GIOBERTI E IL PROBLEMA STORICO DELLO STATO ITALIANO

di Giovanni Gentile –

In questo brano pubblicato un secolo fa, Gentile mostra l’evoluzione del guelfismo giobertiano verso una visione laica e liberale dello Stato. Acclamato nel 1848 come ispiratore del Risorgimento, Gioberti vide il suo progetto di un’Italia federata ostacolato dal municipalismo e dalle divisioni interne. Il Piemonte, da lui indicato come fulcro dell’unità, si confermò tuttavia il punto d’appoggio per la futura indipendenza.

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Vincenzo Gioberti

Vincenzo Gioberti

Quando si parla di Gioberti politico, il pensiero dei più corre subito al suo guelfismo, o a quella scuola neoguelfa di cui egli fu lo scrittore più rappresentativo; e quindi a quei tentativi federalistici del 1848, il cui fallimento dimostrò allo stesso Gioberti la necessità di cambiare strada sottoponendo il programma del Primato alle radicali mutazioni del Rinnovamento. E non dico di quelli che dimenticano il Rinnovamento, e, riducendo tutto il Gioberti al Primato, ne fanno il caposcuola del partito moderato delle riforme, che doveva essere sorpassato dagli uomini più arditi della rivoluzione italiana. Ma il guelfismo giobertiano, comune così al Primato come a tutte le opere posteriori, ha contatti soltanto estrinseci col guelfismo degli altri neoguelfi, come, per ricordare una delle più solide teste politiche del tempo, Cesare Balbo: e la prova più evidente della profonda differenza dei due sistemi si ha per l’appunto nel fatto che lo stesso Gioberti del Primato scrive subito dopo i Prolegomeni, e poi il Gesuita, e poi l’Apologia del Gesuita, e infine il Rinnovamento: che rappresentano tutti un incessante svolgimento del programma giobertiano verso quella concezione nettamente laica e democratica, o in una parola, liberale dello Stato, innanzi alla quale i neoguelfi ricalcitravano.

Chi voglia farsi un’idea adeguata del significato e dell’ importanza storica di questa politica guelfa giobertiana, non ha se non da por mente all’entusiasmo universale, con cui in tutte le parti d’Italia egli fu nel 1848 acclamato come il precursore e il duce del risorgimento italiano: all’incredibile numero di esemplari con cui tutti i suoi scritti si diffusero per tutta la penisola; ai versi, con cui fu cantato, alle stampe onde la sua effigie fu moltiplicata e sparsa tra gl’innumerevoli ammiratori; al delirio, che il suo nome suscitò nel periodo delle maggiori speranze, quando tutta Italia parve unirsi in un proposito incrollabile per conquistare la propria indipendenza e stringersi comunque in un patto nazionale. Certo, quelle speranze ben presto caddero. Ma non tutto andò perduto: e quel che rimase fu proprio quello che era stato, sostanzialmente, lo scopo del Gioberti; e che quella miracolosa unione di tutta Italia, sia pure effimera, unanime per acclamare in lui il maggiore degli italiani dimostrò appunto già in atto. Il Gioberti, in sostanza, aveva mirato nel Primato a porre la questione della nazionalità italiana innanzi agli italiani: non a quei pochi che già profondamente la sentivano, e ardevano impazienti di realizzarla, infiammati dalla fede mazziniana; ma a tutti, principi e popoli; ai principi, il cui principato aveva salde radici nei popoli, e che rappresentavano perciò forze realmente esistenti, di cui la politica dovesse tener conto; e ai popoli, quali erano, non ancora in possesso di una comune coscienza nazionale, gelosi dei loro particolari interessi e delle loro tradizioni, ciascuno con la sua capitale, coi suoi diritti storici, o riconosciuti o da rivendicare, e tutti, nella grandissima maggioranza, più disposti a vagheggiare astrattamente e letterariamente una comune patria, che a vivere e a morire per essa. A questi popoli il Mazzini da dieci anni veniva inculcando che essi non avevano una patria, e dovevano conquistarla: e conquistarla come si conquista tutto ciò che ha un valore spirituale, col sacrifizio del singolo. Dottrina verissima, ma, — salvo che per un certo numero, relativamente scarso, d’individui facili o disposti a sentire la realtà imperiosa di un sublime dovere, — senza significato per codesti popoli che, attraverso le differenze regionali e storiche, non vedevano, non sentivano la patria: quella patria, di cui il Mazzini parlava. E quand’anche essi l’avessero sentita, non la sentivano i principi, che c’erano anch’essi a pesare sulla bilancia, e restavano, divisi e discordi, e pur quasi tutti sotto l’influenza straniera, naturalmente ostile ad ogni aspirazione nazionale italiana.

La rivoluzione, se tale può dirsi, di Romagna, che fu la premessa prossima della Giovine Italia, era stata troppo facilmente soffocata per quelle cause, che disse il Mazzini; ma nel 1849 non fu e non doveva fatalmente essere soffocata la sua Repubblica Romana, benché eroicamente difesa da quelle forze popolari, a cui unicamente egli intendeva affidare le sorti italiane? E perché cadde essa, e perché il Papa rientrò e restò coi francesi, condannando l’Italia alla Convenzione di settembre e quindi a Mentana? Per quella stessa ragione per cui la dissennata dittatura del Guerrazzi doveva finire in Toscana con l’ingresso degli austriaci pronti a ricondurre il Granduca: perché, come tutti sanno, il municipalismo piemontese impedì a Gioberti l’attuazione del suo programma nazionale, che richiedeva l’intervento sardo in Toscana e in Roma: intervento suggerito non già da paura che il Gioberti avesse della democrazia del Guerrazzi e del Mazzini, bensì dal convincimento che quella democrazia avrebbe avuto l’effetto che ebbe: un nuovo intervento dello straniero, tornante a ribadire le catene degli italiani, a dividerli, a reprimerne e soffocarne il sentimento nazionale. L’idea giobertiana dell’intervento in favore del Papa e del Granduca fu combattuta e sconfitta per l’appunto da quello spirito municipale, contro di cui è diretto il Primato e tutta l’opera giobertiana culminante nella guerra per l’indipendenza italiana del 1848 coi connessi tentativi di stringere i vari stati italiani in una lega: quello spirito, per cui la Toscana era uno stato estero per rispetto al Piemonte, e la Sicilia si staccava da Napoli per riacquistare la propria indipendenza, e il napoletano non vedeva connazionali di là dal Tronto. Questo municipalismo che fermentava a Milano nel momento più delicato della guerra per la diffidenza antimonarchica e per la irrequieta propaganda mazziniana, che trionfava a Venezia col repubblicanismo di marca mazziniana del Tommaseo, che ripigliava presto il sopravvento a Napoli per l’immaturità politica del liberalismo, impaziente di stravincere, invece di attendere a consolidare lentamente la libertà acquistata, finì a poco a poco con l’aver ragione degli sforzi del Gioberti per riunire tutte le forze in un fascio nazionale. Ma l’Italia s’era destata; un’opinione nazionale s’era affermata; gl’italiani delle varie provincie s’erano uniti per una guerra nazionale; un’Italia, non ancora reale, ma viva in qualche modo negli animi, c’era: vinta, sì, e dispersa, ma non distrutta, e ormai indistruttibile, come tutto ciò che viene alla luce nel mondo dello spirito.

Gioberti perciò vinse assai più che egli stesso non abbia creduto, quando pur gli convenne riprendere, dolorante e fremente, la via dell’esilio. Le catene della patria erano state ribadite, e il papa era venuto meno all’alta missione additatagli, ristaurando il suo potere in Roma con l’aiuto infame dello straniero. Ma gl’italiani avevano ormai una patria da vendicare, e in Europa c’era un problema nazionale italiano da risolvere: e quel che è più, restava in Italia un punto d’appoggio per la leva, che avrebbe dovuto, quando che sia, sollevare il popolo alla conquista della sua indipendenza, e, ormai, della sua libertà e unità. Un punto d’appoggio, quale infatti l’aveva preconizzato nel Primato il Gioberti: un principe, ossia uno Stato, che aveva fatto propria la causa nazionale. Uno Stato non da creare, come quel popolo a cui il Mazzini si rivolgeva, ma già reale, presente, con un esercito, con una forza operante all’ interno e all’esterno. All’interno, per tutta Italia, come quello che solo era rimasto impegnato nella guerra italiana contro l’Austria; e solo, mantenendo animosamente la costituzione, anche dopo la sconfitta, s’impegnava a continuare quella nuova vita libera, che già s’era accesa per tutta Italia, ma che dopo la sconfitta s’era spenta altrove per tutto. All’esterno, rispetto all’Austria e nel sistema internazionale europeo, perché, mantenendo le sue libere istituzioni e restando aperto al soffio delle comuni aspirazioni nazionali italiane, il Piemonte manteneva rigidamente la sua posizione contro l’Austria e tutto il sistema legittimista consacrato nei trattati del 1815.

A Torino l’idea realistica del Gioberti, dell’accordo tra principi e popoli, ossia della necessità d’innestare l’idea liberale e nazionale nello stato di fatto rappresentato dai governi, era diventata una realtà. Ed egli, come avrebbe potuto essere orgoglioso del miracolo compiuto conquistando il principato, già così timido e sospettoso, alla causa nazionale, così era geloso del mantenimento di quella singolare situazione in cui s’era messo il Piemonte: piccolo Stato vinto dallo straniero e guardato con diffidenza e ostilità da tutti gli altri Stati italiani, e pur fermo nel proposito di restare fedele alla missione storica affidatagli dal risorgimento giobertiano: per essere il propugnatore della caduta ma indomita nazionalità italiana. Donde le aspre polemiche del Gioberti contro i municipali piemontesi, e sopra tutto contro il Pinelli, uno dei suoi più amati e degni amici d’un tempo, accusato di non sentire la nuova dignità del Piemonte e di volerne sacrificare agl’interessi immediati l’onore e l’avvenire alleandolo con l’Austria. Donde pure il processo da lui intentato nel Rinnovamento contro i conservatori, incitanti il principato a disertare la rischiosa causa nazionale, e contro i falsi democratici o puritani, inetti ad apprezzare il vantaggio che dalla monarchia poteva derivare a quella causa.

(da I profeti del Risorgimento italiano, pp. 119-125, Vallecchi Editore, 1923)