VIRGINIA WOOLF, UNA FINESTRA SUL ROMANZO MODERNO

di Giuliana Arena –

La scrittrice sperimenta, sulla scia delle innovazioni stilistiche di Joyce, una tecnica narrativa non affine alla tradizione e studiata per racchiudere il cosiddetto ‘flusso di coscienza’. Al centro delle sue opere una critica alla donna vittoriana che osserva passivamente il fluire del tempo.

In polemica con la struttura lineare del romanzo Virginia Woolf, la scrittrice più rappresentativa dell’era modernista, mette al primo posto il flux of mind e cattura la molteplicità delle sensazioni umane; i suoi scritti accolgono una varietà camaleontica di impressioni in un’unità temporale molto ridotta, con un linguaggio denso di simboli e metafore. La trama pensata dalla Woolf è fluida e non precostituita, frutto delle nuove tecniche sperimentali, e presenta un’eccezionale carica emotiva e innovativa: Mrs. Dalloway (1925) e To the Lighthouse (1927) sono opere ampiamente apprezzate dalla critica. Senza dubbio l’autrice è alla costante «ricerca di una forma che riesca a contenere l’elemento dinamico della realtà, mirando a risolvere la coppia dicotomica stasi/movimento» (Marino 2013, 2) inoltre, «sperimenta una struttura narrativa di tipo spaziale, costruita attraverso un movimento che potremmo definire a ellisse» (ivi, 5) per filtrare l’esperienza percettiva grazie a una potente metafora visiva.

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Virginia Woolf, olio su tela di Christiaan Tonnis, 1998. Particolare.

Finestra. L’etimologia deriva dal latino fenestra, fuori, che si riferisce all’esterno, a ciò che è o viene da fuori. La parola, dal carattere essenzialmente polisemico, racchiude un arabesco di rimandi e suggestioni rispetto a una realtà strutturata e osservabile in modo assolutamente atipico e caratterizzante. In primis la finestra può essere considerata come un terzo occhio che indaga, scruta e restituisce l’identità dissimile di un universo fatto di dicotomie e canoni da analizzare e decostruire, alla luce di importanti svolte e scoperte. È un occhio sineddochico inoltre, perché tutto può vedere e nulla gli sfugge per contemplare uno spazio eterotipico che suscita émerveillement e/o terrore, facendo emergere l’essenza metonimica del reale. La finestra può essere aperta o chiusa solo dall’uomo, il quale decide quando affacciarsi a essa e con quali fini: il glance, attraverso/oltre essa, indica diverse e infinite possibilità dettate da volontà molteplici.
In Mrs. Dalloway la finestra è un valico da superare per giungere direttamente fuori: «la finestra di quella gran casa d’abitazione di Bloomsbury; la faticosa, fastidiosa e alquanto melodrammatica faccenda di aprire la finestra e gettarsi giù in strada» (Woolf [1925] 1989, 180). Si offre inoltre, come punto panoramico privilegiato per attuare un viaggio sedentario nell’ottica dell’ontologia positiva della rappresentazione[1]; con piglio voyeuristico si riesce a osservare la particolarità della vita e di altri da sé: «un riposto senso del piacere, affiorante qua e là, quando attraverso le finestre senza tendine, attraverso le finestre rimaste aperte, s’intravedevano gruppi di persone sedute a tavola, gente giovane che lentamente si aggirava, domestiche oziose che guardavano giù in strada (e che commenti i loro, a lavoro finito!), calze stese ad asciugare su un cavalletto, un pappagallo, delle piante. Interessante, misteriosa, infinitamente ricca, quella vita!» (ivi, 197-198).

In effetti, «La finestra» dà il titolo al capitolo iniziale di To the Lighthouse e rappresenta la prima delle tre parti in cui è divisa la narrazione: in poche pagine viene compressa una decade di fatti e la gita avverrà solo dopo una serie di avvenimenti che porteranno la famiglia Ramsey a una maturazione e ad affrontarla con un mutato spirito. Però l’uscita dalla domesticity, ovvero il passaggio dall’inner all’outer world, non risulta quasi mai priva di ostacoli: le impressioni e le sensazioni provocate dall’attraversamento di ciò che pertanto può essere detto spazio liminale e territorio limbale, pongono l’accento su barriere preesistenti oltre che su nuove opportunità. La finestra è definibile anche come elemento funzionale alla creazione artistica, ma implica un’inevitabile distrazione dal caos esistenziale: una cornice fenomenologica che conduce alla ricerca dell’altrove e al desiderio di uno spostamento funzionale, per superare la visione circoscritta delle res humanae. Nel romanzo novecentesco la finestra incornicia così un mondo limitato, quello visibile fin dove lo sguardo getta l’amo, e si trasforma in un’inquadratura dell’anima.
All’inizio della narrazione la signora Ramsey riflette su quanto possa essere dura la vita di chi abita il faro: «sempre lì a guardare la stessa onda che si rompe monotona settimana dopo settimana e poi magari viene una tempesta tremenda, e le finestre si coprono di schiuma, e gli uccelli sbattono contro il fanale, e tutto rulla e non si può neppure mettere il naso fuori dalla porta per paura di essere travolti?» (ivi, 5). Mrs. Ramsey tende alla stasi, alla réverie, perché «vive per lo più dentro casa — dietro la finestra […] quella finestra da cui […] osserva la vita, partecipandovi eppure ritraendosene» (Zaccaria 1980, 114).

L’evidenza è quella di un richiamo alla donna vittoriana che osserva passivamente il fluire del tempo, volgendo i ricordi a un altrove cronologicamente lontano, grazie al medium enucleato dalla finestra di casa: cliché, osservatorio privilegiato, secondo quelle convenzioni ottocentesche che la vedono trattenuta dietro un vetro (zona di transito che trasforma il mondo circostante in sostanza rappresentativa). E ancora, «Questo stare alla finestra è tipico della donna, la quale non si mescola al flusso, al movimento esterno, ma lo contempla al riparo — dentro casa. Donna-finestra (apertura e chiusura). Donna alla finestra. È, ma è dentro. Vive, dentro, l’esterno. Eppure tanti pezzi di sé sono portati all’esterno dagli altri, da coloro i cui pensieri sono indirizzati a lei — figli, marito, amici. Ma per tutti loro la donna è casa, è dentro — buco la cui unica fessura è la finestra. Fenditura. Spiraglio. Donna-urna che si apre tramite lo spiraglio della finestra e che tuttavia resta essenzialmente buco, mistero elusivo, profondità sconosciuta che emette bagliori intermittenti — la luce del faro» (ivi, 114). Essa è poi metafora di un’esistenza fragile e precaria: può essere attraversata non in senso fisico, ma con lo sguardo e l’immaginazione inoltre, la sua apertura è ricollegabile all’ideale nascita di qualcosa/qualcuno, la sua chiusura invece, presuppone una cessazione.
Pertanto esiste una nuova definizione di window, legata al soggetto e alla sua natura intrinseca: la fragilità dell’essere emerge nella struttura che le è propria e, in effetti, le imposte rappresentano idealmente il corpo umano mentre il vetro corrisponde alla psiche; così anche gli occhi sono una finestra sul mondo: in questo caso, le imposte sono le palpebre e il vetro, il cristallino. In definitiva quindi «l’idea di una finestra aperta sul mondo […] in quanto spazio che si offre come spettacolo all’occhio umano dove le proporzioni e la composizione permettono “la risoluzione di una realtà tridimensionale su una superficie bidimensionale” (Dalpozzo 2012: 71)».

Il capitolo centrale «Il tempo passa» è altamente emblematico mentre il terzo e ultimo «Il Faro» è incentrato sulla realizzazione del progetto di Mrs. Ramsey e suo figlio James, pensato mentre lei è ancora dedita a lavorare il ‘calzerotto marrone’[2]; la gita però avverrà in modi e tempi totalmente diversi rispetto a quelli pensati inizialmente. È nell’ultima parte che le riflessioni sulla realtà/irrealtà della vita prendono forma nei pensieri della pittrice Lily Briscoe: «Restando un attimo a guardare le lunghe finestre scintillanti e il pennacchio di fumo azzurro, pensò che a volte capitava che le cose prendessero quell’aspetto lì, che diventassero irreali. Tornando ad esempio da un viaggio, o dopo una malattia, prima che l’abitudine veloce abbia filato la sua tela sulla superficie delle cose, si provava quello stesso senso di irrealtà, che era così allarmante. Si sentiva qualcosa che emergeva. La vita si faceva più vivida. E ci si sentiva sicuri» (Woolf [1927] 1994, 172). Essa si pone senz’altro come soglia liminale (al pari della porta) perché è «il momento della rottura, del cambiamento radicale che conduce alla trasformazione delle strutture simboliche e sociali preesistenti e lascia campo alla possibilità sbilanciante della decisionalità» (Mazza 2005: 226). E proprio di decisionalità si parla quando il soggetto che compie l’atto visivo di affacciarsi sceglie modi, tempi e ragioni per farlo.

La Woolf sperimenta, sulla scia delle innovazioni stilistiche di James Joyce, una tecnica narrativa non affine alla tradizione e studiata per racchiudere il cosiddetto ‘flusso di coscienza’; sono proprio gli accadimenti interiori a intessere la materia trattata nelle sue opere da un narratore di tipo impersonale. Anche nel più tradizionale A Voyage Out (1915), redatto durante la prima fase dei suoi romanzi, «subito ci troviamo di fronte ad uno dei motivi che informerà l’intera vicenda: il desiderio di rinchiudersi in uno spazio isolato per poter fare con tranquillità i conti con la coscienza, con i miti che su questa il tempo è venuto addensando» (Bertinetti 1985, 12). In epoca moderna è proprio il tempo l’altro fattore atipico: il time of the clock è rimpiazzato dal time of the mind, seguendo un’interpretazione bergsoniana, in più il narratore è inevitabilmente sublimato nella psicologia attanziale. Solo negli ultimi anni di vita l’autrice conferirà maggiore attenzione alle problematiche esterne, della società, e ciò si riflette sulle sue produzioni letterarie: Between the Acts (pubblicato postumo nel 1941) e precedentemente The Years (1937) testimoniano la volontà di guardare oltre la natura labirintica del self, focalizzando l’attenzione sulla vita reale.
Tornando all’opera Al faro, si può evincere che questa suggerisca ed esplori le corrispondenze tra l’evento oggettivo di una gita per mare e il viaggio interiore. Il tutto per acquisire una consapevolezza nei confronti della vita e delle sue stranezze. Riflettendo, il Faro viene scritto con l’iniziale maiuscola perché ha un nome proprio, come un individuo, pertanto è considerabile un essere antropomorfo. A livello dicotomico filtra luminosità e assorbe oscurità, pone l’accento sulle fasi alterne che ogni uomo vive: la luce si insinua dalle sue piccole finestre che la rimandano a intermittenza mentre il buio è una breve tregua dalle riflessioni che attanagliano il depositario della coscienza, influenzando il ritmo degli eventi. In tal modo le sue finestrelle-schermo offrono intervalli di visione, con la conseguente assenza di una veduta onnicomprensiva della realtà di riferimento. Dunque il faro è in balìa delle onde come l’uomo che vive, trascinato da forze misteriose, momenti positivi e negativi a seconda degli eventi e soprattutto del suo rapporto con un esterno percepito rispetto ai diversi stadi della coscienza.

Note
[1] Nel testo The Ethics of Travel: from Marco Polo to Kafka (1996) Syed Manzurul Islam offre la «oxymoronic designation» di «sedentary traveller» (p. 209), affermando che, per una divisione binaria, si opponga alla concezione di viaggiatore nomadico.
[2] Si rimanda a: Auerbach E., «Il calzerotto marrone» in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, pp. 305-338.

Per saperne di più
Bertinetti P., Virginia Woolf: l’avventura della conoscenza, Jaca, 1985;
Dalpozzo C., Fuori Campo. Dentro e oltre l’immagine cinematografica, Padova, Libreria universitaria, 2012;
Marino T., “Dall’ekphrasis alla narrazione: la scrittura visiva di Virginia Woolf”, in Arabeschi 1, 2013, pp. 51-62;
Mazza G., La liminalità come dinamica di passaggio, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 2005;
Woolf V. [1927], Al Faro, Mondadori, 1994;
Woolf V. [1925], La signora Dalloway, Mondadori, 1989;
Zaccaria P., Trama e ordito, Dedalo, 1980.