TURCHIA, MEMORIA INDIVIDUALE E COLLETTIVA

di Massimo Iacopi -

 

Per secoli la storia dell’Europa si è confrontata con l’espansionismo turco. Quando gli eventi sembravano orientare verso una nuova visione del mondo, ecco che riaffiorano i “vecchi demoni”.

Esiste un vecchio detto che recita “La gente ha la memoria corta”. Talvolta, anche se la memoria è labile viene “traviata” da visioni preconcette, spesso ideologiche. La memoria, a mio avviso, sta all’amore e al disprezzo, come la storia sta alla distanza spazio-temporale e allo spirito critico. Dopo la riconquista della città di Afrin da parte dell’esercito turco sui Curdi, nel nord-ovest della Siria, mi sono domandato da dove derivassero la mia emozione e la mia compassione per il popolo Curdo e soprattutto quale diavolo attizzasse la mia animosità nei confronti delle forze di Ankara. La storia ci ha insegnato a prendere le cose con il dovuto distacco e la necessaria cautela e, a volte, un po’ di introspezione non nuoce. Specie quando ci si sorprende a reagire non in funzione di una conoscenza “oggettiva” del passato rispetto al presente, ma in maniera perfettamente parziale e soggettiva. Evidentemente, ciascuno subisce anche gli effetti della propria natura e del proprio temperamento.
Da concittadino della terra di Francesco, la mia tendenza mi porta con naturalezza alla difesa delle vedove e dell’orfanello e a preferire, spesso, i vinti ai vincitori della Storia. Ma tutto questo, non può bastare ed è proprio in questo momento che entra in gioco la memoria. Essa si è spesso sedimentata nella nostra infanzia per somma di “briciole” e “lampi”, per aggregazione di letture, di immagini, di ricordi più o meno importanti. La memoria è spesso figlia del caso: essa è alimentata dalle emozioni e si trova ad anni luce di distanza da ciò che dovrebbe essere la base del lavoro dello storico. A tal fine, vale la pena ricordare la domanda che il poeta del ring, Arthur Cravan (Fabian Avenarius Lloyd, 1887-1917 circa) fece allo scrittore André Gide durante una esilarante intervista del 1913: “Signor Gide, a che punto stiamo con il tempo?”.

Dunque a che punto mi trovo con i Turchi ? Con tutta evidenza la cosa inizia male. Il primo ricordo che conservo risale alla fine degli anni ’60 quando i miei genitori mi avevano portato a vedere il bel film del regista David Lean, nel quale Peter O’Toole recita nelle vesti di un Lawrence d’Arabia molto distante da quelle del soldato Thomas Edward Lawrence dei Sette Pilastri della Saggezza. Una scena fra tutte mi segnò, non quella grandiosa della conquista di Aqaba da parte dei ribelli arabi, ma quella dell’incidente di Deraa, quando Lawrence si fa catturare dai Turchi e si ritrova nelle mani del crudele Hasim Bey. Questi lo fa selvaggiamente fustigare e quindi violentare dalle sue guardie. Non c’è nulla di più sinistro in Lawrence d’Arabia della prigione di Deraa. Più tardi, le scene da incubo di Fuga di Mezzanotte, del regista Alan Parker, evocanti la brutalità dell’universo carcerario in Turchia, non hanno certo contribuito a migliorare le cose. Ecco, io non so se si tratta proprio di una fatalità se ogni volta che incrocio un Turco immaginario egli ha per me un aria sospetta.
Persino Elko Krisantem, il fedele servitore del principe Malko Linge, eroe della serie di romanzi di spionaggio SAS (di Gerard de Villiers), trascorre molto del suo tempo a strangolare quelli che non gli garbano. E perché il bel diplomatico turco Kemal Pamuk, che appare all’inizio della serie televisiva americana Downton Abbey è il solo ad andare a letto con Lady Mary, infischiandosene delle convenienze? E i numerosi ambasciatori ingiustamente incarcerati nelle Sette Torri di Costantinopoli nel corso dei tempi, o i poveri Greci del Peloponneso e i massacri di Chio (o Scio) nel 1822 e quelli di Smirne dell’anno dopo e del 1922, quest’ultimo a seguito di un grave incendio doloso. Senza parlare poi del massacro degli Armeni e dei Curdi… La lista esaustiva sarebbe veramente lunga. E’ vero che si potrebbe dire altrettanto di altri popoli, ma per la maggior parte c’è sempre qualcosa nella storia che li salva e, per quanto mi sforzi a pensare, non riesco a trovarla per i Turchi. E’ pur vero, che con l’esperienza personale di lavoro, ho avuto la fortuna di incontrare numerosi ufficiali dell’esercito turco con i quali ho stretto amicizia e che mi hanno fatto apprezzare, almeno fino a qualche tempo fa, i significativi sforzi della Repubblica laica turca per affrancarsi da una dittatura teocratica e dall’influenza dei religiosi.

Ma come credere alla buona fede di Erdogan, dal momento che tutti conoscono che cosa è stata la laicizzazione a tappe forzate della giovane repubblica turca alla fine degli anni ’20 sotto la “guida” di Mustafà Kemal Ataturk? La fine del “conservatorismo morto dell’Oriente” voluto dal “Ghazi” Kemal è ormai un sogno: ovvero la fine di un modello, applicato forse in maniera più durevole in Tunisia sotto Habib Bourghiba. Ma quello che più disturba è il fatto che Erdogan abbia raggiunto il suo scopo con l’aiuto dei “democratici” e degli industriali opportunisti occidentali.
In Turchia, la religione è ritornata rapidamente in superficie e si è insediata nel cuore stesso dello Stato. Appare curioso constatare che questo ritorno religioso a partire dagli anni ’50 corrisponda paradossalmente all’ancoraggio della Turchia nel sistema di difesa occidentale e alla sua entrata nella NATO, nel 1952.
In effetti, oltre alla religione, che ne costituisce la linfa, sono ritornati a galla il rifiuto “storico” dell’Occidente e la presunzione di superiorità del mondo mussulmano. In Turchia erano rimaste solamente le forze armate a tenere in piedi la Costituzione laica imposta da Kemal. E quando in un Paese i militari costituiscono l’ultimo baluardo della democrazia, ce ne è ben donde per cominciare a preoccuparsi.
Oggi sappiamo che cosa è successo nel 2016 e negli anni successivi, fra l’indifferenza “interessata” di buona parte dell’Occidente. Dopo aver smantellato la posizione super partes delle forze armate (prevista dalla costituzione di Kemal a guardia della laicità dello Stato), Erdogan ha utilizzato gli strumenti della democrazia occidentale per imboccare la strada del “sultanato”.
Ecco come va la memoria. Spesso è ingiusta, ma risulta comunque sempre interessante ascoltarla: spero che i miei amici turchi e tutti quelli che oggi, coraggiosamente, si battono ancora per la sopravvivenza delle loro libertà e della democrazia (oltre 60 mila incarcerati con le accuse più varie e senza diritti), vorranno scusarmi per questa mia accorata riflessione.