IL GOVERNO SPAGNOLO NEL REGNO DI NAPOLI

di Benedetto Croce –

In queste pagine della Storia del Regno di Napoli, pubblicate in volume nel 1925, Croce rigetta il pregiudizio antispagnolo in merito agli effetti del governo di Madrid nel XVI-XVII secolo. «Si potrebbe giungere alla conclusione che il possesso del regno di Napoli fu per la Spagna [...], tutto sommato, una passività economica». Purtroppo, spiega Croce, «la Spagna governava il regno di Napoli come governava sé stessa, con la medesima sapienza o la medesima insipienza».

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Giudizi errati intorno al governo spagnolo

Tra la riottosità o immaturità delle varie classi sociali a indirizzare le sorti del paese, quale fu l’opera del potere che effettivamente governava e dirigeva, della monarchia spagnuola e dei suoi viceré? «Pessima, rovinosa, depauperatrice, corruttrice», si risponde a coro da una turba di storici e di pubblicisti; e nondimeno anche in questa parte bisogna stare in guardia contro l’acquiescenza a giudizi convenzionali e perciò comodi, e contro quella sorta di mitizzamento storico che pone sempre una testa di turco su cui battere, designandola autrice di tutti i mali. Strano è anzitutto che si sia preso, e si prenda ancora, grande scandalo del fatto che l’Italia meridionale desse uomini e denaro pei fini della politica spagnuola, come se questa politica non fosse poi la sua politica, come se essa non ne godesse i vantaggi, quali che fossero (e quello dell’essere stata preservata da invasioni, e anzi addirittura da guerre combattute sulle sue terre, era certamente non piccolo), e potesse non sostenerne le gravezze o rigettarle intere sulle spalle del popolo spagnuolo, non donna di provincie, ma femme entretenue di quella monarchia: che non sarebbe poi stata condizione dignitosa. «È mestiere — scriveva il viceré conte di Montery, nella relazione al suo successore — che la città e il regno di Napoli sopportino le spese della guerra, e ne sentano le molestie; le quali sono tutte lievissime paragonate a quelle che tutte le altre provincie patiscono; e questo si è fatto loro intendere in molte occasioni, e che per assicurar loro la libertà, l’onore, le vite e le facoltà, è necessario che aiutino e soccorrano, facendo sforzi comuni». E ciò, in questione di principio, era giustissimo. In questione di fatto, che i pesi fossero più o meno gravi, e talora eccessivi e quasi incomportabili, dipese dal corso degli avvenimenti; e l’Italia meridionale pagò poco al tempo di Ferdinando il cattolico, alquanto più con Carlo V e dopo le riforme di Pietro di Toledo, e raggiunse il massimo dello sforzo, così nell’invio di soldatesche (cinquemilacinquecento cavalli e quarantotto mila pedoni) come nei tributi di danaro, al tempo della guerra dei Trent’anni, col viceré conte di Monterey, al quale non senza ragione appartiene il fervorino soprariferito. Allora parve che Napoli, ricca per l’innanzi, fosse dalle estenuanti esazioni ridotta alla miseria. Nella seconda metà del seicento, e dopo i tumulti e le paci, essa dette di nuovo assai poco e di uomini e di danaro. È anche difficile dire se questi contributi riuscissero in generale proporzionati alle condizioni del paese e alla sua potenzialità rispetto agli altri dominî della monarchia; ma è pure chiaro che questa proporzione di equità doveva essere garantita dal senno e dall’eventuale resistenza delle popolazioni stesse del Regno e degli ordini che le rappresentavano, ai quali sarebbe da riconoscere, nella perpetua lotta col fisco, il merito o il demerito della tutela bene o male esercitata, della moderazione fatta o no osservare. L’elenco dei donativi, che dal 1504 al 1664 ascesero (e il calcolo è forse esagerato) a ottanta milioni di ducati, e ad altri cinque milioni e mezzo dal 1664 al 1733, per sé stesso dice assai poco. Che poi il regno di Napoli fosse la rendita più pingue della monarchia di Spagna era generalmente ritenuto nel paese stesso e in tutta Europa; e si ripeteva l’affermazione che «la Spagna aveva cavato le maggiori spese da essa fatte nelle sue guerre dalla fedelissima città di Napoli, e anche più numero di gente da questa sola città che da tutti gli altri paesi della Monarchia», e il duca di Guisa non altro si proponeva nella sua avventura che di «dépouiller la monarchie d’ Espagne d’un si beau royaume, dont elle tiroit ses principales forces». Ma è probabile che questa credenza nascesse dalla leggenda dell’Italia meridionale, terra ferace e sovrabbondante, atta a nutrire molti popoli. E il sospetto si converte in quasi certezza, quando si legge in un contemporaneo, che fu uno dei primi e più acuti economisti, Antonio Serra, l’opposta affermazione che in Napoli (almeno fino al 1618, che è l’anno in cui il Serra scriveva) «le entrate che vi ha la Maestà Cattolica si spendono tutte e moreno nel medesimo Regno, che non se ne incascia parte alcuna, e più volte vi manda milioni di contanti, se bene poche se ne potria incasciare per essere quasi tutte vendute e convertite in soldo d’avantagiati e milizia per il Regno»; e ciò il medesimo scrittore ridice più oltre, confermando che il re di Spagna «non estrae l’entrate fuora Regno, anzi ve ne rimette più volte argento». In ogni caso, è codesta un’indagine che non è stata finora criticamente condotta, preferendosi in tale materia le declamazioni e le invettive; e non è escluso che, se fosse criticamente condotta, potrebbe giungere alla conclusione che il possesso del regno di Napoli fu per la Spagna un accrescimento di potenza politica e di prestigio, e un punto d’appoggio militare, ma, tutto sommato, una passività economica.

I metodi economici e finanziari

Più fondata è l’accusa data alla Spagna di aver seguito cattiva politica finanziaria ed economica, con ordinamenti e provvedimenti ed espedienti che erano quelli appunto che la nascitura scienza dell’Economia si apparecchiava a condannare, e anzi a togliere in esempî particolarmente istruttivi di quel che non si deve fare: privative, divieti di esportazione, dazî gravissimi e dogane interne e diritti di passo dappertutto, calmieri, alterazioni della moneta e regolamento arbitrario dei cambî, vendita di gabelle o arredamenti, ripartizione delle imposte a rovescio della capacità contributiva e del respiro da dare alle forze dei produttori; e ogni altro ben di Dio della stessa sorta. Ma, anzitutto, la Spagna governava il regno di Napoli come governava sé stessa, con la medesima sapienza o la medesima insipienza; e, per questo rispetto, tutt’al più si può lamentare che il regno di Napoli, poiché doveva di necessità unirsi ad altro stato più potente, cadesse proprio tra le braccia di quello che era il meno capace di avvivarne la vita economica, e col quale non gli restava da accomunare altro che la miseria e il difetto di attitudini industriali e commerciali. Se, come abbiamo osservato, in nessuna città d’Italia o d’Europa si vede traccia di vichi e logge di negozianti napoletani, neppure se ne vedono di spagnuoli, e certamente non se ne vedono nelle nostro terre, dove, per esempio, a Napoli i «quartieri spagnuoli» (tutta quella parte che il viceré Toledo costruì a occidente della via Toledo) erano abitati unicamente da soldati e da funzionarî. Inoltre, non è da dimenticare che quegli antieconomici metodi erano proprî dei tempi, e sparsi più o meno dappertutto (e si dica il medesimo del sistema e degli espedienti finanziari); e a lor modo erano anche buoni, considerato che non se ne conosceva o non si aveva la forza di adottarne altri migliori. Quanto si è inorridito, e quali vituperose parole si sono pronunziate, sul perfido fisco spagnuolo, che sovente rivendeva i comuni dopo che questi col loro danaro e con immensi sacrificî si erano riscattati e proclamati al demanio, sicuri di rimanere terre regie! Eppure lo stesso o l’analogo accadeva altrove; e anche più tardi, in Francia, Luigi XIV mise en offices, ossia vendette in ciascuna città ad alcuni abitanti il diritto di amministrare gli altri, ma, poi, rivendette alle città questa libertà del proprio governo, e di nuovo in séguito le rimise en offices, e il giuoco si ripeté ben sette volte durante ottant’anni, adducendosi a scusa (né a diversa scusa ricorreva il governo spagnuolo) les nécessités de nos finances. Anche la frequente promulgazione di leggi o prammatiche che rimanevano non eseguite, anche il costume morale, del quale si fa colpa al governo spagnuolo, il fasto, l’importanza data alle pompe e ai cerimoniali, il poco conto in cui era tenuto il lavoro, le gare a vuoto e per puntiglio, il vano punto d’onore, la mania dei duelli, il barocchismo, la religione esteriore, superstiziosa e pinzochera, la direzione delle coscienze e della educazione affidata ai gesuiti erano di quei tempi, e segnatamente delle monarchie di quei tempi; e anche quel costume aveva il suo vantaggio e il suo lato positivo, e adempiva a fini morali più spesso che non paia a chi lo misura con la misura di una diversa civiltà. Banchi, monti di pegni, ospedali, ricoveri per mendici, monasteri per pentite, e simili istituzioni, che allora sorsero in gran copia, si dovettero alla religiosità del tempo, quale che ne fosse la forma.

Sentimenti verso gli spagnoli

E gioverà, in quest’ordine di considerazioni generali, riconfermare l’avvertenza già da me altrove non trascurata, che non bisogna immaginare nei napoletani verso gli spagnuoli quella ripugnanza, quell’astio, quell’odio, la cui immagine ci è diventata familiare per altri rapporti tra italiani e stranieri, e per altri momenti della storia italiana. Né l’età del viceregno spagnuolo di Napoli fu quella della lotta di nazionalità, né il governo spagnuolo somigliava all’austriaco di dopo il 1815. La coscienza giuridica era soddisfatta dell’unione sotto il dominio dei re di Aragona e Castiglia, eredi degli antichi sovrani nostrani, normanni e svevi; e i nobili napoletani si vantavano di servirli come già avevano fatto coi loro antichi re; e i baroni si uniformavano ormai a questo sentimento di ossequio e fedeltà monarchica. Sopravvivenze di antichi affetti francesi non mancavano; e neppure qualche attrito e qualche manifestazione ostile contro il popolo straniero. Ma ottimamente gli spagnuoli sapevano adoperare l’autorità e la prudenza, e si soleva lodare i loro soldati per la disciplina che dimostravano e pel rispetto alle donne. Sulla fine del settecento, uno scrittore che ricordava con esattezza quali fossero i sentimenti del secolo antecedente, scriveva che gli spagnuoli, «lungi dall’aver mai vibrato il minimo tratto di penna contro gli abitatori divenuti loro consudditi, hanno al contrario dato loro le maggiori pruove di amorevolezza, di eguaglianza, e, per così dire, di fratellanza; han diviso i piaceri ed i malanni, le miserie ed i vantaggi con porzione tanto eguale che la prosperità e l’infelicità della madre patria sono state, secondo le diverse epoche, senza differenza comuni a queste sue provincie». Verso gli italiani usavano tanta meticolosità di riguardi che sembrava perfino ingombrante a uno spagnuolo, il Figueroa, il quale desiderava che si potesse verso gli italiani «enderezar tal vez las acciones con natural descuido, y màs cuando se profesa union y paz con esas naciones».

Opere dell’amministrazione spagnola

Coi criterî dunque che i tempi comportavano, e che il carattere e la capacità, e il grado di cultura della nazione dominante consentivano, col meglio e col peggio che i frequenti cambiamenti dei viceré e il loro vario animo e la varia capacità si tiravano dietro, i sovrani di Spagna governarono l’Italia meridionale, ed esercitarono quelle cure per il benessere e per l’interesse generale allo quali nessun governo si sottrae mai del tutto. Così durante il periodo viceregnale la città di Napoli fu assai ingrandita e prese la forma che serba al presente, e fu provveduta di opere e di edifizî pubblici, che sono ancora tra i più grandiosi; e, se assai meno si provvide alle provincie, pure qualche strada venne restaurata e si fecero o rifecero ponti, e sulle coste furono erette torri di difesa, con le quali, a mezzo di segnali di fuoco, si aveva avviso in ventiquattr’ore di qualsiasi pericolo minacciante. Non riuscirono con ciò i viceré a impedire le incursioni dei barbareschi, come, del resto, non vi si riuscì in tutto il Mediterraneo fino al secolo passato; ma vi lottarono contro e le raffrenarono e le contrastarono, e in alcuni periodi con grande vigore, come nel governo del secondo duca di Ossuna; e una volta le galee napoletane assediarono e presero Durazzo, nido di corsari, e un’altra volta giunsero fin nel Bosforo e ne portarono via navi e dignitari turchi. Certo, molti abitatori del Regno venivano rapiti e menati schiavi e poi riscattati con ingenti spese (onde le pie fondazioni per la redenzione dei cattivi); ma anche nel Regno abbondavano schiavi turchi, pei quali si dové perfino ordinare che portassero a segno distintivo la testa rasa col ciuffo. Non riuscirono neppure i viceré a sradicare la delinquenza, e soprattutto il banditismo o brigantaggio, che era quasi un’istituzione alla quale il governo stesso faceva ricorso, come al tempo della guerra di Lautrec, e più volte in altre occasioni, e sulla quale contava il duca di Guisa per estendere il suo potere nelle provincie; ma di continuo vi ricorrevano i baroni, che ne erano manutengoli. Ma anche il banditismo apparteneva all’Europa tutta in quei secoli, quantunque nell’Italia meridionale, come in altri luoghi meno frequentati dai traffici e meno civili, fosse più grave; e, a ogni modo, i viceré non lo lasciarono indisturbato, gli procedettero contro spesso con sforzo di energia, nella seconda metà del cinquecento disfecero le bande di re Marcone in Calabria, che aveva costituito una sorta di governo ed esigeva i tributi locali, e quelle di Marco Sciarra in Abruzzo. Ma era, come si diceva, l’idra sempre rinascente; e già il viceré Toledo confessava, nel 1550, di aver fatto morire per giustizia diciottomila persone, e che «non sapeva più che fare»; e simili statistiche con migliaia di afforcati e decapitati e arrotati misero fuori i seguenti viceré, quasi a dimostrazione del loro buon volere. Tuttavia, dopo il 1647, la lotta fu condotta con maggiore coerenza e persistenza, troncando, come si è visto, le relazioni tra banditi e baroni, compiendo regolari spedizioni militari, ponendo taglie e castigando i favoreggiatori; le quali cose ebbero l’effetto che tra il 1683 e il 1688, viceré il marchese del Carpio, il grande brigantaggio fu fiaccato in tutte le provincie, e anche nei montuosi Abruzzi, e non ricomparve se non dopo oltre un secolo per effetto di sommovimenti politici e sociali.L’amministrazione dei comuni, in gran parte indebitati e rovinati, fu raddrizzata, come si poteva, dal duca d’Alba coi cosiddetti «stati discussi del Tappia», cioè coi bilanci che per opera del reggente Carlo Tappia si formarono delle rendite e delle spese di ciascun comune. Al tempo del viceré d’Aragona, nel 1669, fu rifatto il censimento del Regno, e cosi i comuni pagarono il focatico in rapporto al numero reale delle anime, ed ebbero condonati i residui non pagati fin allora. Al Tappia anche e al Rovito si dovettero tentativi di codificazioni o compilazioni delle leggi del Regno, che rimasero per altro fornite di sola autorità privata.

Politica ecclesiastica

Alle esorbitanze della curia romana e alle licenze del clero e dei frati i monarchi di Spagna ricominciarono a porre qualche riparo, particolarmente col viceré duca d’Alcalà, e poi anche con gli altri. Dal secondo conte di Lemos fu commessa nel 1616 al Chioccarelli la grande raccolta degli atti concernenti i rapporti tra il regno di Napoli e la Santa Sede e le condizioni del clero e degli ordini monastici delle nostre provincie, nota col nome di «Archivio della regia giurisdizione»: «raccolta quanto laboriosa altrettanto gloriosa e degna d’eterna ed immortal memoria» (la giudicò poi il Giannone), «per la quale i sostenitori della regal giurisdizione si fanno scudo e difesa contro le tante intraprese degli ecclesiastici, che non hanno altro scopo che d’abbatterla». Sebbene, per considerazioni di politica generale, la lotta fosse condotta talvolta fiaccamente e ci fossero lunghi periodi di remissività, l’anticurialismo napoletano in quei secoli, quel tanto di anticurialismo (e non fu molto) è quasi tutto dei re di Spagna e dei loro magistrati nel Regno, quali i presidenti e reggenti di Costanzo, di Gaeta, da Ponte, de Curtis: solo negli ultimi tempi, cioè sotto Filippo IV e all’avvento di Carlo II, la nobiltà di Napoli mandò suoi ambasciatori a Madrid, chiedendo, tra le altre cose, che si mettesse qualche freno agl’incessanti acquisti di beni da parte degli ecclesiastici. In quel periodo viceregnale la magistratura giudiziaria napoletana, e soprattutto il Sacro Regio Consiglio, che era come la Corte di cassazione, salirono in alta fama (Auctoritas Sacri Regii Consilii Neapolitani me terret, disse un giureconsulto forestiero); e la monarchia ne ebbe sempre cura, e inviò più volte i suoi visitatori generali, sebbene, a quel che sembra, con scarsi effetti, al fine di esaminarla e purgarla di quei componenti che non le recavano onore. I magistrati (scriveva Francesco d’Andrea) in niun’altra parte del mondo tengono maggiore autorità che in Napoli, perché rendono conto dello loro azioni solo al re, che è lontano, e il viceré non vi ha giurisdizione, onde furono denominati «dii terreni». Non solo nelle effigie che ce ne rimangono nelle pubbliche pinacoteche e nelle case private, ma anche nelle parole di coloro che ricordano quei magistrati, si sente la reverenza che essi ispiravano; e del reggente Gennaro d’Andrea (fratello di Francesco), «grave e savio ministro», il Giannone dice che era «uomo veramente senatorio, degno di sedere fra romani senatori, della cui virtù e sapienza rendeva viva immagine».

Imborghesimento del baronaggio

L’opera, che la monarchia spagnuola condusse tra le varie classi sociali, troppo unilateralmente si suole lumeggiare come abilità di seminare e coltivare zizzanie per profittarne e mantenere il proprio dominio: cosa che poté ben accadere, e da qualche viceré, come l’Ossuna, fu formulata in massima, e, del resto, è nella pratica di ogni governo, specie in momenti difficili. Ma quell’opera fu anche, e non poteva non essere, opera mediatrice di pace sociale; e perciò, dalla prammatica di Carlo V del 1589 ai provvedimenti dell’Onate, più volte si procurò d’impedire o di temperare gli eccessi e gli abusi dei baroni contro i vassalli; e il popolo fu castigato e represso nei suoi tumulti e violenze, ma anche protetto. Donde i lamenti dei baroni che i magistrati regi dessero «tanto ardire a’ lor sudditi che appena gli potevano dominare», e trattassero quasi senza nessuna differenza quelli ed essi; e i rinfacci delle preferenze accordate al popolo, mentre essi baroni versavano danaro e sangue in difesa della corona; e, per contrasto, le recriminazioni dei popoli delle provincie e della plebe della capitale. Politica a volta a volta antifeudale antiplebea, dalla quale il ceto medio o civile trasse il maggior profitto, conforme anche in questo caso al generale avviamento e progresso europeo. Il ceto civile cresceva nelle provincie con l’accrescimento della libera proprietà e con la più viva coscienza dei diritti dei cittadini nei comuni; e prosperava nella capitale con gli uomini d’affari, e quasi primeggiava coi forensi e coi magistrati. Ma ciò che più importa notare è che verso il ceto civile veniva lentamente ricondotto lo stesso baronaggio, spogliato via via dei suoi attributi di sovranità, allontanato dai suoi castelli e dalle provincie e raccolto nella capitale, costretto a smettere i suoi abiti di violenza e di vendetta e di farsi ragione a suo modo e con le sue mani o con quelle dei suoi sgherri. Nel 1673 la nobiltà napoletana, famosa non meno della francese pei quotidiani duelli (uno di questi, tra un Carafa e un Acquaviva, andò a finire in pubblico spettacolo a Norimberga), prendeva solenne impegno, e rogava di ciò un pubblico istrumento, di non più praticare i cosiddetti «duelli per compagnia», nei quali coi duellanti partecipavano congiunti e amici fino a cangiarsi in piccole battaglie: segno di addolcimento nei costumi. La crisi si compié in modo più rapido e aperto alcuni anni dopo, al tempo del governo del marchese del Carpio (1683-87); al quale, uomo assai desideroso e operatore di bene e che morì durante quel suo governo universalmente rimpianto, fa dato merito, nel giudizio della generazione seguente, di aver introdotto in Napoli una «civiltà nuova» e iniziato il nuovo secolo. Non più, da allora, maltrattamenti degli inferiori; non più puntigli di duelli; le donne, già segregate nei ginecei secondo l’uso spagnuolo, ora chiamate ai salotti e a presiedere le conversazioni dei cavalieri; smessi i vestiti alla spagnuola e adottati quelli della nuova moda francese; svegliato nei nobili qualche amore alle buone cognizioni, alle lettere e all’intelligenza degli affari del mondo; indirizzati gli stessi nobili a curare l’amministrazione del loro patrimoni e a sgravarli dei debiti che li opprimevano, e, insomma, ingentiliti e imborghesiti, se anche privati a questo modo (dice un osservatore) «del valore e della forza inerenti alla barbarie anteriore», che era il prezzo che toccava pagare per avere in cambio quella «nuova civiltà ». Qualcosa di simile veniva attuando in Lombardia, circa lo stesso tempo, il governatore spagnuolo, principe di Vaudemont.

(da Storia del Regno di Napoli, pp. 145-158, terza edizione, 1944)