurisprudenza, come il Gravina, o dai gabinetti scientifici, come il Malpighi, il Lancisi, il Viviani, il Redi, il Magalotti, il Marchetti; ed è noto pure che a questa Accademia, la quale finì poi per cadere nelle forme troppo semplici di una poesia priva di contenuto, appartennero tuttavia, nel corso del secolo XVIII, tutti, quasi senza eccezione, gli uomini insigni d’Italia, dal Muratori al Vico, dal Metastasio al Parini, dal Vannetti e dal Maffei al Bettinelli. E tutti questi dotti, anche se andavano confusi nel volgo dei poetini incipriati, non si perdevano nelle sdolcinature, ma annodavano relazioni e amicizie da Napoli a Trento, da Venezia a Torino, dai verdi colli della Brianza e dalle spiagge ridenti di Sirmione, fino alle ultime balze dell’Aspromonte e dell’Etna.
Ché se poi l’Arcadia si perdette nelle cose piccole e nei versi leggeri, non si può dimenticare che non si perdettero le energie dei dotti e dei pensatori, che volevano quello che il Bettinelli, scrittore inesattissimo, disse tuttavia esattamente e primamente: «il Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e nei costumi». Queste energie sospinsero con vigore l’Italia verso il suo nuovo cammino. E anche le Accademie ebbero, in questo risorgimento, la loro parte; e non soltanto le vecchie Accademie, già fiorenti e celebri, e sempre rinascenti, come quella dei Lincei; non soltanto la nuova Accademia degli Arcadi; ma quelle nuovissime degli scienziati, l’Istituto delle Scienze, fondato in questi anni a Bologna, per opera del Marsili, e di Eustacchio Manfredi, l’Accademia dei Fisiocritici, fondata dal Gabrielli a Siena, quella rinnovata dei Trasformati, sorta in Milano, e cento altre.
Tutto questo movimento rinnova primamente il pensiero, dandogli vigore, libertà di giudizio, ampiezza d’indagine, ricchezza quasi sconfinata di elementi per l’osservazione dei veri. E tale pensiero, rinnovato e irrobustito, anche se non sa subito abbracciare tutto lo scibile e penetrarne tutti i segreti, tuttavia si muove in una direttiva libera e individuale, corre instancabile all’analisi più minuta.
Quando in Francia i Cartesiani naufragano ancora nelle sintesi immature e nelle sterili deduzioni, in Italia, invece, si ricostruisce minutamente la storia, si indagano le forme dell’antica civiltà, si battono in breccia le vecchie opinioni dogmatiche e le vecchie superstizioni, e da questo minuto lavoro, da questi sconvolgimenti, si prepara la ricostruzione del nuovo mondo civile. E questo pensiero, pur sorretto dalla fede, senza esserne mancipio, si fonda tutto sull’impero della ragione, sulla fiducia nelle virtù umane, sul dovere del rispetto assoluto delle istituzioni civili, sul valore delle virtù civili e dell’amor patrio, sicché produce subito, in tutti questi scrittori, il senso di un dovere eroico, il quale, quando trionfasse in tutti i cittadini, avrebbe per sé stesso la virtù di rovesciare il male, e quindi di liberare dalla servitù e di unire politicamente la patria.
Noi ci spieghiamo allora le degnità eroiche del Vico; le virtù perfettibili del Muratori; l’incitamento alle riforme del Maffei, del Bandini, del Verri; le affermazioni spregiudicate e coraggiose del Giannone e del Pilati. Noi ci spieghiamo anche il fermo amor di pace di tutti questi scrittori, che non sanno vedere il valore delle armi e l’esigenza della forza, anche brutale, per rinnovare il vecchio mondo in rovina. Essi vogliono che la riforma incominci dall’interno, e proceda per gradi pacificamente; ma preparano, con l’insegnamento delle virtù e con la fede nell’eroismo, anche il ricorso alle armi.
Il risveglio del pensiero civile nel secolo XVIII
Non era ancora iniziato il nuovo secolo, e già dalle più varie regioni d’Italia si levavano i segni di questo risveglio. Questi segni si trovano già nella letteratura, la quale, se anche si riveste di forme accademiche, sente già la forza dei nuovi ideali civili. Nell’opera di Pietro Metastasio (1698-1782), si trova viva, alta e costante l’esaltazione delle virtù civili, e principalmente l’esaltazione del sentimento della libertà e della patria, con un impeto così fervido che doveva commuovere e far vibrare le folle che, allettate dalla forma facile, ma vibrante, ascoltarono la serie innumerevole dei suoi drammi; mentre, dall’altra parte della penisola, un altro fecondissimo scrittore di teatro, Carlo Goldoni (1707-1792), elevando a dignità letteraria la commedia dell’arte, agitava sulla scena passioni nobilissime, educando il popolo a pensieri elevati e civili.
Si apriva così il passo a un generale risveglio della cultura italiana che si manifestava, non soltanto nella letteratura, ma anche nelle opere del pensiero filosofico e giuridico, nell’erudizione e nelle scienze.
Dalla tradizione classica muove l’opera di Gian Franco Gravina (1664-1718), che ricerca le origini del diritto, indagando con metodo critico la nascita e lo sviluppo del diritto romano. Egli studia gli organi creatori del diritto; cerca lo spirito dei giureconsulti romani nella corrente stoica, che vuole la natura corretta dalla ragione; definisce il diritto naturale come un sistema d’equità, che supera il dissidio tra la ragione e gli istinti umani, classifica le forme della società civile e della società politica, con uno spirito moderno, che fu altamente apprezzato dal Montesquieu. Il suo pensiero, meditato e sottile, prepara l’avvento dell’alta mente del Vico.
D’altra parte, nell’Italia settentrionale, gli studi eruditi di Domenico Bacchini (1651-1721) preannunciano quelli del Muratori e del Maffei. Nessuna branca dello scibile sfugge alla mente aperta e agile di questo infaticato studioso, che, nei suoi Dialoghi latini (1699), espone il suo stoicismo, incitando all’esercizio costante delle virtù morali e all’ossequio verso lo Stato, che sorregge le società umane nel loro continuo divenire.
Da questi fondamenti, eruditi e critici insieme, nasce la corrente degli studi storici, che non si appaga più soltanto della raccolta e dell’enunciazione dei dati, ma che la storia fa servire a un alto fine sociale. Le opere di Francesco Bianchini, di Apostolo Zeno, del Fontanini, dell’abate Conti, del Salvini, del Quadrio si rivolgono a indagare le vicende storiche italiane dalle età più remote, fino ai tempi della dominazione straniera, per cercarvi i monumenti più significativi del passato e i monumenti più gloriosi di una grande fioritura; per raccogliervi le opere più durevoli e più sostanziose nello sviluppo del pensiero.
Così avviene che la scuola erudita dell’Italia superiore, muovendo dalla ricerca paziente dei documenti e dall’indagine di un grandioso passato, è portata naturalmente a prospettare l’esigenza delle riforme per la società italiana decaduta e suscettibile di risorgimento; mentre la scuola storico-filosofica dell’Italia meridionale, prendendo le mosse dallo studio delle vicende del diritto, è sospinta a cercare e a tracciare le leggi dello sviluppo delle società umane e a creare una scienza nuova.
Nella serie veramente cospicua degli eruditi della prima metà del secolo XVIII, rifulgono i nomi e le opere di Lodovico Antonio Muratori (1672-1750) e di Scipione Maffei (1675-1755), che furono veramente iniziatori del grande movimento riformista; mentre, nel Mezzogiorno d’Italia, maturano le menti poderose di Giovanni Battista Vico (1670-1744) e di Pietro Giannone (1676-1748), il primo dei quali pone i fondamenti scientifici della filosofia della storia, ed il secondo consacra i caratteri essenziali delle nuove società civili e dello Stato moderno.
Il Muratori non è soltanto l’indagatore prodigioso e il raccoglitore instancabile dei monumenti della nostra storia; ma è insieme il pensatore coraggioso che affronta i problemi più ardui della società dei suoi tempi, e tutti li risolve con un fondamentale buon senso e con una sicura chiaroveggenza. Come politico, vuole il funzionamento corretto dello Stato per i fini dell’interesse pubblico, e combatte l’ingerenza e i privilegi del clero e dei Gesuiti nella società civile, avversando anche coraggiosamente il potere temporale dei papi. Come economista, si allontana dalle viete forme del mercantilismo, incitando all’incremento della cultura agricola e delle industrie manifatturiere, senza riguardo alle barriere doganali; rimprovera alla nobiltà dei suoi tempi la vita accidiosa e improduttiva, e vuole l’intervento dello Stato, per obbligare tutti ad un fecondo lavoro.
Come giurista, invoca la semplificazione delle leggi, l’autorità superiore e indipendente dei giudici, un concetto della proprietà destinata al bene collettivo, e perciò non inviolabile, né inalienabile in senso assoluto; mentre vuole l’abolizione dei maggioraschi e dei fidecommessi. Egli disegna così uno Stato di polizia, in cui l’autorità del principe è piena, ma rivolta al beneficio del popolo; e, al di sopra dei principi, colloca la legge suprema del diritto naturale e del diritto delle genti, a cui anch’essi debbono conformarsi.
Quanto al Maffei, che muove pur esso dagli studi dell’erudizione e dell’archeologia, egli è pronto a mostrare l’esigenza delle riforme, e invoca la profonda trasformazione dei vecchi istituti della Repubblica Veneta, ormai decaduta e morente, non esitando a proclamare la necessità di dare ai cittadini il diritto e il dovere di provvedere con libero esame, secondo l’esempio inglese, all’amministrazione della pubblica cosa.
Le dottrine del Muratori e del Maffei, che non hanno sentito l’influenza dell’illuminismo inglese o dell’enciclopedismo francese, preparano le vie alle correnti del pensiero italiano, che, dalla metà del secolo in avanti, col Carli, col Verri, col Beccaria, col Denina, sia pure nutrito dagli innesti del nuovo razionalismo, sospingono verso il risorgimento.
Ma il Vico, che vive in uno Stato sufficientemente vasto, per cui gli accrescimenti non sono pensabili e le riforme sembrano meno richieste, dalle indagini sulla grandezza e sulla sapienza del passato trascende alla determinazione delle leggi dello sviluppo sociale.
Egli conosce a fondo tutto il razionalismo francese e il filosofismo inglese; ma non si lascia vincere. La storia e l’esperienza sono le sue guide; la Provvidenza è sospinta nelle sfere eteree, come qualcosa di superno, che colma gli spazi dell’inconoscibile. Ma le vicende umane, lo sviluppo sociale, lo sviluppo giuridico sono promossi da cause che possono essere identificate e spiegate con l’esame diretto dei fatti sociali; sicché alla decadenza seguirà il risorgimento, come al risorgimento sopravverrà la spinta fatale verso la stanchezza e la rovina. Soltanto lo spirito umano, che è la vera fonte del diritto, guidato da un sentimento istintivo della giustizia, tenuto vivo e vitale da una forte energia capace di sacrificio, può superare gli eventi e condurre a uno svolgimento progressivo delle società civili.
Invece il Giannone che, dalla storia particolare del suo Regno nativo, avverte l’esigenza delle riforme e dell’espansione, non esita a mettersi in aperta lotta con la Chiesa, ch’egli vuole, nei rapporti civili, soggetta al potere temporale; e anche dal carcere, e dal carcere piemontese, sulla base della constatazione dei robusti ordinamenti militari del Piemonte, esprime un vaticinio veramente meraviglioso, che, alla dinastia di Savoia, prevede una pronta, futura grandezza, nell’opera imminente del Risorgimento italiano.
L’equilibrio europeo e l’Italia
Ora, tutto questo movimento di idee si agita essenzialmente nel primo quarantennio del secolo XVIII, quando il razionalismo francese non ha ancora profonda breccia nell’animo degli scrittori italiani; quando l’illuminismo inglese non è ancora penetrato da noi; quando la Massoneria non ha ancora incominciato, almeno in Italia, il suo sottile lavoro. E si agita quando in Italia, non meno che nell’Europa tutta, batte furiosa la guerra di successione di Spagna, che spezza l’egemonia francese e getta le basi dell’equilibrio europeo; quando l’Italia, nei progressi della monarchia piemontese, vede, per la prima volta, lo spiraglio delle sue libertà; quando, nei sussulti dell’ardita politica alberoniana, si compone sempre più saldo, in mancanza della sperata libertà, un equilibrio pacifico meno ingiusto per la patria italiana.
Senza dubbio, i progressi sono lenti, perché sono impediti dalla prevalenza degli interessi stranieri; ma sono tuttavia evidenti e decisi. La guerra di successione di Spagna, dopo la vittoria di Torino del 1706, aveva dato la speranza all’Italia di liberarsi dal dominio straniero e di guadagnare una nuova libertà. Nel 1713, il Piemonte e la Repubblica di Venezia si erano avvicinati agli altri principi italiani, e, aiutati dall’Inghilterra, mentre la Francia era vinta, anelavano a sottrarsi anche al predominio austriaco e a formare una federazione nazionale libera e indipendente. Questo movimento, nascosto tra le trattative diplomatiche, ancora mal note, ma ricco di energie e di contenuto, sollevò subito le proteste dell’Austria, e dovette essere in parte abbandonato. I tempi non erano maturi. Molte generazioni dovranno passare prima che l’Italia sia in grado di guadagnare la sua unità e la sua indipendenza.
Ma intanto i segni del risveglio erano già dati. La Rivoluzione francese era ancora lontana, e già l’Italia preparava, con l’opera dei suoi pensatori e dei suoi giuristi, la sua profonda trasformazione. L’enciclopedia francese, che fu laggiù la prima spinta al grande movimento, non era ancora nata, e già gli scrittori e i pensatori italiani indicavano precise le linee di struttura della nuova società e sospingevano all’opera coraggiosa delle riforme civili. L’indipendenza italiana era appena un sogno, e già le classi colte e taluni strati del popolo guardavano alla Casa di Savoia, secondo che ci attestano sicuri documenti, come la sola forza capace di liberare l’Italia dal dominio straniero e di riunirne le sparse membra sotto un solo governo o in una equilibrata federazione nazionale.
Quando Carlo Emanuele III, deluso dell’amicizia austriaca, ritornava col continuo moto del pendolo come il grande suo Padre, all’amicizia francese, per cercare un aiuto nella sua marcia fatale verso la Lombardia, e gettava, nel 1735, il nuovo squillo di guerra; nel bando indirizzato ai popoli ed ai governi, per giustificare il suo atto, poteva dichiarare che il contegno dell’Austria gli aveva «fatto conoscere che sopra la di lui rovina si meditava quella della libertà d’Italia, di cui sempre la Real sua Casa era stata il più sicuro e fermo sostegno».
Quel bando, veramente memorabile, dava così un eloquente inizio, fin da quei lontani tempi, alla serie superba dei proclami fatidici, che, nel secolo XIX, dovevano chiamare decisamente il popolo italiano alla libertà e all’indipendenza. Ma quella voce, se anche non in tutto compresa, non avrebbe potuto suonare, fin dal principio del secolo XVIII, così alta e così solenne, se già negli spiriti italiani non avesse squillato la diana del risveglio di un pensiero civile, che era destinato a grandi cose, e che nasceva spontaneo dalle viscere più profonde della nostra storia, della nostra cultura, della nostra tradizione nazionale.
(da A. Solmi, Discorsi sulla storia d’Italia, Firenze, 1933)