DI UN EQUIVOCO CONCETTO STORICO: LA «BORGHESIA»

di Benedetto Croce -

Letto all’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli nel 1927 e poi raccolto in Etica e politica,  questo saggio breve è la summa crociana del concetto di “borghesia”. Intesa non come età intermedia tra Ancien régime e socialismo ma come ceto sociale e culturale “metapolitico”, capace di conciliare il passato e il futuro garantendo sempre la libertà. 

 

 

Nel leggere le opere della storiografia moderna, e nel notarvi l’uso e l’abuso che vi si fa del concetto di «borghesia», e nel provare un senso d’insoddisfazione e di contrarietà, più volte mi si è affacciato alla mente il pensiero, al quale mi sono risoluto finalmente a dare forma determinata: che convenga disfarsi di quel concetto. Intendo dire, di quel concetto in quel significato, e non già in altri significati, cioè non di altri e legittimi concetti, che siano espressi dalla medesima parola. Così è perfettamente legittimo il concetto giuridico di «borghese» nella storia medievale, e ancora per alcuni secoli e per alcuni paesi della storia moderna, quando designa il cittadino del borgo e della città non feudale, o il componente di uno degli «stati» dell’antico ordinamento politico. E del pari può essere legittimo il concetto economico di «borghese», quando designa il possessore degli strumenti della produzione, ossia del capitale, in contrapposizione al proletario o salariato. Vero è che, in questo secondo caso, gioverebbe sostituirlo con quello più corretto di «capitalista» e non lasciarlo oscillare in rappresentazioni formate con altri e diversi caratteri, per modo che si finisca, come si suole, con l’includere tra i borghesi ed escludere dai proletari o salariati i professionisti, gli scienziati, i letterati pei loro abiti di vita e il genere del loro lavoro, laddove, economicamente, la differenza tra questi e i lavoratori cosiddetti delle officine è inesistente o evanescente. Infine, sarà bene da concedere che in senso sociale si chiami «borghese» quel che non è né troppo alto né troppo basso, il «mediocre» nel sentire, nel costume, nel pensare.

Il concetto storico di «borghese» e «borghesia», al quale si riferisce la mia critica e la mia negazione, è invece quello in cui per «borghese» e per «borghesia» si suole intendere una personalità spirituale intera, e, correlativamente, un’epoca storica in cui tale formazione spirituale domini o predomini. Qui non si tratta più né di soggetto giuridico né di soggetto economico, né di un’empirica distinzione sociale, ma di soggetto morale; e, poiché ogni morale ha a suo fondamento una concezione della vita, si tratta anche di un modo di religione o di filosofia, di un complesso di convincimenti e d’idee, che, se anche non siano statiche ma in moto e perciò in cangiamento e svolgimento, seguono un indirizzo generale e ubbidiscono a un principio o a taluni principi loro propri. In questo significato, il concetto di «borghese» è adoperato largamente nella storiografia moderna, e viene assunto a oggetto d’indagine in ispeciali monografie, delle quali, per fermare la mente su taluni esempi, ricorderò quella venuta in luce una quindicina di anni fa del Sombart[i], e l’altra, recentissima, del Groethuisen[ii].
Ora, nel senso definito di sopra, quel concetto si può dire che sia nato male, cioè non da una considerazione schiettamente storica, ma da una polemica pratica: da una polemica economica, politica, morale, condotta da due parti opposte contro la società e la nuova classe dirigente emersa dalla Rivoluzione francese. Da una parte, la nuova configurazione sociale era sprezzantemente e sarcasticamente guardata dagli aristocratici e fautori degli antichi regimi, che la odiavano dal profondo dei loro offesi interessi e di tutto l’esser loro. Dall’altra parte, era sogguardata con invidia dai proletari e operai; e i portavoce di questi, o piuttosto coloro che vollero farsi loro interpreti e rappresentanti, i socialisti, che nacquero allora, commisurandola al loro ideale di una società comunistica, la condannarono in nome del futuro più o meno prossimo, come i primi in nome di un passato più o meno remoto. E gli uni e gli altri foggiarono il concetto di «borghese», e di «epoca» o «civiltà borghese», dipingendolo con tinte conformi ai sentimenti di avversione e ai fini delle loro polemiche.

La formazione di questo concetto, pseudo-storico e intrinsecamente polemico, ebbe luogo in Francia nella prima metà del secolo decimonono e serba l’impronta francese nella parola stessa, la quale nelle corrispondenti delle altre lingue prese, in aggiunta agli antichi, quel senso francese; e anzi, presso i tedeschi, non bene prestandosi al nuovo senso la parola, linguisticamente corrispondente, di «Bürger», e perciò sentendosi alquanto inadatta, viene talvolta sostituita addirittura dalla forma francese: «der Bourgeois», con la quale compare nel titolo del libro del Sombart. Forse colui che più contribuì a quel concetto pseudostorico e al nuovo uso di quella parola fu il Saint-Simon, nella cui persona par quasi che si riunissero le due opposte avversioni dell’antico aristocratico e del nuovo apostolo del socialismo. Così s’insinuò nella storiografia moderna il concetto di «borghese» e di «epoca borghese», innalzato al grado di quelli di «romanità», «classicità», «cristianità», «cattolicesimo», «protestantesimo» e simili, e fatto anzi, a poco a poco, primeggiante su quelli, come il riposto motivo delle forme spirituali dell’età moderna. A questa età si coordinarono poi le analoghe partizioni dell’economia e civiltà antica e schiavistica, e della medievale e feudale con la servitù della gleba e le chiuse corporazioni: ulteriore elaborazione, che fu prodotta dalla crescente polemica socialistica, e, in modo più energico, dalla forma pseudoscientifica e pseudostorica di essa, il marxismo o materialismo storico. Del resto, anche oggi, in tutta Europa, si osserva, nell’uso di quel concetto, la doppia corrente che lo generò, ossia, accanto a quella socialistica, comunistica e perfino anarchica, l’altra aristocratica e reazionaria, che si esprime nei vari nazionalismi coi loro accompagnamenti di vagheggiato assolutismo, di ricostituenda nobiltà e di ricostituenda disciplina cattolica.
È da notare che, mentre nella cerchia delle polemiche sociali e politiche, e nel paese in cui erano più vivaci e aperte, sorgeva la concezione della borghesia come figura spirituale ed epoca storica, la più alta storiografia moderna, che si veniva formando dalla filosofia idealistica segnatamente in Germania, ignorava affatto quel concetto e non avvertiva alcun bisogno di ricorrervi, e invece concepiva la storia come storia del pensiero o della religione o della progrediente coscienza e attuazione della libertà e simili, e la divideva in epoche che segnavano le varie tappe di questo svolgimento, come il Teocratismo, la Classicità, il Cristianesimo, l’Umanismo, la Riforma, il Razionalismo, l’Illuminismo, il Romanticismo, e simili; e, magari, quando in essa s’infiltravano le borie dei vari popoli, come la Grecità, la Romanità, la Latinità, il Celtismo, il Germanesimo, e simili, inteso ciascuno di questi «spiriti di popoli» (VöIkergeister) come portatore di valori spirituali o di sistemi di quei valori, più o meno completi o consecutivamente integrantisi verso la completezza. Per l’origine polemica e tendenziosa del concetto, di cui parliamo, è da giudicare mal fondato e poco avveduto il metodo che si suol tenere di solito nella storiografia moderna, che è di mettersi a cercare quali propriamente siano i caratteri del borghese o bourgeois, e della età in cui esso predomina, e come questa sia cominciata e quale ne sia il decorso, dando così per ammessa o pacifica la realtà di quella figura e di quella età: laddove, in ogni caso, converrebbe riesaminare il presupposto stesso e, per lo meno, purgarlo delle sue scorie polemiche e correggerlo in modo critico, non escludendo in ipotesi neppure che la critica conduca addirittura a dissolverlo, che è poi la mia tesi.

In effetto, la polemica aristocratica e reazionaria, se aveva l’aria d’identificare il borghese col capitalista, con lo speculatore, col bottegaio arricchito, e poi ancora col politicante, col demagogo e con altri tipi che diventarono figure ben note di romanzi e di commedie, scrutata nel suo intimo pensiero e abbracciata nelle sue relazioni e nella sua intera estensione, si discopre negazione di tutta la civiltà che si è venuta maturando nell’età moderna. Essa, infatti, avversava non già semplicemente le esagerazioni e le deficienze e le rozzezze che sono di ogni uomo e di ogni società umana e variano qualitativamente col variar di queste e che bisogna quanto più è possibile controbattere e raffrenare, ma la filosofia moderna, che aveva disfatto e sostituito la teologia; la critica, che aveva dissolto e dissolveva di continuo i dommi; l’ordinamento liberale degli stati, che si affermava contro l’ordinamento autoritario; i parlamenti succeduti alle corti e alle consulte di stato; la libera concorrenza che si era aperta la strada contro i sistemi mercantili e protezionistici; la mobilità della ricchezza contro l’immobilità delle primogeniture e dei fedecommessi e degli altri vincoli; la tecnica, che sconvolgeva le vecchie abitudini; i bisogni di nuovi agi, che abbattevano i vecchi castelli e altri edifici, e rifacevano e ampliavano le vecchie città; il sentire democratico, che misurava l’uomo con la sola misura della pura umanità, cioè con quella dell’energia intellettuale e volitiva; e via discorrendo. E assai spesso parlava chiaro, e al di là dal «borghese», o nel «borghese» preso a simbolo, additava come capitale nemico il razionalismo moderno, l’incredulità o miscredenza, l’individualismo, e accusava grandi responsabili di ciò i grandi uomini, Lutero e Cartesio, Calvino e Bacone, , Voltaire e Rousseau, e poi ancora Kant e Hegel, e tutti quanti. Cosicché accettare il concetto di «borghese» e di «età borghese» importa impigliarsi nell’insidia che questa pseudostoria  tendeva, e cadere nel suo tranello, nel quale non si sarebbe caduti, o non si cadrebbe, se, mettendo le carte in tavola, , si rendesse in luce, sotto la figura più o meno satiricamente dipinta del borghese e fatta antipatica o comica, la figura seria dell’intera età moderna, contro cui quelle piccole arti di scredito non valgono o appena la scalfiscono. E che questa fosse odiata e sbeffeggiata dalla polemica reazionaria, e semplicemente negata dalla sua storiografia, comprovava l’impotenza di questa storiografia, , la sua pseudostoricità, perché la vera storia non nega ma giustifica, non respinge ma spiega, non conosce figli bastardi e degeneri, ma solo figli legittimi, che, piacciano o no, avranno a loro volta prole, la quale potrà perfino piacere a coloro stessi che censurarono i loro genitori e con ciò contribuirono  al carattere di quella prole, facendosene spiritualmente congenitori.

A questo errore di respingere e negare come pessimo sviamento l’età e la civiltà cosiddetta borghese non partecipò la critica e la storiografia socialistica, perché essa voleva essere il pensiero di un’età non reazionaria ma rivoluzionaria, e perciò andare non indietro ma oltre il presente e il passato; onde la forma che, contro le fantasie degli stati di natura e delle età dell’oro e le congiunte utopie, infine essa assunse di socialismo  antiutopistico o critico o scientifico, secondo che si venne denominando, e di economismo e materialismo bensì, ma storico. Basti a documentare il suo diverso atteggiamento la delineazione che dell’età borghese si fa nel Manifesto dei comunisti, e l’elogio e necrologio che la conclude e che è come la sua lirica o la sua epica. Ma, se in questo modo il socialismo sfuggiva all’antistoricismo dei reazionari, cadeva per altro in un diverso errore di giudizio storico. Anche nel socialismo il borghese era presentato come una realtà spiccatamente economica; ma, per quanto venisse satireggiato nelle sue esagerazioni e deficienze, nei suoi aspetti volgari e rozzi, nella sua durezza e ipocrisia di spremitore di profitti, come il borghese descritto dal Fourier e quello che il Marx denominava «il cavaliere dalla trista figura», non lo si teneva confinato in quella ristretta parte; anche nel socialismo l’idea dell’età borghese si allargava e si convertiva in quella  di tutta l’età moderna, delle scoperte geografiche, dell’industria, delle macchine, del protestantesimo, del razionalismo e dell’enciclopedismo e della filosofia kantiana. Perciò il socialismo non intese superarla soltanto con un diverso ordinamento della produzione economica, con l’abolizione del capitalismo privato, ma anche con una totale trasformazione del pensiero e del costume, con una nuova filosofia, un nuovo sentire morale, una nuova arte. Né importa che tutte queste cose con arbitraria e fantastica asserzione, facesse poi dipendere dall’ordinamento economico e variare in funzione di questo; perché quel che importa è che queste altre cose pur fossero da esso incluse nella sua visione e nella sua presagita e cercata rivoluzione. Il materialismo storico voleva essere per l’appunto una nuova filosofia e non una mera economia (il Capitale è solo un frammento della vasta opera ideata dal Marx), un motivo dottrinale che doveva comporsi in una nuova concezione della realtà e della vita. In questo senso procurò di svolgerlo l’Engels, specialmente nell’Antidüring: l’Engels che annunziò il proletariato come diretto «erede» (e, cioè, conservatore e negatore e superatore) «della classica filosofia tedesca», e che non era lontano dal pensiero, nonché di un’etica, perfino di una logica, di una dialettica, di una gnoseologia e, stavo per dire, di una matematica proletaria! In questo senso lavorò per più anni in Italia Antonio Labriola; in questo senso, il Sorel sognò una nuova morale e un nuovo costume, di cui i sindacati operai avrebbero posto e coltivato i germi, simili in tal riguardo alla primitiva eccelesia cristiana. Non tutti hanno dimenticato le illusioni che, or sono trent’anni e più, si accesero dappertutto, e anche in Italia, di una scienza e di un’arte socialistiche, contrapposte a quelle borghesi, già spregiate in nome dell’avveniristico presente; e, se alcuno le avesse dimenticate, quel che ingenuamente i bolscevici tentano in Russia, coi loro istituti educativi e con le loro «scuole di poesia», soccorrerebbe a ravvivarne ricordo.

Ma il fatto è che tale nuova filosofia, nuova religione, nuova morale, nuovo costume, nuova scienza, nuova arte proletaria erano vuoti desideri e non realtà, parole e non concetti; e non potevano abbattere le corrispondenti formazioni borghesi, come forse si può, almeno in idea, concedere per l’ordinamento economico della produzione, perché quelle altre formazioni non sono soltanto borghesi o economiche, ma variamente umane, e perciò speculative, estetiche, morali, e non soffrono superamento se non nella loro stessa cerchia e per ragioni loro intrinseche, e in quella cerchia continuamente si superano, si arricchiscono, si particolareggiano, si trasformano, e non però danno segno di mai abbandonare il loro principio direttivo, quello che si è venuto formando e affinando lungo tutta la storia, e che, attraverso il medioevo, e all’uscita da esso, e particolarmente poi tra il sette e l’ottocento, parve addirittura un rovesciamento dell’antico principio, laddove ne era uno svolgimento dialettico e un potenziamento. Innanzi a questo potenziamento, si poté parlare, con qualche ragione, di un’età «nuova» o «moderna», e i reazionari aristocratici o cattolici poterono segnarne i caratteri preminenti e aborrirla; ma i socialisti, che proseguono e vogliono spingere assai oltre quella modernità, non possono abbassarla ad epoca spirituale superata, non essendo dato ad essi di ricorrere a niente che sia analogo a quel reale passato cattolico-feudale-autoritario-teocratico, del quale i reazionari si valevano come ideale e criterio di giudizio per la costruzione della loro pseudostoria. L’età moderna riconosce i socialisti suoi elementi e componenti: come l’ebreo del dramma del Bernstein riconosce nell’ardente antisemita il figlio del suo sangue, fornito del suo medesimo impeto e della sua medesima psicologia.
Dopo di che, non sembra necessario aggiungere altre argomentazioni a dimostrare l’inadeguatezza, e anzi la nullità, del concetto di «borghesia», sostituito a quello di «età moderna», e l’opportunità del consiglio agli storici di guardarsene come da un assai frequente motivo di storture, di sforzature e di unilateralità nelle descrizioni che essi fanno, e nei processi che vengono spiegando e illustrando. Direi quasi che essi debbono lasciar perdere quella parola, abbandonandola alle polemiche dei reazionari e dei socialisti, o adoprarla il meno possibile, cioè solo nel caso di certi aspetti della vita passata e della presente, ai quali è propria, o solo come metafora, accompagnata dalla coscienza del suo ufficio meramente metaforico, immaginifico ed espressivo. E da quella parola dovrebbero guardarsi anche i politici liberali, facendosi accorti che accogliere il concetto polemico di «borghese» come verità scientifica, vale inconsapevolmente accogliere l’ideologia antiliberale, sia reazionaria sia socialistica, di cui quel concetto, così configurato, è gravido (donde il detto che la «libertà» sia una «ideologia borghese», cioè di difesa economica, e che l’«idealismo» sia «filosofia borghese» e simili). Ma, sebbene la nostra dimostrazione sia compiuta con quel che si è detto, non sarà inutile, a conferma e comprova, dare uno sguardo ai libri che abbiamo ricordati sulla storia del «borghese» e dell’«età borghese».

Che cosa ha voluto fare, per esempio, il Sombart? Il sottotitolo del suo libro suona: «contributo alla storia spirituale dell’uomo economico moderno» (Wirtschaftsmensch). Senonché, l’homo oeconomicus non può avere una storia spirituale ma soltanto economica; e perciò quella storia spirituale è bensì dell’«uomo moderno», ma non dell’«uomo moderno economico», che, come tale, non può essere a nessun patto «il portatore rappresentativo (der repräsentative Träger) dello spirito del tempo nostro», com’è detto nella prefazione. Con questo confuso e contraddittorio concetto iniziale, non è meraviglia che la storia scritta dal Sombart accumuli bensì molti fatti e molti buoni schiarimenti su certi gruppi di fatti, ma lasci una «impressione tormentosa» (come l’autore stesso confessa), mancando di una linea chiara. Il che il Sombart, dopo aver fatto questa confessione, procura di giustificare con la natura «infinitamente complessa» del suo problema, con la cautela critica che lo fa rifuggire dalle «comode formole» (bequeme Formeln) generali di spiegazione, con la «molteplicità delle cause», che ha dovuto passare in rassegna, col suo rifiuto di ricorrere a una causa causarum al modo usato dal materialismo storico. Tutt’al più (egli dice), si può dare un ordinamento complessivo per cause soprordinate e sottordinate, con una sorta di gerarchia di cause: quali sarebbero, dopo la caduta dell’Impero romano, i due possenti impulsi della ricerca dell’oro e dello spirito d’intrapresa, da cui provennero le istituzioni e perfino lo Stato moderno, e con esso la grande spinta allo spirito capitalistico che è rappresentata dall’eresia, la quale presuppone a fondamento dell’anima europea il bisogno religioso. Tutto questo portò i popoli fuori dei loro paesi e alla fondazione delle colonie; e dai baroni e guerrieri, che prima ne furono invasati, lo spirito d’intrapresa si diffuse via via, assumendo forme sempre più libere da violenza e facendosi più commerciale, in larghi strati di popoli, soprattutto negli etruschi o toscani, nei frisi o fiamminghi, e negli ebrei. Le milizie professionali, l’autorità delle forze morali e specialmente della religione, il miscuglio dei sangui lo accrebbero, finché il capitalismo, che sino alla fine del secolo decimottavo era ancora legato da vincoli morali, di costumi e di confessioni religiose, si disciolse da ogni vincolo. Al qual effetto dell’illimitato suo svolgimento concorsero la scienza dei popoli, la borsa creata dagli ebrei, l’efficacia da questi esercitata nella vita economica europea, l’infiacchirsi dei sentimenti religiosi e l’abbattimento di tutti gli impacci nei rapporti con l’estero, che agevolò l’emigrazione delle forze economiche. Ma quel che il Sombart chiama, in questa sua storia, mancanza di una linea unica o di una «formola comoda», è mancanza di logicità, cioè insufficiente padroneggiamento della materia da parte del pensiero; e tale pieno padroneggiamento era, in verità, impossibile, posto il punto di partenza in un concetto confuso. Se egli avesse schiarito quel concetto, si sarebbe trovata innanzi la storia dello spirito moderno, a un dipresso quella trattata dal Dilthey nel suo noto libro[iii]; e avrebbe potuto arricchirla e meglio determinarla nei particolari, e soprattutto estenderla dalle idee e dalle teorie al comune sentire, ai costumi e ai modi dell’azione e del lavoro; e il suo sarebbe stato davvero un contributo «zur Geistesgeschichte des modernen Menschen», compreso il «wirtschaftlichen», in quanto si riattacca a quella. Il centro era da cercare sempre nel movimento intellettuale-morale.

Dice benissimo il Sombart stesso, discorrendo della vita economica precapitalistica: «Tutti i singoli tratti di essa, come della vita culturale in genere, trovano la loro intima unità nell’idea fondamentale di una vita che riposa sulla persistenza e sull’operare degli uomini gli uni accanto agli altri nello spazio. Il sommo ideale di quel tempo, come traspare nel modo più compiuto dal mirabile sistema di san Tommaso, è l’anima singola chiusa in sé e che dal suo nocciolo essenziale si eleva alla perfezione. Tutte le esigenze e forme di vita sono adattate a questo ideale: al quale risponde il rigido ordinamento degli uomini in professioni e stati, che sono pensati tutti di egual valore nelle loro comuni relazioni con l’intero e che offrono al singolo forme ben determinate entro cui egli può svolgere il suo essere individuale verso la perfezione; e vi rispondono del pari le idee direttive a cui la vita economica è sottoposta, il principio del lavoro per coprire quanto è richiesto dal bisogno, e quello del tradizionalismo: che sono entrambi principi di perduranza». E non s’intende perché egli, che ha riattaccato l’economia medievale alla filosofia e all’etica medievale, non sia proceduto allo stesso modo nello studio dell’età moderna, e abbia buttato via, nella nuova navigazione, quella buona bussola. La quale lo avrebbe anche liberato dalla vicenda di paura e di smarrimento, da cui è agitato nello spingere l’occhio sull’avvenire dello spirito borghese e capitalistico: paura e smarrimento che nascono da ciò che egli distacca quello spirito dal complesso spirituale a cui appartiene e in cui trova insieme stimolo e freno, e lo concepisce come una sorta di violenta forza della natura, un «gigante», come lo chiama, che ora è nel rigoglio della sua robustezza. Finché questa dura, che cos’altro si può fare (egli dice), se non prendere provvedimenti per proteggere corpo e vita dei lavoratori? Ma durerà? È da presumere che no, e segni di stanchezza già si scorgono in certe tendenze al comodo e al lusso, e nel burocratizzamento delle intraprese, e altri segni forse ne sopravverranno, come la diminuzione della natalità. Ma che cosa accadrà allo spegnersi del vigore capitalistico? «Forse il gigante, diventato cieco, verrà adibito a tirare il carro della civiltà democratica; fors’anche, si avrà allora il crepuscolo degli Dei. L’oro sarà restituito ai gorghi del Reno. Chi lo sa?». Sono domande non istoriche e non etiche: l’uomo, che, con senso storico ed etico, è dentro la lotta della vita, non se le pone, e bada a promuovere gli eterni elementi di salute e vigore che sono dell’unica civiltà, chiamata, come fu avvertito, «moderna» solo per un’empirica distinzione dall’antica e medievale; dopo la prima delle quali parve che la civiltà decadesse e invece si approfondiva e ampliava, e, dopo la seconda, parve che si avesse una totale inversione della precedente ed era invece una più intensa prosecuzione: tanto che noi ci sentiamo ancora non solo eredi dello spirito ellenico e romano, ma di quello cristiano.

Il libro del Groethuisen non entra nel ginepraio della costruzione storica universale, in cui rimane intricato il Sombart, perché studia soltanto il sorgere dello spirito borghese in Francia e, nel primo volume ora pubblicato, soltanto il rapporto tra questo spirito e quello della Chiesa nel sei e settecento; ed è un lavoro pieno d’interesse, così per il materiale che vi si adopera e che è quello al quale il mondo laico di rado rivolge l’attenzione, cioè le prediche, le istruzioni religiose, i libri di morale religiosa e di critica e polemica dei costumi del tempo, e simili, come per il modo assai limpido in cui è condotto. Ma neppure il Groethuisen, descrivendoci questo spirito borghese, che si vien formando una propria concezione delle cose di fronte a quella della Chiesa, che si comporta tepido, indifferente e miscredente rispetto ai dommi, che si distorna dall’oltremondo e mira solo al mondo, che non è più ombrato e abbuiato dall’idea della morte e del di là, che non si tormenta nella coscienza del peccaminoso, che non considera più il lavoro come una sofferenza e un castigo ma come un ufficio, fonte di gioia e di orgoglio, che coltiva un «positivismo della vita» (ein Lebenspositivismus), e ha insomma una sua nuova etica diversa dall’etica cristiana e ascetica, e così via per tutti i particolari che egli sagacemente mette in luce, riesce a dimostrare che la sua rappresentazione storica sia la rappresentazione di una «classe». Non solo egli stesso, ripetute volte, considera il borghese come il «nostro modo di essere, di pensare e di operare», il «tipo dominante dell’età moderna», ma, anche dove si prova a qualche debole tentativo di stampigliare questo tipo a tipo di classe, non riesce nello sforzo. Così egli osserverà che il borghese, nonostante la sua miscredenza e indipendenza mentale, pensoso di tenere a freno il popolo, e perciò fattosi prudente, «intende riservarsi la sua morale per sé stesso, e, quanto agli altri, essi possono fino a nuov’ordine rimanere credenti»; e giudicherà che «questo ci basta per mostrare quanto la nuova morale, quali che siano le forme generose di cui si adorna, resti in rapporto stretto con lo spirito di una classe». Ma la prudenza, mi sembra, è di tutti gl’ingegneri, che non tolgono le impalcature e i puntelli quando l’edifizio non è in grado di reggersi ancora sulle proprie fondamenta (e, del resto, il Groethuisen medesimo dice: «fino a nuov’ordine»), e, quand’anche possa talvolta farsi ipocrita e degenerare a espediente di classe, per sé stessa non ha che vedere con lo spirito di classe, il quale sarebbe comprovato in universale se la borghesia o la classe dirigente e liberale, di cui essa è qui sinonimo, avesse mai, programmaticamente, mirato a tenere il popolo nell’ignoranza e nella superstizione, come usarono i governi reazionari, laddove sta di fatto che essa ebbe nel suo programma, e curò, l’istruzione del popolo per l’appunto mercé quei principi laici, che erano i suoi stessi. L’idea del Dio-gendarme, che è dei reazionari e dei vecchi aristocratici, appare trai componenti della borghesia in modo affatto individuale o episodico, ed è sentita come decadenza del proprio principio vitale di questa, tradimento al proprio ideale, rottura della propria tradizione.

Sicché, nonostante che la qualifica di spirito di «classe» torni qua e là (ma pure assai di rado) nella esposizione dei Groethuisen, l’immagine che egli dipinge non è del borghese, ma dell’uomo moderno in genere. Né il Groethuisen riesce in un altro suo tentativo, che è di distaccare in certa guisa la formazione dello spirito borghese da quella della filosofia moderna, insistendo nel notare che il modo di essere, di pensare e di operare dei borghese, la sua Weltanschauung o concezione del mondo, è un «fatto» e non una «riflessione», simile a quella che usano compiere le filosofie, e desumendo il suo materiale dalle fonti che abbiamo indicate e che sono libri di uomini di chiesa, di predicatori, di direttori spirituali, e non di filosofi. Se è una Weltanschauung, è perciò stesso una filosofia; e se coincide, come coincide, con la filosofia moderna e immanentistica, è questa filosofia; e, se i libri, da cui ne sono desunte le testimonianze, non sono scritti da filosofi, vuol dire che le cose filosofiche non sono contenute soltanto nei libri dei filosofi di professione e di sistemi; e se, infine, si tratta non solo di una filosofia, ma di un abito di vita, vuol dire che si tratta veramente di filosofia, di filosofia seria, la quale è tutt’insieme abito di vita, e alla vita dà e prende in un circolo che è unità. Tutt’al più, il profitto che egli trae per la filosofia dai cosiddetti libri non filosofici reca nuova prova a una mia tesi prediletta, che è appunto d’intendere la filosofia in modo non libresco e non scolastico, ma come il pensiero, dovunque e comunque si trovi espresso. Che veramente, nella formazione della mente e dell’animo moderni, il gesuitismo con la sua educazione e la sua casistica, e il giansenismo col suo concetto della grazia, non abbiano avuto parte, o l’abbiano avuta inferiore (e che vuol dire, qui, «inferiore»?) a quella del Rousseau col suo contratto sociale e del Kant con la sua asserzione del dovere?
Anche altre gravi tracce si potrebbero indicare, nella storiografia e nella scienza politica odierne, della confusione introdotta tra il significato di «classe» della parola «borghese» e il suo significato sopraclassistico e di totalità spirituale; e di esse conviene per lo meno mentovare la recente teoria del Kay Wallace intorno al «tramonto della politica» ai giorni nostri e nel prossimo avvenire[iv]. La politica tramonterebbe, perché le potenze del mondo sono ora gli industriali e gli operai, la plutocrazia e il proletariato, mentre il «ceto medio» o la borghesia, che era quello che pensava e faceva politica, è via via più schiacciato tra le due enormi forze antagonistiche, e il mondo moderno non si muove più secondo la politica ma secondo l’economia.

Ora, come si può pensare che tramonti mai una categoria spirituale essenziale dell’umanità? Come si giunge a cosi strano concetto? Intermediaria di questo errore è appunto la identificazione della «politica» con la classe borghese, col «ceto medio». Ma si può dire che nelle parole stesse sia indicata la confutazione dell’errore, perché il bürgerlich è anche il «civile», e il ceto «medio» è anche il ceto «mediatore», ossia non è un ceto economico, ma è il rappresentante della «mediazione» nelle lotte utilitarie ed economiche, la quale non si è attuata e non si attua mai altrimenti che col superare e perciò regolare quella lotta mercé concetti non più economici, e neppure di mera e brutale politica, ma etico-politici, come soglio denominarli. Cosicché il «ceto medio», di cui qui si parla, è una «classe non classe», simile a quel «ceto generale», a quell’allgemeine Stand, ai quale lo Hegel riconosceva come cerchia dell’attività che gli spettava come suo proprio affare, gl’«interessi generali», die allgemeine Interessen. Dico «simile» e non del tutto «identico», perché lo Hegel, lasciandosi qui come altrove dominare dalle condizioni della Germania del suo tempo, attribuiva a quel ceto consistenza economica nell’agiatezza concessagli dalla fortuna o dagli stipendi fornitigli dallo Stato e lo assegnava unicamente al «servizio del governo» (dem Dienst der Regierung); laddove esso è da intendere più largamente e nella sua purezza, come il complesso di tutti coloro che hanno vivo il sentimento del bene pubblico, ne soffrono la passione, affinano e determinano i loro concetti a quest’uopo, e operano in modo conforme. Rari sono costoro nella loro forma eccellente, ma hanno intorno a sé molti minori, nei quali si propaga la stessa passione e lo stesso pensiero, e che li aiutano: rari come sono rari i poeti, i grandi poeti, ma non per questo solitari e inefficaci, perché diffondono intorno a sé, nelle anime, la poesia.
Con questo accostamento alla «poesia», al quale siamo arrivati movendo dal concetto, che suona sommamente prosaico, della «borghesia», vogliamo avere sciolto definitivamente la borghesia in significato spirituale, la borghesia che è detta così per metafora (e per non felice metafora) dalla borghesia in senso economico, con la quale la prima si suole scambiare, e, peggio ancora, deplorevolmente contaminare, con danno non solo della storiografia ma del sano giudizio morale e politico.

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Note


[i] W. Sombart, Il borghese: contributo alla storia dello spirito dell’uomo economico moderno, Milano 1950.
[ii] B. Groethuisen, Le origini dello spirito borghese in Francia, Milano 1964.
[iii] W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, Venezia 1927.
[iv] W. K. Wallace, The trend of history, New York 1922.