CRONACA DEL NAUFRAGIO DELL’IMPERO OTTOMANO

di Max Trimurti -

 

Di fronte alla crescita dei nazionalismi e del colonialismo europeo, l’Impero ottomano tenta di resistere agli effetti della Prima guerra mondiale. Smembrato e ridimensionato nei suoi possedimenti, verrà ridotto alla sola Turchia, una repubblica laica che “sogna” di essere omogenea etnicamente.

 

Quando nell’autunno del 1914 l’Impero ottomano entra nella Prima guerra mondiale a fianco del Reich tedesco e dell’Impero austro-ungarico, il mare Mediterraneo aveva da lungo tempo cessato di essere il “lago ottomano” del XVI secolo. Era stato comunque necessario arrivare al XIX secolo per assistere a una “de-mediterraneizzazione” dell’impero: inizialmente con la perdita della Grecia (1832), di Cipro (1878) e di Creta (1898), capisaldi ottomani nel Mediterraneo orientale; in seguito con il crollo dell’impero nei Balcani, ritmato dalla guerra russo-ottomana del 1877-78 e dalle guerre balcaniche (1912-1913). L’Africa settentrionale, per una parte ancora ottomana sulla carta, non aveva resistito, in Algeria e in Tunisia, alla conquista francese, né, in Egitto, nel momento dell’emancipazione di Mehemet Alì (1769-1849), quindi all’instaurazione di un protettorato britannico (1914). Entrata in ritardo nell’avventura coloniale, nel 1911-1912 l’Italia aveva segnato la fine della presenza ottomana in Tripolitania e Cirenaica.
L’impero ottomano, senza una marina efficace, aveva perduto il principale strumento della sua influenza nel Mediterraneo. Un primo riarmamento navale, operato sotto il regno del sultano Abdulaziz (1861-1876), non aveva dato i frutti sperati. Dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi (luglio 1908) e sotto la ferula del loro partito nazionalista, il Comitato Unione e Progresso (CUP), viene creata nel 1909 una Lega navale ottomana. Essa aveva acquistato mediante sottoscrizione pubblica diverse navi da guerra. Le prime erano due corazzate tedesche, ribattezzate Barbaros Hayreddin e Turgut Reis, dai nomi dei due più celebri corsari e ammiragli ottomani. Simboli del dominio turco del Mediterraneo nel XVI secolo, questi personaggi avevano governato Algeri e la Tripolitania. Ma con due altre navi da guerra acquistate dalla Germania, la Goeben e la Breslau, che viene decisa simbolicamente l’entrata in guerra ottomana del 1914. La loro consegna darà luogo nell’agosto di quell’anno a una corsa-inseguimento anglo-tedesca nel Mediterraneo. Le ostilità si apriranno veramente nel Mar Nero, quando la flotta ottomana bombarderà i porti russi il 29 ottobre 1914.

Abbandonata alle forze dell’Intesa

Durante il conflitto l’Impero ottomano sarà costretto ad affrontare le tre grandi potenze mediterranee: Francia, Italia, e Gran Bretagna, divenute tali grazie alle rispettive marine militari e per il dominio in Africa settentrionale. Per effetto degli accordi segreti Sykes Picot (1916), Francia e Regno Unito decidono di mettere definitivamente fine a ogni presenza ottomana nel bacino mediterraneo orientale, spartendosi il Vicino Oriente in zone di influenza. L’armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), che mette fine alla guerra sui diversi fronti ottomani, non determina tuttavia la morte dell’impero. Il testo stabiliva il principio di un’autonomia delle province arabe ottomane, dal Levante fino al Golfo e alla Mesopotamia. Mudros autorizzava tuttavia l’occupazione di “punti strategici del territorio ottomano”. E proprio a partire da questa clausola, e dalle sue divergenti interpretazioni nel campo dei vinti e dei vincitori, che verrà effettuato lo smembramento – de facto, e poi de jure, con il Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 – dell’Impero ottomano. E sarà sempre contro questo stesso smembramento che si costruirà il revisionismo turco.
Le occupazioni alleate iniziano a partire dal novembre 1918, a Mossul, ma anche sulle coste mediterranee, a Mersin, ad Alessandretta e soprattutto nella capitale, Constantinopoli. I dirigenti ottomani cercano di giocare la carta della discordia fra gli alleati, mettendo alternativamente gli uni contro gli altri per isolare i più intransigenti o minacciosi. Essi applicano, in tal modo, la tattica che era stata quella della loro diplomazia a partire dalla fine del XVIII secolo e per tutto il periodo in cui la “questione d’Oriente” aveva eccitato le ambizioni delle potenze europee.
Quello che indisponeva i dirigenti ottomani era soprattutto il fatto che ci fosse, alla fonda nel Bosforo, l’Averof, nave da guerra della marina greca, la cui acquisizione nel 1909 aveva determinato la fondazione della Lega Navale ottomana. Tanto più che l’Averof, così come le truppe d’occupazione elleniche, erano state accolte con entusiasmo dalla popolazione greca della capitale. E ciò che inquietava gli ufficiali ottomani era l’arrivo in Cilicia della Legione Armena, unità della Legione straniera francese formata da volontari, che comprendeva sopravvissuti al genocidio perpetrato nel 1915 dal governo dei Giovani Turchi. La prospettiva di una rivincita delle minoranze greche e armene, sinonimo di una frammentazione dell’Anatolia, faceva paura.

La sollevazione kemalista

Questa rivincita, in effetti, avrebbe permesso di dare una traduzione concreta alle rivendicazioni irredentiste che i rappresentanti di queste minoranze avevano espresso alla conferenza di pace, aperta a Parigi nel gennaio 1919. Le rivendicazioni si basavano sull’esistenza dello stato greco e di quello armeno (nel Caucaso del Sud). Il potere ottomano aveva invece riposto le sue speranze nella dinamica creata dal wilsonismo. La visione politica del presidente americano Woodrow Wilson (discorso dei 14 punti) intendeva ricostruire l’ordine internazionale sulla base del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Nell’Europa orientale, nel Medio Oriente, come in Cina o in India, tutti gli attori utilizzavano la retorica del wilsonismo.
A metà maggio 1919 lo sbarco a Smirne di un corpo di spedizione ellenico contribuì a ravvivare il sentimento nazionale turco. Mustafà Kemal, militare contrario allo smembramento dell’Anatolia e all’occupazione straniera, riuscì a mobilitare dietro di sé la popolazione maschile musulmana, sebbene spossata da un interminabile sforzo di guerra a difesa dell’impero a partire dalle guerre balcaniche. Nel 1918, quello che rimaneva dell’esercito ottomano era nella maggior parte accantonato nel nord-est dell’Anatolia, per far fronte all’Armenia. La lotta contro l’esercito ellenico, a causa di questa contingenza, sarà per lungo tempo una guerra di guerriglia condotta da bande armate e da milizie musulmane, prima della effettiva ricostituzione di un esercito regolare.
Qualificata dai Kemalisti come “Guerra di liberazione” e come “Grande catastrofe” dai Greci, che ne uscirono sconfitti, il conflitto vide scontrarsi dal 1919 al 1921, questa volta in Cilicia, anche i Kemalisti contro i Francesi, che occupavano la regione e che finiranno per abbandonare ai Turchi. Lo scontro assunse anche la forma di una guerra civile fra le comunità dell’impero, ma anche fra i fautori del sultano e del governo di Istanbul da un lato e quelli del governo parallelo kemalista di Ankara dall’altro. Dal punto di vista ottomano la guerra non iniziò nel 1914 e non si concluse nel 1918. Fu piuttosto “una guerra di dieci anni” terminata nel 1922 con la vittoria turca sull’esercito greco.
Il 1° settembre 1922, Mustafà Kemal, all’indomani della vittoria decisiva e definitiva contro l’esercito greco nell’Anatolia occidentale, arringò le truppe indicando il Mediterraneo come obiettivo fondamentale. L’obiettivo era in effetti Smirne (Izmir), che le forze kemaliste raggiungeranno una settimana più tardi. In effetti, lo scopo a cui mirava Kemal, in maniera metonimica, era il mare Egeo. Questa voluta confusione non era una cosa nuova per l’Impero ottomano, nel quadro della questione d’Oriente. In effetti, dopo la sconfitta di Cesme contro la flotta russa del 1770, il controllo del mare Egeo era diventato una sfida marittima fondamentale, sia perché riguardava la discesa della flotta imperiale russa verso i mari caldi, sia per la rivendicazione delle coste ottomane egee da parte della Grecia e, successivamente, anche da parte dell’Italia.

L’abbandono delle province arabe

Mehmed VI, ultimo sultano ottomano, lascia il paese dopo l'abolizione del sultanato, 17 novembre 1922.

Mehmed VI, ultimo sultano ottomano, lascia il paese dopo l’abolizione del sultanato, 17 novembre 1922.

La perdita del Levante mediterraneo era sostanzialmente implicita da parte di Ankara, a seguito della rinuncia, prevista dall’armistizio, alla quasi totalità delle province arabe. Questo faciliterà nel Vicino Oriente l’instaurazione dei mandati della Società delle Nazioni, assegnati nel giugno 1919 a Francia e Gran Bretagna. I mandati verranno poi definiti durante la Conferenza interalleata di Sanremo (aprile 1920). Il tardivo Trattato di Sèvres (agosto 1920), che doveva stabilire la sorte dell’impero ottomano, non farà che accorpare i precedenti accordi. I nazionalisti turchi, in maggioranza nell’ultima assemblea nazionale eletta nel 1920, accetteranno queste perdite e, nella realtà, non rimarranno scontenti nell’assistere all’azione delle due potenze europee per spezzare i sogni del giovane nazionalismo arabo. Il Patto nazionale, che essi adotteranno il 28 gennaio 1920, tracciò la frontiera meridionale del futuro stato turco laddove terminavano i territori non occupati al momento dell’armistizio e comprendenti al loro interno una maggioranza “turca”. Al termine della cosiddetta “guerra d’indipendenza”, il Trattato di Losanna (24 luglio 1923) confermò questa cessione, lasciando i due problemi ancora irrisolti a un successivo regolamento: il sangiaccato di Alessandretta (Iskenderun) e la provincia di Mossul.
Il revisionismo turco era anteriore alla sollevazione del 1919. Tuttavia la rivolta kemalista gli darà una coerenza diplomatica e, soprattutto, la forza delle vittorie militari acquisite contro i Greci. I Kemalisti utilizzeranno il sostegno bolscevico come uno spauracchio per spingere gli Alleati a un accordo. Essi otterranno, in tal modo, il riconoscimento internazionale, in primo luogo della Francia e dell’Italia. Poi riusciranno a mettere fine al bicefalismo diplomatico turco, escludendo il governo di Istanbul dai negoziati di Losanna. Il loro rifiuto, alla fine vittorioso, delle clausole del Trattato di Sèvres, determinerà l’annullamento di buona parte di quanto in esso previsto. Il trattato, di fatto, prevedeva la costituzione in Anatolia di zone di influenza alleata (Inghilterra, Francia e Italia), assegnava Smirne e il suo hinterland alla Grecia, che già lo occupava, estendeva l’Armenia caucasica nell’Anatolia orientale e, infine, prevedeva di creare uno Stato curdo nel Medio Oriente e uno stato ebraico in Palestina. Questo aggiramento delle disposizioni del Trattato di Sevres diventerà un esempio da meditare, sia nel Vicino Oriente sia in Europa. La destra e l’estrema destra nazionaliste tedesche, tentate dal ricorso alla violenza nel 1923 per cancellare il “diktat” del Trattato di Versailles, non si sbaglieranno nel trarre, dal combattimento di Mustafà Kemal, una fonte d’ispirazione per la loro azione futura.
L’Impero ottomano scomparirà fra il novembre 1922 (fine del sultanato), l’ottobre 1923 (proclamazione della Repubblica) ed il marzo 1924 (abolizione del califfato). Questa sarà la fine di un impero pluricomunitario, apparentemente pluriconfessionale, che sarà parzialmente rimpiazzato da uno Stato nazione turco in Tracia ed in Anatolia, come anche da mandati franco-britannici sul Vicino Oriente. L’omogeneizzazione etnica, iniziata nella “guerra dei 10 anni”, viene parzialmente completata dal grande scambio di popolazione turco-greco del 1923-1924. Tutto questo, stabilito dal Trattato di Losanna, concorrerà a definire essenzialmente i “Turchi” ed i “Greci” secondo categorie religiose (mussulmani o cristiani ortodossi); conseguentemente anche, il trattamento delle minoranze nella maggior parte degli Stati post-ottomani seguirà di massima la dimensione religiosa delle nuove identità nazionali.