1812: LA RUSSIA DAVANTI A NAPOLEONE

di Massimo Iacopi -

 

La Russia si era preparata al confronto con l’esercito napoleonico molto meglio di quanto non sia mai stato detto. E condusse la guerra sul suo territorio in modo esemplare.

Nel giugno 1807, l’imperatore Alessandro I, pochi giorni dopo la catastrofica sconfitta di Friedland, è costretto a prendere la via di Tilsit per negoziare con Napoleone Bonaparte. Il generale corso, apparentemente generoso, gli propone più di una pace, un’alleanza. Ma lo zar entra in questo progetto napoleonico solo perché costretto.

La Russia si prepara alla guerra

A Tilsit l’impero russo sembra aver salvato la sua posizione, ma per Alessandro I non è certo l’ora dell’euforia. Da un lato giudica onerose le condizioni imposte da Napoleone come prezzo per l’alleanza. Lo zar è stato costretto a riconoscere la preminenza francese in Europa centrale e nei Balcani e ad accettare, con la formazione del Granducato di Varsavia, la costituzione di un embrione di stato polacco sotto influenza francese alle sue frontiere, e soprattutto a impegnarsi a rispettare il blocco continentale, proprio mentre l’Inghilterra risulta il primo partner commerciale della Russia. Inoltre, Alessandro è convinto che l’alleanza, contraria agli interessi dell’impero russo, non resisterà alle ambizioni divergenti dei due sovrani.
Un anno più tardi, nell’agosto 1808, poco prima di mettersi in marcia per incontrare Napoleone a Erfurt, Alessandro scrive a sua madre Maria Fiodorovna una lettera esplicita per quanto concerne le sue posizioni: “I nostri interessi ci hanno costretto negli ultimi tempi a concludere una stretta alleanza con la Francia, faremo di tutto per provare a Napoleone la nostra sincerità e la nobiltà del nostro modo d’agire. Occorre che la Francia creda che il suo interesse politico possa coniugarsi con quello della Russia; nel momento in cui essa non avrà più questa convinzione, la Francia vedrà nella Russia solamente un nemico e che sarà suo interesse quello di cercare di distruggerla. […] Se la Provvidenza ha decretato la caduta di questo stato colossale (quello napoleonico), io nutro dubbi sul fatto che ciò possa avvenire all’improvviso, ma anche in questo caso, sembrerebbe più saggio attendere questa caduta e a quel punto assumere dei provvedimenti idonei”.
Leggendo questa lettera, emerge chiaramente che, per Alessandro, l’alleanza con Bonaparte, puramente circostanziale, non si basa su nulla di solido. Gli anni che seguono sono marcati da tensioni e crisi diplomatiche: non si realizzano progressi su nessuno dei diversi contenziosi e con grande danno di San Pietroburgo il Granducato di Varsavia viene persino ingrandito.
In questo contesto, dal 1810-11, Alessandro prepara il suo esercito e la sua linea d’azione in vista del cataclisma che sembra imminente. Durante questi mesi, l’esercito russo viene riorganizzato sotto la guida del ministro della Guerra, feldmaresciallo Michael Andreas Barclay de Tolly. Gli effettivi vengono aumentati in maniera sostanziale e viene migliorata la qualità dell’addestramento. Parallelamente, in seno allo stato maggiore, dopo aver riflettuto sul modo migliore di fronteggiare il “genio militare”, viene abbozzata sin da questo momento la strategia che verrà applicata di fronte al nemico. Sarà rifiutato per quanto possibile di combattere in campo aperto per impedire a Napoleone di ottenere la ricercata vittoria decisiva e si lascerà alla Grande Armée la possibilità di avanzare sempre più lontano verso est, all’interno del territorio russo, al fine di logorarla e spossarla.
Di fronte all’opinione pubblica interna, Alessandro I non resta inattivo. A partire dal 1811-12 egli ristabilisce la censura, incoraggia la pubblicazione di riviste e di pamphlets nazionalisti e antifrancesi e pone nei posti chiave uomini noti per la loro “gallofobia”. E’ il caso del conte generale Fedor Vasilievic Rostopscin, nominato nel marzo 1812 governatore generale della città di Mosca. Per Alessandro I, che teme la seduzione che Napoleone, uomo dell’Illuminismo e della Rivoluzione, potrebbe esercitare sulle aristocrazie russe, si tratta di agire immediatamente per unire l’opinione pubblica in una posizione patriottica e antinapoleonica.
Grazie a una efficace rete di spionaggio a Parigi, Alessandro dispone fino al febbraio 1812 di informazioni militari di prima mano che lo confermano nell’imminenza di un conflitto. Pur tuttavia, pur sapendo che ormai la guerra è inevitabile, l’invasione del giugno 1812 sorprende Alessandro per la sua ampiezza. Sono infatti non meno di 420 mila combattenti che attraversano il fiume Niemen nel giro di una settimana. La Grande Armée napoleonica, l’esercito delle 20 nazioni, aureolata del suo prestigio e della sua esperienza sembra invincibile. E da quel momento Alessandro I e il suo esercito dovranno lottare su tutti i fronti.

La guerra patriottica

La guerra patriottica, come viene chiamata dai Russi, la campagna del 1812, costituisce per una prova terribilmente traumatica e allo stesso tempo un evento fondamentale in termini di identità nazionale. Se il patriottismo russo è nato durante l’invasione polacca del 1612, la prova del 1812 contribuirà alla nascita e al consolidamento di un vero sentimento nazionale. Esso unirà I russi di tutti gli orizzonti e di tutte le classi sociali in uno stessa volontà di respingere l’invasore.
Sul piano strettamente militare, la scelta di ripiegamento volontario, propugnata da Barclay de Tolly si dimostrerà pagante. Avanzando verso città e villaggi I cui magazzini di viveri e di materiali sono stati sistematicamente distrutti o incendiati, la Grande Armée incontra serie difficoltà a rifornirsi e si indebolisce giorno dopo giorno, vittima più di privazioni, di sfinimenti e di epidemie che di combattimenti.
Il 14 settembre Napoleone entra a Mosca con 130 mila uomini. Se si tiene conto dei 100 mila uomini lasciati lungo il percorso per il controllo delle regioni occupate, si può constatare che, a circa un mese e mezzo dall’arrivo del gran freddo, il “generale inverno”, l’esercito napoleonico ha già perduto quasi la metà degli effettivi.
Tuttavia, a breve termine, la strategia del ripiegamento e della “terra bruciata” non trova pieno consenso nei Russi. Essa si scontra, in effetti, con l’incomprensione e la collera dei generali (come il principe Pyotr Ivanovic Bragation, alla guida della Seconda armata) e persino dei semplici soldati, costernati nel dover cedere, senza difenderlo, gran parte del territorio a un nemico che vi semina desolazione. A partire dagli inizi del mese di agosto l’esercito attraversa una crisi acuta. Cresce una violenta ostilità nei confronti di Barclay, comandante in capo della Prima armata.
La “straniero” Barclay de Tolly, scozzese d’origine, viene accusato di fare il gioco e gli interessi di Napoleone: contro di lui si moltiplicano poemi e canzoni feroci. La presa francese di Smolensk (16-17 agosto 1812), che i Russi non riescono a difendere e abbandonano dopo due giorni di combattimenti, contribuisce a gettare il sospetto su Barclay. Tanto più che, per la prima volta dall’inizio della campagna, alle perdite già pesanti (12 mila morti e feriti da parte russa), si aggiungono perdite elevate anche fra i civili. Allorché, il 18 agosto, Napoleone entra a Smolensk, la città non è più che un cumulo di rovine: delle 2.250 case esistenti prima dell’assedio, ne rimangono ancora in piedi 350.
E’ in questo clima di scoraggiamento e di sospetto che il 17 agosto Alessandro nomina il generale Michail Ilanoriovic Kutuzov comandante in capo dell’esercito. Il generale è russo, carismatico ed esperto. Il vecchio soldato (ha 67 anni) riesce a galvanizzare le truppe, a ridare loro fiducia e, soprattutto, a incarnare la “guerra patriottica” che si svolge ormai nel cuore dell’impero. Tuttavia la sua nomina porterà ben pochi cambiamenti alla strategia russa. Per dimostrare la sua risoluzione di fronte al nemico, Kutuzov, accetta di dare battaglia, il 7 settembre, a Borodino (per i Francesi, la battaglia della Moscova). Ma l’esito indeciso di questa battaglia d’attrito, devastatrice di vite umane (15-18 mila tra morti e feriti tra i Francesi, ovvero un quinto degli effettivi impegnati; 40-42 mila tra morti e feriti da parte russa, ovvero un terzo degli effettivi utilizzati), costringe Kutuzov a continuare il ripiegamento e a rispolverare la strategia di Barclay de Tolly.
Qualche giorno più tardi, il 13 settembre, la decisione di Kutuzov di abbandonare Mosca senza combattere getta nella più totale disperazione il governatore generale Fedor Rostopscin. Questi aveva fatto appello per la formazione di una milizia che sostenesse l’esercito regolare nella difesa della città santa. La decisione costituisce un nuovo colpo per lo zar, come per l’opinione pubblica. “Mosca è stata conquistata e costituisce una cosa inspiegabile”, scrive la granduchessa Caterina Pavlovna Romanova a suo fratello Alessandro, riflettendo lo smarrimento profondo nel quale i Russi sembrano cadere. Tuttavia, Kutuzov, ripiegato a Tarutino, non resta inattivo. Egli sa che l’abbandono di Mosca ha avuto un impatto disastroso sul morale dell’esercito, che le diserzioni, rarissime sino a quel momento, cominciano a moltiplicarsi e che lo spirito generale è nel punto più basso. Comunque sia, il vecchio generale, sostenuto da Barclay, rimasto comandante della Prima armata, si impegna a rinserrare i ranghi.
Pur emanando disposizioni implacabili per lottare contro le diserzioni, Kutuzov vigila affinché le sue truppe siano ben nutrite, ben equipaggiate per il freddo e che si possano riposare nell’attesa dell’arrivo di nuovi contingenti in rinforzo, provenienti dalla regione di Mosca. Parallelamente, vengono costituite delle unità di partigiani. Inquadrati da ufficiali provenienti dall’esercito regolare, sono composte soprattutto da distaccamenti di cavalleria, ai quali vengono aggregati contadini volontari, i “partigiani” o “franchi tiratori”, che saranno protagonisti di temibili colpi di mano. Attraverso la distruzione di ponti e di strade, attaccando le linee di comunicazione nemiche e i villaggi occupati, liberando e riarmando prigionieri di guerra, moltiplicando imboscate e colpi di mano contro razziatori, disertori e uomini isolati in cerca di viveri e di foraggio, essi costituiranno, da quel momento e fino al mese di dicembre, un prezioso ausilio all’esercito regolare. Il loro ruolo sarà importante anche in materia di informazioni e di spionaggio sulle linee nemiche, ottenendo informazioni spesso preziose per mezzo dei contadini delle zone occupate.
Ma a breve termine questa riorganizzazione non migliora di molto la situazione: ciò perché se Napoleone non ha ancora ottenuto la sua vittoria decisiva, l’esercito russo, da parte sua, non è ancora riuscito a sbarazzarsi dell’occupante.
Tuttavia, la determinazione dello zar nel rifiutare qualsiasi negoziato rimane incrollabile e questo punto sarà fondamentale. Egli declina, in effetti, tre offerte successive abbozzate da Napoleone. Al colonnello nizzardo Alexandre Michaud conte de Beauretour, emissario di Kutuzov, venuto a portagli le novità della battaglia di Borodino, dirà nel momento di maggiore difficoltà,: “Colonnello Michaud, non dimenticate quello che vi dico qui; forse un giorno noi ce lo ricorderemo con piacere. Napoleone e io non possiamo più regnare insieme”.

L’incendio di Mosca e la disfatta francese

L’incendio di Mosca, ordinato e concepito da Rostopscin, scoppia nella notte del 14 settembre 1812 in diversi punti della città ed attizzato dal vento, si propaga con grande facilità, in quanto le pompe antincendio per l’acqua sono state evacuate per ordine del governatore generale. Esso devasta in maniera terrificante la quasi totalità della città per quasi cinque giorni, fino al ritorno della pioggia. In un primo momento, la catastrofe mette l’opinione pubblica russa nella costernazione, ma, a partire dalla fine del mese di ottobre, abilmente strumentalizzato dal potere zarista, che l’attribuisce senza mezzi termini al nemico, l’incendio cementa la popolazione intorno al suo zar e determina una vera e propria unione sacra. Poemi e canzoni salutano l’eroismo dell’esercito e la determinazione di Kutuzov. Numerosi disegni e incisioni mettono in scena il popolino che tiene testa all’invasore. Alcuni manifesti di Rostopscin denunciano il “mostro” e la “sua barbara soldatesca”. I sermoni dei preti pregano per la salvezza della Russia. Tutto concorre a forgiare l’unione sacra, in nome della difesa della Santa Madre Russia e della fede ortodossa. Ebbene, nello stesso momento, l’incendio precipita la Grande Armée nel fallimento. Mosca incendiata diviene la preda di saccheggiatori e razziatori. L’anarchia si insinua nell’esercito napoleonico, come sottolineato Eugenio Labaume nella sua relazione della campagna del 1812.
Paradossalmente, nel momento in cui gli invasori rubano e saccheggiano, il mese in cui la Grand Armée staziona a Mosca non viene messo a profitto per proteggersi dal freddo. E, allorché il 19 ottobre Napoleone ordina la ritirata, le truppe francesi si rimettono in marcia senza prevedere la prossima catastrofe che si abbatterà su di loro. Da quel momento, il peggio non tarderà ad arrivare: attaccati sui fianchi e sulla retroguardia, sia dall’esercito regolare che dalle unità cosacche e partigiane, tormentati dalle temperature che non smettono di scendere (arriveranno a -37° durante la prima settimana di dicembre), solamente il dieci per cento dei combattenti riusciranno a riattraversare il Niemen il 13 dicembre, data nella quale risuona l’ora della liberazione per l’impero russo.

Conseguenze nazionali e internazionali

Con circa 200 mila morti e feriti, con migliaia di villaggi e città devastate, Mosca ridotta a un cumulo di cenere e una economia in rovina, l’impero di Alessandro I ha pagato cara la vittoria contro l’invasore. Dovrà impiegare anni per curare le ferite e ricostruire le città. Da questa terribile prova l’imperatore esce profondamente trasformato. Nel giro di pochi mesi si produce nell’uomo una vera rivoluzione spirituale. Posto di fronte a scelte drammatiche, spesso lasciato solo nelle decisioni, lo zar “ha riscoperto Dio”, come affermerà lui stesso in seguito. L’incendio di Mosca ha costituito un momento di svolta nella sua esistenza e da allora egli medita, prega e si raccoglie sui libri di pietà e sulla Bibbia, che è diventata la sua opera preferita. Alla fine del 1812 lo zar è profondamente trasformato, un credente, se non un mistico, che sorge dalle macerie e dalle ceneri lasciate dalla Grande Armée. Da quel momento, questa fede sincera, ma ancora dai contorni sfumati, non l’abbandonerà più. Essa gli serve da schema di lettura del mondo, da guida per il suo cammino spirituale e morale. Ma andrà ad estendersi anche al campo politico e geopolitico, che egli vuole ormai modellare secondo le sue convinzioni religiose.
Nello stesso momento, aureolata della sua vittoria, la Russia si impone come un attore principale nei negoziati dei due Trattati di Parigi (1814 e 1815) e quindi del Trattato di Vienna, che definirà, fino al 1914, la carta dell’Europa e le sue frontiere.
Alessandro I ha la preoccupazione di preservare gli interessi dell’impero russo e come prezzo della sua vittoria ottiene la costituzione del Regno di Polonia, dinasticamente legato alla Russia. Ma, convinto dell’idea di essere strumento responsabile della volontà divina, egli sogna anche di instaurare una nuova era, fondata sull’intesa fraterna e cristiana dei sovrani d’Europa. Ed è proprio in questo approccio ecumenico che, nel giugno 1815, Alessandro propone ai sovrani prussiani e austriaco la Santa Alleanza. Adottata il 14 settembre seguente, il testo sottolinea la necessità di promuovere fra i tre monarchi, cattolico, protestante ed ortodosso, appartenenti tutti e tre alla “nazione cristiana”, di promuovere fra loro relazioni fraterne, in conformità con il principio della carità. Un anno più tardi, egli propone al primo ministro britannico Lord Castelreagh, il negoziato di un accordo di disarmo generale, un‘offerta che si scontra con un fin de non-recevoir. In seguito, l’evoluzione del contesto internazionale, marcato dalla crescita delle correnti liberali e nazionali, così come dall’evoluzione personale dello zar, sempre più conservatore, rimettono in discussione i progetti generali del 1815-1816, dai quali non uscirà niente di concreto. Nonostante il loro fallimento, questi progetti evidenziano tuttavia una nuova realtà: la guerra del 1812 ha trasformato la Russia in una grande potenza europea.