TITO E LA CHIESA: LE PERSECUZIONI IN ISTRIA E NEI BALCANI

di Pier Luigi Guiducci -

 

Furono numerosi i sacerdoti e le suore che, dal 1943 al 1948, persero la vita gettati nelle foibe insieme ad un imprecisato numero di persone, colpevoli di essere italiane e di non accettare l’ideologia comunista.

La duplice operazione

Nell’immediato secondo dopoguerra il capo delle forze jugoslave, Josip Broz[1] (nome di battaglia: Tito), conquistato il potere militare e politico, dette ordini ai suoi fiduciari territoriali e alla polizia segreta (l’OZNA)[2] in merito alla strategia operativa da seguire. Ogni avversario, a qualsiasi livello, doveva essere neutralizzato nel più breve tempo possibile. Unitamente a ciò, erano da colpire tutte quelle realtà locali ritenute a vario titolo un ostacolo ai disegni del regime, quindi anche le aggregazioni sociali caratterizzate da radici e cultura italiane. Si attuò in tal modo un’azione militare (ufficiale e ufficiosa) che seguì due diversi indirizzi operativi.
1. Da una parte, sul piano bellico, furono eliminati i nemici di guerra e i loro collaborazionisti. I soldati ricevettero gli elenchi delle persone e dei luoghi da colpire. Inoltre, molti arresti furono possibili perché le forze alleate occidentali (inglesi in particolare) non ebbero difficoltà a riconsegnare alle milizie titine quanti si erano arresi alle loro divisioni per sfuggire alle forze di Belgrado.[3] Nei mesi successivi le organizzazioni umanitarie trovarono nei campi di internamento jugoslavi un numero limitato di prigionieri rispetto al totale dei soggetti fermati (elevato).
2. Dall’altra – aspetto che si volle secretare – le milizie jugoslave attuarono delle pulizie etniche che utilizzarono più procedimenti. Un primo percorso riguardò le uccisioni sommarie di cittadini inermi considerati nemici del popolo[4] perché non comunisti. Un’altra strada passò per i campi di concentramento.
Ci fu, ancora, l’opzione che spinse a utilizzare le foibe (cavità carsiche) ove gettare i corpi di innocenti (a volte ancora vivi) eliminati a gruppi. Non mancarono poi i sistemi oppressivi mirati a provocare il trasferimento forzato di popolazioni. Si sviluppò da qui il lungo esodo giuliano (Istria), dalmata (Dalmazia), fiumano (Fiume).[5] La popolazione autoctona di etnia italiana fu costretta ad abbandonare terre che abitava da secoli.[6]

I riscontri su violenze ed espulsioni per chiudere la questione delle minoranze

Nel migrare del tempo, storici e archivisti sono riusciti a individuare una serie di documenti che attestano la prima e la seconda operazione citate in precedenza. Per la prima sono significative le direttive di guerra e le dichiarazioni rilasciate dopo il conflitto da colui che fu a capo dell’OZNA: Aleksandar Ranković, detto Leka.[7] Ad esempio, in un telegramma ai vertici OZNA della Croazia dopo la presa di Zagabria (9 maggio 1945), scrisse:
«[…] Il vostro operato a Zagabria è insoddisfacente. In dieci giorni dalla liberazione a Zagabria sono stati fucilati solo duecento banditi. Questa esitazione nel pulire Zagabria dai criminali ci sorprende. Avete fatto tutto l’opposto di quanto vi è stato da noi ordinato, perché abbiamo detto di lavorare in modo rapido ed energico, e di finire tutto nei primi giorni. Vi siete dimenticati che Zagabria conta ora quasi un milione di abitanti e vi si trova gran parte dell’apparato ustaša che vi ha trovato riparo fuggendo dall’interno con l’avanzata del nostro esercito.
Fatta eccezione per l’arresto di esponenti di spicco del HSS[8] contrari al nostro movimento, o che hanno attivamente lavorato per gli ustaše […] può essere utilizzato per quanto riguarda il loro smascheramento.[9] Tuttavia, il capo della seconda sezione[10] di Zagabria si permette di avere una propria posizione in merito. Abbiamo già provveduto a destituirlo e vi si chiede di suggerire un altro. Questo telegramma va mostrato a Vlado.[11] Confermate la ricezione della presente e cercate di mettervi più spesso in contatto con noi».[12]
Aleksandar Ranković fece inoltre, nel dopoguerra, anche delle dichiarazioni che attestano le eliminazioni di ogni avversario. Nel giugno 1951, in un discorso al IV° Plenum del partito comunista (pubblicato poi sul quotidiano di Belgrado Politika),  ammise che – dal 1945 al 1951 – erano transitate per le prigioni jugoslave 3.777.776 persone (su una popolazione di ca 13 milioni di abitanti). I “nemici del popolo” eliminati furono circa 568mila (in gran parte nei primi mesi del 1945). Con riferimento all’alto numero di arresti effettuati dall’UDBA nel 1949, Ranković riconobbe che il 47% di essi furono arbitrari.[13]

Contro gli italiani: il primo riscontro
Una prima fonte riguarda un memorandum a Tito scritto da Vaso Čubrilović nel 1944.[14] Questo professore e scrittore, partecipò in gioventù all’assassinio (1914) del principe Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este (vicenda che generò la Prima guerra mondiale). Nel 1937 aderì all’organizzazione nazionalista serba Giovane Bosnia. Nello stesso anno consegnava a Tito un primo memorandum: L’espulsione degli Albanesi. In seguito, nel 1944, presentò al medesimo interlocutore un secondo documento: Il problema delle minoranze nella nuova Jugoslavia.[15] In quest’ultimo atto si trova un esplicito riferimento agli italiani.
Al riguardo, Čubrilović afferma che: «È più semplice risolvere le questioni delle minoranze tramite espulsioni in tempo di guerra come questo […]. Noi non abbiamo richieste territoriali contro l’Italia, all’infuori dell’Istria, Gorizia e Gradisca. Perciò, col diritto dei vincitori, siamo giustificati nel richiedere agli italiani di riprendersi le loro minoranze».[16]
Unitamente a ciò questo politico annotò: «Il regime fascista in Italia trattò molto male il nostro popolo in Istria, Gorizia, e Gradisca. Quando riconquisteremo quei territori, li dovremo rioccupare anche etnicamente allontanando tutti gli italiani che vi si sono insediati dopo il 1° dicembre 1918».[17]
Le affermazioni in precedenza citate sono significative perché trasmettono a Tito la proposta di scacciare gli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia nel modo più intransigente possibile approfittando del clima bellico. Tali puntualizzazioni sono poi da collegare al modo di vedere dello stesso autore. Egli, infatti, nel precedente Memorandum, aveva indicato tutta una serie di metodi illegali (incluse le soppressioni fisiche) per togliere di mezzo gli albanesi. In definitiva, lo storico ha la prova che erano previste strategie che prevedevano l’utilizzo di ogni mezzo, e che qualsiasi decisione finale spettava a Tito.

Contro gli italiani: il secondo riscontro
Oltre il Memorandum di Vaso Čubrilović, è stato reso noto, grazie a uno studio del dott. Marino Micich[18], un provvedimento adottato nel 1943 dalle autorità popolari jugoslave nei confronti degli italiani. In particolare, al secondo punto di una risoluzione del Comitato Popolare di Liberazione provvisorio per l’Istria (CPLJI) del 26 settembre 1943 fu ribadito al secondo punto quanto qui di seguito riportato in croato: «Svi oni Talijani koji (su) se posljie 1918. godine doselili i Istru u svrhu odnarođivanja i izrabljivanja našeg naroda biti će vračeni u Italiju. O pojedinim slučajevima odlučivati će zato posebna komisija [“Tutti quegli italiani che si (sono) stabiliti in Istria dopo il 1918, allo scopo di denazionalizzare e sfruttare il nostro popolo saranno rimandati in Italia. Riguardo ai singoli casi deciderà un’apposita commissione”]».[19]

I titini e la Chiesa cattolica

Nel contesto descritto il governo titino, in fase bellica, ma soprattutto nelle ore della vittoria militare, controllò anche le diverse realtà della Chiesa cattolica presenti nel territorio jugoslavo. Nei confronti delle comunità locali, specie nei riguardi della gerarchia e dei sacerdoti e religiosi, Tito e i suoi fiduciari mantennero (a seconda dei casi) una costante posizione di sospetto, di esplicita accusa e di violenta azione repressiva. Le autorità di Belgrado, infatti, ritenevano che la Chiesa cattolica, essendo legata a un’autorità centrale (il Papa), con sede in altro Stato (la Città del Vaticano), non costituiva una garanzia di sostegno al regime. Tale convinzione era aggravata dal fatto che – in linea generale – le diverse espressioni cattoliche (sostenute dal Pontefice), non condividevano l’ideologia comunista, e potevano quindi diventare cellule di una linea interna avversa alla politica titina. Scattò in tal modo un’azione politica e militare (ufficialmente non confermata) mirata a impoverire la vita ecclesiale, e – soprattutto – a eliminare quelle figure di consacrati che rappresentavano una voce critica verso il regime, e che costituivano un punto di riferimento per la maggior parte dei cattolici. Alle uccisioni od aggressioni contro gli ecclesiastici italiani e di altri Paesi si sommarono ulteriori violenze. Si ebbero limitazioni o proibizioni dell’attività religiosa (insegnamento, catechesi, celebrazione messe, processioni) che erano soggette a forti limitazioni e restrizioni, e talora impedite. Vi furono inoltre distruzioni di edifici sacri, tra cui diverse chiese di notevole valore artistico, di stile bizantino, romanico e veneziano.

Le vicende dei vescovi in Istria[20]

In definitiva, la Chiesa cattolica, secondo le direttive di Belgrado, doveva essere ridotta a una presenza non pericolosa per il regime. E occorreva neutralizzare chi era definito “nemico del popolo”. Sulla base di tali direttive, sacerdoti sloveni, croati e italiani subirono violenze, sopraffazioni e – in taluni casi – il martirio in odium fidei. Nell’area istriana il clero si doveva rifiutare di obbedire al proprio vescovo, quello di Trieste, in modo da realizzare una scissione: la diocesi di Capodistria doveva essere staccata da quella di Trieste. Le reiterate pressioni dei fiduciari di Tito portarono all’abbandono dell’Istria da parte di molti parroci, e anche all’eliminazione di presbiteri italiani. In tale contesto, non mancarono per i vescovi dei territori oggetto di controversie politiche delle prove particolarmente dolorose. I presuli di Pola (monsignor Raffaele Mario Radossi), di Fiume (monsignor Ugo Camozzo), di Zara (monsignor Pietro Doimo Munzani), di Trieste e Capodistria (monsignor Antonio Santin) furono testimoni di realtà di violenza, di morte, e dell’esodo che, dal 1944 al 1961, coinvolse il 90% della Comunità Italiana.

Mons. Raffaele Mario Radossi

Mons. Radossi

Mons. Radossi

Mons. Raffaele Mario Radossi (1887-1972) era nato a Cherso (Istria). Entrò giovanissimo tra i Frati Minori Conventuali. Ricevette il nome di fra Raffaele. Ordinato sacerdote in Svizzera, a Friburgo, il 28 novembre 1909. Ricoprì incarichi all’interno del suo Ordine religioso. Fu assistente ecclesiastico della Gioventù Cattolica a Cherso e a Venezia. Parroco a Venezia dal 1936. Nel Natale del 1941 Pio XII lo nominò vescovo delle diocesi riunite di Parenzo e Pola. Vi rimase fino al 1947[21].
La tragedia della guerra lo vide al suo posto, in un’Istria ove erano attivi i partigiani di Tito, sostenuti da Mosca. Nel frattempo, i militari USA lanciavano viveri ed armi seguendo la logica delle alleanze. Il presule operò con energia per sostenere gli istriani provati da continue avversità. Pregò vicino alle foibe ove furono individuati poco alla volta i resti di persone trucidate. Accarezzò i bambini. Cercò di non far crollare il coraggio dei perseguitati. A ogni partenza della motonave Toscana da Pola era là a confortare e a salutare chi abbandonava la propria terra e la propria città. Alla fine la Santa Sede decise di trasferirlo in un luogo più sicuro, e il 7 luglio 1948 lo mandò arcivescovo a Spoleto. Con il penultimo viaggio della motonave Pola se ne andò anche lui, insieme ai suoi fedeli.

La Lettera di commiato (1947)
Prima di partire, mons. Radossi trasmise ai fedeli una Lettera di commiato (1947) che qui di seguito si trascrive.
«Nel lasciare questa terra martoriata dall’ingiustizia umana, rivolgo il mio saluto commosso e mando la mia benedizione a quanti hanno condiviso la mia sofferenza, e prego a Dio luce eterna e pace perpetua ai cari morti che riposano all’ombra della croce nei nostri cimiteri.
Questa triste pagina di storia istriana non sarebbe stata scritta se si fossero seguiti almeno i princìpi della retta ragione, e quelli delle tante Carte, troppo atlantiche e in effetto niente pacifiche, annunziate al mondo con le trombe della propaganda, più assordanti – per posa – di quelle del Sinai proclamanti sul serio l’unica legge che non è stata, né potrà mai essere smentita.
E così continua la storia degli errori, dei paradossi e delle contraddizioni, e non si pensa che prima o tardi tutti gli errori volontari si scontano, perché la sapienza e la giustizia di Dio, rispettivamente fonte e tutela di tutto l’ordine sociale, non possono essere sconfessate dall’insipienza umana, né fermate nella loro azione dai raggiri di una falsa diplomazia, o dagli effetti dell’energia atomica.
Voi, profughi, sbattuti come foglie nella tempesta in tutti gli angoli d’Italia, potreste ricordare a chi non vi riceve volentieri, o, peggio, a chi vi chiude la porta in faccia, che voi, quando ancora non c’erano le dittature, non avete fatto così con loro dopo la guerra del 1914, ma festanti ed ospitali li avete accolti nelle belle cittadine dell’Istria, a Fiume e a Zara. Dite loro che per essere veramente uomini bisogna rispondere al saluto col saluto, alla cortesia con la cortesia, e all’ospitalità ricevuta con quella generosamente offerta.
Nel badare se c’è gente che ignora la geografia e la storia dell’Istria e svisa la vostra fisionomia morale, se la stampa dell’interno che sa consacrare colonne di prima pagina ad un qualsiasi processo immorale, non sa occuparsi delle vostre lacrime, né interessarsi della vostra futura sistemazione, lasciate fare al tempo, che è sempre stato medico esperto e maestro impareggiabile. Un po’ alla volta si accorgeranno che voi avete battuto alla loro porta non nella veste di eterni mendicanti, ma con la dignità di chi vuol essere inserito nella vita della nazione, ed è deciso di guadagnarsi il pane quotidiano col sudore della propria fronte.
Ci saranno delle eccezioni, come da per tutto, ma esse confermano la regola, cioè la posizione vera della grande maggioranza, o quasi totalità, dei profughi. Dall’altra parte, vorrei vedere cosa saprebbero fare coloro che oggi vi criticano se, come voi, fossero costretti a languire, oziosi, per anni nei campi di concentramento. La volontà umana, come tutte le energie, ha un limite di resistenza e di carica, e la colpa dell’inazione e del vizio va addebitata, più che allo sfiduciato ed inerte, a chi aveva il potere e il dovere di rianimarlo e di redimerlo.
Fidandovi della Divina Provvidenza, che ha in mano uomini e cose, tenete alto il morale, non abbandonate mai le pratiche della vita cristiana, sempre serie e feconde di bene, ed amatevi ed aiutatevi a vicenda da buoni fratelli. Arriverete piano piano a rifare la vostra esistenza in un ambiente nel quale la tradizione cattolica e le risorse di un popolo onesto e laborioso dovranno aver ragione su tutte le resistenze incontrate nel duro cammino della propria ricostruzione nazionale.
E quanto ho detto non si riferisce soltanto a chi è partito, ma anche a chi è rimasto. La storia è per tutti maestra di vita, ed io resto ugualmente benedicente chiunque, camminando sulla via segnata dalla legge di Dio, ha la volontà decisa di fare il bene e di evitare il male. Continuate anche voi che siete rimasti a vivere col santo timor di Dio, e a pregare affinché mai vi manchi l’aiuto spirituale necessario alle anime vostre. A tutti coloro quindi – Clero e popolo – partiti e rimasti – che con me pregano e lavorano per il trionfo della Religione e per l’avvento della pace, giunga il mio rinnovato paterno saluto e la mia continuata pastorale benedizione. Vostro aff.mo + Fr. Raffaele, Vescovo».[22]

Mons. Radossi a Spoleto
Mons. Radossi rimase a Spoleto 19 anni, fino al 23 giugno 1967. In questa diocesi lo seguirono, profughi, preti e seminaristi con le loro famiglie, che furono dislocati soprattutto nelle parrocchie di montagna, scarse di clero.
Un seminarista, compagno di scuola al Regionale di Assisi, Eugenio Ravignani[23], fu poi vescovo di Vittorio Veneto, quindi arcivescovo a Trieste. A Spoleto mons. Radossi, il 20 maggio 1949, promosse la pubblicazione di un vivace settimanale, Il Risveglio. L’impostazione del periodico dimostrò chiarezza nel difendere precise posizioni, e non si esitò nel criticare anche il movimento comunista, presente in città e nel circondario.
A Spoleto, mons. Radossi non cessò di aiutare i profughi. I suoi interventi presso le forze governative, da lui accusate di indifferenza nei confronti del dramma della gente dell’Istria, attestano idee chiare, volontà, dignità, amor patrio. Le sue parole di denuncia della «disastrosa lacuna della grande stampa italiana per la nostra Causa» e della «stupida e ipocrita politica, che ha recato sì gran danno alla nostra Causa, e, in particolare all’Italia umiliazioni e disprezzo, poiché per servilismo essa ha mancato di difendere i figli del suo stesso sangue», non hanno cessato di perdere vigore nell’attuale periodo storico.[24]
Con il trascorrere del tempo arrivò anche per mons. Radossi il momento di dare l’addio a Spoleto. Si ritirò nella Comunità dei Frati Minori Conventuali di Venezia (presso basilica minore dei Frari), per raggiunti limiti d’età. In seguito si trasferì nella casa di cura Villa Maria di Padova. La morte sopraggiunse il mattino del 26 settembre 1969. È sepolto nel cimitero dell’Arcella (Padova).

Mons. Ugo Camozzo

Mons. Ugo Camozzo

Mons. Ugo Camozzo

Mons. Camozzo (1892-1977) era nato a Milano. Suo padre morì quando il piccolo Ugo aveva appena tre anni. La madre fece allora ritorno con il figlioletto nella casa paterna a Venezia. Venne ordinato presbitero nel 1915 (aveva 22 anni). Consacrato vescovo di Fiume (allora diocesi italiana) nel 1938. Dal mese di settembre del 1945 i rapporti di mons. Camozzo con le autorità jugoslave si incrinarono sempre più per il rifiuto opposto dal presule al riconoscimento del regime comunista. Inoltre, l’azione del vescovo per chiedere aiuti alimentari ad organismi internazionali (a sostegno delle popolazioni fiumane e istriane) compromise definitivamente l’interazione con i dirigenti comunisti.
Nel 1946 l’evento simbolo della Chiesa di Fiume fu la processione del Corpus Domini. Vi partecipò un numero elevato di fedeli. Nel 1947 la situazione era ormai segnata da diverse criticità. In un breve periodo ci furono attacchi diretti contro il vescovo attraverso il giornale La Voce del Popolo (3 luglio 1947). Venne soppressa la tradizionale festa dei santi patroni di Fiume, Vito e Modesto. Fu interdetta la pubblicazione del Bollettino interparrocchiale, foglio di informazione della diocesi. Si contrastò ogni forma di associazionismo cattolico, iniziando a imporre lo scioglimento dei gruppi. Fu pure redatta una lista di sacerdoti considerati non solo «pieni di odio verso il popolo», ma anche «insetti che, colla loro attività antipopolare, tentano di spezzare lo slancio della grandi masse». Inoltre, di alcuni seminaristi non si avevano notizie.
Si arrivò così al 3 agosto del 1947. Un comunicato della diocesi di Fiume rese noto il trasferimento in Italia di mons. Camozzo. Il presule fu costretto all’esodo, ultimo italiano a ricoprire la carica di vescovo della città.[25] Nel luglio 1947, nel duomo di San Vito, il presule ebbe ancora la possibilità di parlare a un’assemblea di fedeli. Terminò l’omelia con queste parole: «Fiumani, siate dignitosi nella vostra sventura. La vostra umiliazione è gloriosa, potete portarla a fronte alta e con nobile fierezza […]. Per l’ultima volta accettate la paterna raccomandazione del vostro pastore di un tempo, siate buoni, e la Provvidenza non vi abbandonerà. […] Il venerato Crocifisso di San Vito sia per voi il vincolo spirituale che unisce i vostri cuori nella stessa fede e vita cristiana»[26]
Al termine della cerimonia religiosa venne effettuato l’ammainabandiera. Il vescovo divise in tre parti il tricolore italiano per superare il controllo jugoslavo. Prese poi il breviario e, salutato per sempre il Crocifisso miracoloso della Cattedrale, lasciò da esule la città. Una volta arrivato in Italia ricompose la bandiera, tenendola sempre con sé. Affidò la diocesi di Fiume a un prelato di lingua croata (mons. Carlo Jamnik[27]). E si ritirò nel seminario di Venezia.
In questa città mons. Camozzo ricevette la nomina ad arcivescovo di Pisa (1948). Nella sua prima Lettera Pastorale alla diocesi pisana citò i suoi fiumani: «Li ho ritrovati, pellegrinando di città in città, alcuni sistemati alla meglio, altri raminghi, spesso nella miseria o nei tristi centri di raccolta dei profughi, non di rado non compresi e ostacolati; ma fieri e dignitosi nel loro sacrificio, rischiarato da una luce che vuol essere di speranza che non muore».[28]
A Pisa mons. Camozzo, tra i diversi esuli, fu seguito anche da sacerdoti e seminaristi. Si ricordano qui: mons. Giovanni Regalati, mons. Adolfo Rossini, don Poggi, mons. Gabriele Gelussi, mons. Luigi Torcoletti, Giovanni Cenghia, don Clemente Crisman, don Egidio Crisman, don Alberto Cvecich, don Severino Dianich, don Vittorio Ferian, Floriano Grubesich, don Mario Maracich, don Rino Peressini, don Fulvio Parisotto, don Giuseppe Percich, don Oscar Perich, don Ariele Pillepich, Francesco Pockaj, Antonio Radovani, mons. Arsenio Russi (dopo alcuni anni di prigionia), don Janni Sabucco, Giovanni Slavich, don Giacomo Desiderio Sovrano, Giuseppe Stagni, don Romeo Vio, don Luciano Bertoni.
Con riferimento a questo clero occorre anche ricordare che don Valentino Genovese andrà nella diocesi di Verona. Don Antonio Radovani si recherà missionario in Africa. Don Ugo Munari opererà a Genova. Don Pierluigi Sartorelli, don Milan Simcich e don Giuseppe Uhac svolgeranno attività diplomatica per la Santa Sede.
Il compito pastorale di mons. Camozzo a Pisa ebbe termine nel 1970. Morì a Padova all’età di 84 anni, il 7 luglio 1977. Prima di concludere il suo iter terreno chiese di essere sepolto con un crocifisso e con la bandiera di Fiume.[29] La sua tomba si trova nel duomo di Pisa, navata di sinistra, sotto l’antico dipinto della Madonna nera.[30]

Mons. Doimo Munzani
Mons. Doimo Munzani (1890-1951)[31] era nato a Zara, in Dalmazia (allora Austria-Ungheria). Venne ordinato sacerdote il 6 aprile del 1913. Ricevette la nomina a vescovo nel 1926. Aveva 35 anni. Per ventidue anni fu l’Ordinario di Zara. Conosceva perfettamente il croato. Fine teologo. Le sue Lettere Pastorali anticiparono alcune affermazioni del Concilio Vaticano II. Valido organizzatore della vita diocesana. Fu testimone di 54 bombardamenti che lo costrinsero a ritirarsi nella cappella mortuaria del cimitero (costruita in cemento).
A fine guerra, mons. Munzani riunì nella più sicura isola di Lussino gli alunni del Seminario minore. Giovedì 2 novembre 1944 i partigiani titini fermarono a Zara Pietro Luxardo, il vice prefetto Giacomo Vuxani, il vescovo e altri cittadini italiani. Vennero tutti ristretti nella caserma Vittorio Veneto. Seguirono penose vicende.[32] Il 7 marzo del 1945 il presule venne arrestato dai comunisti jugoslavi. Deportato prima a Lissa e poi a Lagosta. Alla fine lo liberarono. Tornato a Zara, volle proseguire le sue attività pastorali.
L’11 dicembre del 1948, questo presule, malgrado le sollecitazioni del clero croato e delle stesse autorità iugoslave del tempo[33], non volle rimanere a capo di una diocesi che aveva perduto gran parte dei suoi fedeli. Per tale motivo, seguì con sofferenza e dignità il suo popolo in esilio. Rimase per tutti “l’arcivescovo di Zara”, anche quando gli fu affidata l’antica sede di Tiana (Sardegna). Venne definito “l’arcivescovo itinerante”, per l’attività pastorale nei campi profughi sparsi in Italia, sempre vicino agli esuli giuliano-dalmati. Nel gennaio del 1951 si recò a Brindisi per visitare i tanti Giuliani e Dalmati rifugiati in città. Volle pure raggiungere il Collegio Navale Nicolò Tommaseo che nella città accoglieva in quel tempo molti giovani studenti giuliani e dalmati.
Morì a 61 anni, nella cattedrale di Oria (vicino Brindisi), mentre stava predicando. Si accasciò ai piedi dell’altare del Santissimo Sacramento pronunciando per sé il Miserere.[34] Venne sepolto nella chiesa di Santa Maria di Loreto, nel cimitero di Brindisi.

Mons. Antonio Santin[35]

Mons. Santin benedice i resti di alcuni infoibati

Mons. Santin benedice i resti di alcuni infoibati

Mons. Santin (1895-1981)[36] era nato a Rovigno (Istria) da un’umile e numerosa famiglia di pescatori. Fu cappellano a Momorano. Parroco a Pola. Vescovo di Fiume nel 1933. Raggiunse il capoluogo del Quarnero con la mamma (il padre era morto), la sorella Benedetta e il fratello Giovanni. Vi rimase cinque anni. Il 16 maggio 1938 ricevette la nomina a vescovo di Trieste e Capodistria. Nello stesso anno (il 18 settembre) Mussolini annunciò proprio a Trieste la nuova legislazione anti ebraica. La situazione era ormai segnata da violenze e criticità. Il 15 aprile 1943 mons. Santin indirizzò, insieme agli altri vescovi della Venezia Giulia, un Memoriale al Duce denunciando le violenze del regime contro i fedeli sloveni e croati. Tra il settembre 1943 e il maggio 1945 intervenne per cercare di salvare la vita agli ebrei e agli antifascisti, italiani e slavi, imprigionati dai tedeschi e dai repubblichini.
Intanto gli eventi si susseguivano tragici. 1. Da una parte, il tracollo militare tedesco segnò l’inizio di operazioni mirate a eliminare gli sconfitti. 2. Dall’altra, ebbe inizio in Venezia Giulia una fase di quaranta giorni segnata da sopraffazioni, uccisioni, deportazioni ad opera delle milizie di Tito. Il territorio ove mons. Santin era Pastore fu diviso dalla Linea Morgan.[37] Tale demarcazione venne concordata a Belgrado il 9 giugno del 1945. Con questa Intesa, si creò una Zona A controllata dall’Amministrazione militare anglo-americana (Trieste, Gorizia e Pola), e una Zona B affidata all’Amministrazione militare jugoslava (le zone rimanenti della Venezia Giulia).
In tale contesto si verificarono delle sanguinose vicende. Nella Zona B erano attive cellule comuniste che spingevano verso l’annessione alla Jugoslavia. Tale iniziativa politica mirava anche ad allontanare, o ad eliminare (foibe[38]), quanti potevano diventare dei riferimenti in tema di opposizione a Belgrado. In tale ambito si collocò pure una politica di aggressione verso molteplici ecclesiastici. Il 6 maggio 1946 mons. Santin denunciò, insieme all’arcivescovo di Gorizia mons. Carlo Margotti[39], la persecuzione nei confronti della Chiesa, stilando – in una dichiarazione comune – l’elenco dei soprusi in atto nella zona B. Il 19 giugno del 1947 il presule rischiò un linciaggio quando decise di recarsi a Capodistria (si festeggiava il patrono locale, san Nazario). Sulle scale del Seminario cittadino avvenne l’aggressione al vescovo. Questi, fu pesantemente colpito e percosso a sangue. [40]
Mons. Santin, comunque, non indietreggiò davanti alle criticità politiche del momento. Le sue omelie in cattedrale divennero anche un’occasione per denunciare le violenze perpetrate dalle milizie di Tito.[41] Questa linea pastorale che respingeva compromessi ebbe conseguenze. Furono infatti adottate misure repressive a danno del clero nella Zona B. Si arrivò in tal modo a una situazione persecutoria. Diversi sacerdoti, i cui nominativi erano annotati nelle liste dell’OZNA, furono costretti ad abbandonare le proprie residenze. La cronaca del tempo registra pure aggressioni sul sagrato di varie chiese. Ci furono comunque processioni di fedeli che sfidarono le autorità jugoslave per reclamare (con esito positivo) la liberazione dei propri sacerdoti dalle carceri. Questo clima di terrore colpì i preti italiani, ma anche quelli sloveni e croati.[42]
In tale contesto, mons. Santin scrisse pure un’invocazione al Signore per le vittime delle foibe (1959). Si riporta qui di seguito il testo.
«O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalla profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce.
Noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l’insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché Tu hai raccolto l’ultimo loro grido, l’ultimo loro respiro.
Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace.
Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua pace. Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi Morti, profonda come le voragini che li accolgono.
Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore del Tuo Volto.
E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: “Beati i misericordiosi perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati”, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità”».[43]

Mons. Santin e la tutela dei bambini
Nel dopoguerra vanno ricordate le visite di mons. Santin ai campi profughi, alle varie comunità di esuli, la sua presenza costante alle varie manifestazioni e ricorrenze, esprimendo sempre espressioni di sostegno. In tale contesto, il presule manifestò una particolare attenzione verso i bambini relegati nelle aree degli sfollati. I piccoli erano soggetti alle privazioni degli adulti, e vivevano in angusti spazi. Già nella notte del Natale del 1945, mons. Santin trasmise via radio un appello chiedendo aiuti per gli esuli istriani, fiumani e dalmati, e – in particolare – per i piccoli. Tale richiesta venne ascoltata anche da don Pietro Damiani[44]. Quest’ultimo, era cappellano militare a Udine. Operava presso il centro accoglienza e smistamento dei soldati italiani rimpatriati dalla prigionia.[45] In questo luogo si presentavano anche molti profughi dalla Venezia Giulia, dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.[46] Tra loro, c’erano molti bambini, diversi orfani di genitori uccisi ed infoibati. P. Damiani ne radunò un primo gruppo. Cominciò a raccogliere generi di prima necessità. Cercò aiuti e collaborazioni per fornire assistenza. Nel campo profughi di Udine erano venuti da Trieste anche esponenti del C.L.N. dell’Istria che avevano rinnovato l’appello di mons. Santin per i bambini. Con essi p. Damiani stabilì contatti e collaborazioni. Il sacerdote condusse poi a Pesaro un primo gruppo di piccoli. Trovò per loro una sistemazione provvisoria. Riuscì in seguito a rendere più stabile la propria organizzazione. I ragazzi accolti superarono il numero di mille. La sinergia tra il vescovo Santin, p. Damiani ed il C.L.N. dell’Istria, proseguì con esiti positivi.
Nel gennaio del 1971 il presule rinunciò alla sua carica vescovile ed al governo della diocesi triestina, per limiti d’età. Paolo VI, anche per le pressioni dei triestini, le accettò solo quattro anni dopo (28 giugno 1975). Dal 1975 mons. Santin visse ritirato in una piccola villa nei pressi del Seminario diocesano. Qui, scrisse le sue memorie.[47] Il presule morì a Trieste il 17 marzo 1981 all’età di 85 anni.

La persecuzione di preti e religiosi in Istria[48]

Nei drammi del tempo, clero e comunità religiose si trovarono ad affrontare prove molto dure. Al riguardo, con riferimento all’Istria, si verificarono molti episodi che erano inseriti in un disegno di disarticolazione della società giuliano-dalmata da parte del regime di Tito[49]. Si riportano qui di seguito alcuni esempi.

Don Angelo Tarticchio
Don Tarticchio era nato nel 1907 a Gallesano d’Istria (distante 8 km da Pola). Fu ordinato sacerdote il 1° maggio del 1943. Divenne in seguito parroco di Villa di Rovigno (Istria). Il 16 settembre del 1943[50], di notte, partigiani titini lo prelevarono a forza dalla canonica davanti alla madre e alla sorella. Aveva 36 anni. Con il presbitero furono catturate altre 43 persone. Gli aggressori, dopo insulti, fanno salire a forza i prigionieri su una minadora (corriera-cassone senza finestrini, adibita al trasporto dei minatori di carbone all’Arsa). Don Tarticchio venne recluso nel castello Montecuccoli a Pisino d’Istria, (adibito a carcere). Subì la tortura. Lo trascinarono poi nei pressi di Gallignana. Qui, i miliziani comunisti lo uccisero con una raffica di mitragliatrice e lo gettarono nella cava di bauxite di Lindaro. Con lui subirono la stessa sorte 43 prigionieri legati con filo spinato.
Il 3 novembre i pompieri di Pola trovarono il corpo di don Tarticchio completamente nudo, con una corona di filo di ferro spinato calcata sulla testa e i genitali tagliati e conficcati in gola.[51] La salma di questo sacerdote è tumulata nel cimitero di Gallesano.

Don Francesco Bonifacio

Don Francesco Bonifacio

Don Francesco Bonifacio

Altre tragedie significative si collegano alla soppressione di due sacerdoti istriani: don Bonifacio e don Bulešić.
Don Francesco Bonifacio (1912-1946; Beato)[52], era nato a Pirano d’Istria. Venne ordinato sacerdote a 24 anni (27 dicembre 1936). Prima destinazione del suo apostolato fu Cittanova. In seguito, ricevette la nomina a cappellano di Villa Gardossi[53] ((13 luglio 1939). Si trattava di un comune agricolo dell’entroterra (posizionato tra Buie e Grisignana). La sua attività sacerdotale si articolò in modo significativo: coro, filodrammatica, piccola biblioteca, Azione Cattolica, attività ludico sportive per i giovani, sostegno agli anziani, presenza accanto ai malati, supporto ai meno abbienti. Nel 1940 (Italia in guerra) e nel 1943 (armistizio), il territorio di Villa Gardossi, con casolari e boscaglie, divenne rifugio di partigiani. Il fatto spiega le incursioni di fascisti (RSI) e di nazisti. Nel dopoguerra mutò il quadro politico della zona. L’occupazione jugoslava di territori posti in precedenza sotto la bandiera dell’Italia spinse le milizie di Tito a guardare con sospetto le persone di lingua italiana. Queste, inclusi i religiosi, erano considerate dei resistenti al regime comunista e alla sua dottrina.
Anche don Francesco venne avvisato sui pericoli legati all’azione di miliziani comunisti. Egli era consapevole della gravità della situazione. Ne parlò con alcuni sacerdoti («mi stanno spiando»; «qualche cosa di male può accadermi») e con il vescovo monsignor Santin a Trieste («i capi comunisti mi fanno difficoltà e mi minacciano»). Malgrado i problemi riteneva comunque necessario restare al suo posto. Non voleva abbandonare i fedeli.
La sera dell’11 settembre del 1946 don Bonifacio, dopo essersi recato a Grisignana dal suo confessore (il parroco don Giuseppe Rocco), riprese la strada del ritorno. Lungo il percorso, come riferito da testimoni, venne avvicinato e fermato da due guardie popolari.
È l’inizio del dramma. Il sacerdote (aveva 34 anni) fu costretto a seguire i suoi aguzzini mentre altri due miliziani si aggregavano al gruppo. Nel bosco don Francesco venne picchiato a morte. Il corpo fu poi gettato nella foiba, detta di Martines, che non lo ha più restituito. Il fratello, informato del dramma, iniziò delle ricerche. Fu incarcerato con l’accusa di raccontare falsità. La prima comunicazione dell’uccisione di questo sacerdote risale al 21 settembre 1946. È firmata dal vescovo Santin.[54] Passarono diversi anni prima che si facesse luce sulla vicenda. Emersero alla fine dei testimoni. Raccontarono dei fatti. Nel 1957 fu avviata la causa di beatificazione. In seguito, Benedetto XVI dichiarò don Bonifacio ucciso in odio alla fede.

Don Miroslav Bulešić
Don Miroslav (Miro) Bulešić (1920-1947; Beato) nacque in Istria, nel villaggio di Čabrunići (parrocchia di Sanvincenti). Venne ordinato sacerdote l’11 aprile del 1943. Operò presso le comunità di Monpaderno e di Canfanaro, poi nel seminario di Pisino (professore e vicerettore). A causa della guerra in più parrocchie della sua zona non era stata amministrata la cresima. Per questo motivo mons. Jacob (Giacomo) Ukmar[55] fu delegato del vescovo di Trieste e Capodistria ad amministrare il sacramento in 24 chiese (1947). Don Bulešić lo accompagnò. Esponenti dell’amministrazione comunista, però, manifestarono un’aperta ostilità verso le celebrazioni in programma. Si verificarono a questo punto dei fatti violenti.
Il 17 agosto il sacramento venne amministrato regolarmente a Pisino. Poi i sacerdoti raggiunsero Corrodico, Terviso e altre località. A Pinguente (23 agosto), un gruppo di oppositori impedì le cresime a 250 ragazzi. Vennero lanciate uova marce e pomodori. Non mancarono insulti e bestemmie.
Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie (Istria settentrionale)[56], mons. Ukmar e don Bulešić riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Terminata la funzione, per l’acuirsi di violente ostilità manifestate da elementi comunisti, i due sacerdoti si chiusero in canonica con il parroco, don Stjepan (Stefan) Cek.[57] Gli oppositori, però, trovarono il modo per irrompere nei locali. Nel tinello del pianoterra fu sgozzato don Bulešić. Al piano superiore venne ferito in modo grave mons. Ukmar. Il parroco poté nascondersi nell’angusto sottoscala. In occasione del funerale le autorità comuniste vietarono ai convogli ferroviari che trasportavano fedeli accorsi per onorare il martire, di fermarsi nella stazione locale. Il divieto fu esteso anche alle stazioni vicine.
Il 29 settembre ebbe inizio il processo contro gli ecclesiastici sopravvissuti. Erano “rei” di aver provocato “gli incidenti” del 24 agosto. Don Stefano Cek fu accusato di aver affisso alle porte della chiesa di Lanischie un comunicato nel quale si metteva sull’avviso che non sarebbero stati ammessi per padrini alla cresima coloro che avevano militato tra i partigiani. La verità era un’altra. Il comunicato faceva riferimento a “peccatori pubblici”, cioè a concubini o a persone sposate solo con rito civile. Inoltre, don Cek fu accusato di aver fatto circondare la canonica da uomini armati che “provocarono” l’“incidente” opponendosi a chi era intervenuto per mantenere l’ordine. Anche in questo caso non si disse che i sacerdoti erano stati difesi da chi voleva ucciderli. E si tacque sul fatto che proprio membri della forza pubblica parteciparono alle violenze e all’omicidio.
Riguardo all’omicidio in canonica, si disse che per il gran numero di soggetti presenti non erano stati individuati i colpevoli. Mons.Ukmar fu accusato «quale delegato del vescovo di Trieste, noto fascista Santin» di associazione a delinquere, per aver concordato con Stefano Cek il modo di tener lontani dalla cerimonia della cresima coloro che avevano militato tra i partigiani.
Quanto a Miroslav Bulešić, segretario e uomo di fiducia del “vescovo fascista” di Parenzo e Pola, mons. Radossi, e prediletto dell’altro vescovo triestino Santin, lo si accusava di “essersi particolarmente distinto in occasione delle prime elezioni per il potere popolare in Istria, e di aver osteggiato con Stefano Cek la lotta per la liberazione dalla tirannide tedesca e fascista. Queste “accuse” vennero confermate da testimoni, istruiti in precedenza.
Riguardo al cadavere di don Bulešić, il tribunale del popolo pose interrogativi: fu trovato morto? E chi poteva provare che era stato ucciso? In definitiva, gli altri due preti non avevano fatto la stessa fine. Poteva essersi suicidato “a scopo intimidatorio”.
Il 3 ottobre venne letta la sentenza. Don Stefano Cek venne condannato a sei anni di privazione della libertà e ai lavori forzati, oltre che alla perdita dei diritti politici e civili per due anni dopo il periodo di pena. Mons. Giacomo Ukmar, trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, subì la condanna a un mese di reclusione. E venne rimesso in libertà tenendo conto dei giorni di reclusione preventiva. Per tutti gli altri detenuti (tre erano stati prigionieri nei campi di concentramento tedeschi) la sentenza fu mite.
A Slavko Sankovic, che la popolazione aveva identificato nel soggetto che era entrato in canonica con un coltello (poi segnato dal sangue di don Bulešić), fu comminata una condanna a cinque mesi «per il troppo zelo nella contestazione». Medesima condanna a Elvio Medica, l’aggressore di mons. Ukmar.
Agli altri due, Josip Bozic e Felice Brajkovich, venne inflitta una condanna a tre mesi.[58]
Le autorità civili imposero di seppellire i resti di don Miroslav Bulešić a Lanischie. Nel 1958 acconsentirono a trasferirli a Sanvincenti, a una condizione: sulla lastra tombale non doveva essere apposto alcun nome. Sulla prima lapide, di conseguenza, venne incisa solo la parola “presbyterum” (“sacerdote”).
A quarant’anni dal martirio, gli venne resa giustizia: il 24 agosto 1987, infatti, fu riportata una nuova iscrizione con il nome e le circostanze della morte del sacerdote.
La prima tomba di don Miroslav, quindi, fu presso il cimitero di Sanvincenti, davanti all’entrata principale della chiesetta dedicata a san Vincenzo martire, l’antica parrocchiale. Nel 2003 venne traslato all’interno della chiesa dell’Annunciazione, sulla parete laterale destra, verso l’ingresso principale.

Altre violenze. I benedettini di Daila (Istria)
Il 29 agosto 1947 nel monastero di Daila (Istria) furono arrestati quattro monaci benedettini. Un agente dell’OZNA, li accusò di fatti “costruiti” dagli accusatori. Nel frattempo il complesso religioso fu più volte oggetto di requisizioni di ogni tipo. Tali violenze inclusero la profanazione della chiesa, l’asportazione dell’attrezzatura agricola, dei carriaggi, del bestiame, e lo sfondamento di pareti e di pavimenti in cerca di “presunti” oggetti di valore. I religiosi vennero internati nel carcere di Pirano. Il 14 settembre 1947 ebbero inizio gli interrogatori.
L’istruttoria processuale fu gestita da fiduciari delle forze comuniste. I capi di accusa furono “inventati”. Gli imputati dovevano rispondere:
- padre don Teodoro Amati, superiore del convento di Daila, nel suo ruolo di responsabile apicale della comunità, di tutti i reati attribuiti ai suoi confratelli;
- padre don Alfonso Del Signore, amministratore dell’azienda agricola, di speculazione illecita, contrabbando e sabotaggio;
- fra Mauro Di Lelio dell’allevamento di colombi ritenuti “viaggiatori-spia” perché avevano un anello sulla zampetta (che serviva invece a distinguere le varie covate…);
- padre don Benedetto Segatori della sua collaborazione nel contrabbando e sabotaggio;
- padre don Ambrogio Bizzarri delle sue frequenti assenze dal monastero, dei contatti con il vescovo di Trieste, della collezione di francobolli trovata nella sua stanza. Tutto questo, secondo gli inquirenti, provava l’esistenza di una rete spionistica.
Anche le preghiere in latino diedero adito a sospetti di comunicazioni segrete con il vescovo: da qui il divieto ai detenuti di celebrare la messa.
A padre don Segatori venne accordata la libertà provvisoria perché anziano e malato. Gli altri furono trasferiti dalla carceri di Pirano a quelle di Capodistria.
Il processo-farsa ebbe inizio a Buie il 21 febbraio del 1948. Il pubblico ministero accentuò reati politici (vicinanza ad avversari dei comunisti) ed economici (“sfruttamento” dei coloni, contrabbando e sabotaggio).
Il 5 marzo 1948, alle 21,45, il tribunale popolare condannò l’abate don Teodoro Amati a quattro anni di lavori forzati (in contumacia perché assente); don Alfonso Del Signore a tre anni e mezzo; don Romualdo Segadori, anziano e affetto di pregressa meningite, a sei mesi; don Ambrogio Bizzarri a diciotto mesi; e fra Mauro Di Lelio a diciotto mesi. Decretò inoltre la confisca di tutti i beni immobili e mobili del monastero.
Dopo la sentenza, i condannati furono trasferiti al campo di lavoro di Salvore: spaccalegna nei boschi, poi trasporto di pietre e di ghiaia, e – in ultimo – lavori agricoli nei campi, o attività domestiche (es. cura dei porcili e dei pollai).
Nel 1997 il tribunale sloveno di Buie ha annullato la condanna dichiarando che era basata su calunnie.[59]

L’incarcerazione di don Domenico Corelli
Alla fine della guerra, l’ultimo arcivescovo di Zara, mons. Munzani (cit.) raccolse 40 alunni nel Seminario minore a Lussingrande – isola di Lussino. Qui, si recava spesso per svolgere la sua attività pastorale, come pure nella vicina isola di Cherso e nelle isole minori. Il presule nominò rettore don Giuseppe Della Valentina[60] e, in qualità di economo e direttore spirituale, don Domenico Corelli[61], allora parroco di San Martino in Valle. Quest’ultimo, si spostava, dal lunedì mattina al pomeriggio del giovedì, dalla sua parrocchia al Seminario, percorrendo otto chilometri a piedi per raggiungere a Bellei la stazione della corriera che faceva il percorso che lo portava all’imbarcadero per Lussino e poi un ulteriore tratto a piedi per raggiungere il Seminario.
Questi spostamenti destarono sospetti nella polizia di Tito, che lo vedeva percorrere il cammino con la bisaccia sulle spalle. Nel tardo pomeriggio del 10 aprile 1948, al termine d’una celebrazione eucaristica, il sacerdote venne prelevato da quattro uomini. Inutilmente i fedeli cercarono di liberare il presbitero. Trasportato con un motoscafo a Lussingrande nella sede della polizia, don Giuseppe – a mezzanotte – subì un interrogatorio sulla natura dei suoi spostamenti e per sapere da chi riceveva gli ordini.
Fu poi condotto nel sotterraneo dell’edificio e chiuso in una cella. Mancavano luce, finestre. C’era una branda senza coperta. Nessun straccio. Mancanza pure di un mobile. Lo stato di isolamento durò circa quaranta giorni. Non fu possibile cambiare i vestiti e lavarsi.
Nel secondo giorno di prigionia fu sottoposto a un interrogatorio sistematico. Un giudice aveva raccolto false testimonianze su don Giuseppe. Il prete fu accusato di opposizione alle leggi statali mediante la predicazione e le frequenti riunioni serali. Gli venne contestata l’appartenenza (non vera) al fascismo, una presunta attività di cambiavalute e altro ancora.
Gli interrogatori proseguirono per circa 50 giorni. Giorno e notte. Le accuse tendevano inoltre a coinvolgere l’arcivescovo. Alla fine di ogni interrogatorio al sacerdote erano presentati i verbali di “confessione” (con evidenti affermazioni false). Al prigioniero venne promessa la libertà in cambio della firma. Don Corelli non mutò comportamento. Ricevette schiaffi, tirate di orecchi e calci. Lo minacciarono di arrestare il padre e la madre. Si arrivò a una dinamica assurda. Due anziani parrocchiani senza figli furono costretti ad accusare falsamente il prete. Al contrario, un giovane, sposato e con tre bambini, pure detenuto, più volte percosso e minacciato con la pistola alla bocca, si rifiutò di testimoniare il falso contro don Giuseppe.
Don Corelli riuscì in seguito a vedere in carcere i due anziani in una cella del pianoterra: fece loro un cenno di saluto, anziché rispondere i loro visi si riempirono di lacrime.
A metà giugno il sacerdote fu trasferito al carcere comune di Lussinpiccolo, in una cella di quattro metri per quattro, che ospitava da un minimo di quattro fino ad undici prigionieri, alcuni anche italiani, spesso ladri, rissosi, disobbedienti o dediti all’ubriachezza.
Alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno 1948 fu convocato in ufficio. Ricevette le indicazioni per il rilascio e il comportamento da mantenere in seguito. Doveva dire alla gente che era stato imprigionato per propria colpa mia, che non era rimasto in parrocchia a celebrare la messa, che aveva svolto attività contro lo Stato secondo l’accusa di due parrocchiani.
Alla fine, uscì dal carcere con il solo mantello e un fagotto. L’andatura era faticosa. Ricevette l’ordine di uscire dalla Jugoslavia il giorno dopo: 1° gennaio 1949. Don Giuseppe salì sul treno che da Fiume raggiungeva Trieste. Trascorso un giorno, partì per Roma per incontrare l’arcivescovo Munzani.
Don Corelli scrisse in seguito di essere stato tolto dalla cella d’isolamento, dopo che le autorità jugoslave non erano più interessate ad estorcere confessioni per “costruire” un processo politico-scandalistico ai danni dell’arcivescovo.[62] Quest’ultimo, gli fece ottenere un’udienza con Pio XII. Poi, gli propose più soluzioni per il futuro. Si decise alla fine per un ritorno in terra veneta. Il vescovo mons. D’Alessi lo accolse fraternamente. Lo assegnò, dal 1° marzo 1949, come cappellano a San Vito al Tagliamento.
Il vescovo mons. De Zanche, successore di mons. D’Alessi (mancato prematuramente il 9 maggio 1949), l’anno successivo lo destinò direttore spirituale del Seminario. Don Corelli, come ogni profugo, non riuscì mai a guarire del tutto dalle sofferenze del tragico esodo dopo la guerra.[63]

Gli attacchi a don Giuseppe Dagri
Nel periodo qui considerato, molte sofferenze segnarono la vita dei sacerdoti che operarono in Istria. Si ricorda, ad esempio, la figura di don Giuseppe Dagri[64]. Era parroco di Isola d’Istria da sedici anni. I comunisti del tempo cercarono in più occasioni di rendergli difficile la vita. Mentre da una parte si operò per indebolire la presenza dei cattolici[65], dall’altra ebbe inizio una strategia contro il sacerdote mirata a rendergli ostile la popolazione. Don Dagri fu accusato di “uccisioni” di partigiani (sic), gli fu confiscata l’abitazione, fu attaccato per aver inviato al vescovo Santin (inviso ai comunisti) una lettera di auguri per l’onomastico del presule. Vennero ideati dei provvedimenti fiscali (immotivati). Le accuse, incluse quelle di “atteggiamento antipopolare” di danno al socialismo, furono divulgate attraverso Radio Capodistria, affissi murali, comizi pubblici. Si mobilitarono i sindacati, e diversi lavoratori.
Don Draghi resistette e proseguì nella sua testimonianza cristiana. Lo attesta, ad esempio, la processione votiva alla Madonna del Carmine (1952). Alla fine, don Dagri ricevette minacce da aggressori penetrati nella sua casa. Questi gli fecero capire che se non lasciava il posto ci sarebbero state iniziative “convincenti”. Fu avvisato il vescovo. Quest’ultimo, ordinò al parroco di raggiungere Trieste. Si trattava di un’obbedienza. E il sacerdote ubbidì.[66]

Il caso Stepinac [67]

Stepinac durante il processo

Stepinac durante il processo

Mentre l’area istriana era segnata dai drammi visti sopra, altre tragedie si registravano nel territorio dell’ex-Stato Indipendente di Croazia[68]. Per comprendere le dinamiche collegate a questa entità politica è utile ripercorrere la fase storica precedente. Questa, fu segnata dalle conseguenze della prima guerra mondiale (terminata nel 1918), dalle vicissitudini del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (divenuto poi Regno di Jugoslavia), dalle tensioni tra le diverse etnie, dai movimenti indipendentisti, dallo scoppio del secondo conflitto mondiale (1939), dall’avvento in Croazia del capo degli ustaše (“insorti”) Ante Pavelić[69] (1889-1959), dalla proclamazione dello Stato Indipendente di Croazia (1941). Questi fatti anticipano una successiva serie di vicende sanguinose. Quando agli inizi degli anni Quaranta il duce (poglavnik) Pavelić, con il sostegno del III° Reich e del governo di Roma, riuscì a controllare il territorio croato, cominciarono a verificarsi eccidi. Gli ustaše colpirono gli avversari interni (sostenitori di altre formazioni politiche), ma soprattutto i Serbi (legati al credo ortodosso), gli Ebrei e i Rom.
Si aggiunsero poi ulteriori criticità. Il regime volle “convertire” i fedeli ortodossi al cattolicesimo (3 giugno 1941). Lo fece in modo violento. Scavalcò ogni competenza ecclesiastica di merito. Quando Pavelić si rese conto della scelta sbagliata, decise per un’altra soluzione: l’istituzione di una Chiesa nazionale ortodossa direttamente collegata al regime. Anche questa iniziativa, comunque, non fece che produrre tensioni e conflitti, e non ottenne i risultati sperati.
Il regime di Pavelić crollò nel 1945 per l’incalzare delle milizie di Tito (generale nel 1941, maresciallo nel 1943) e per le sconfitte dell’Asse. Da questo momento in poi si instaurò, anche in terra croata, un regime comunista (Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, poi divenuta Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia). Con l’avvento dell’amministrazione di Tito si verificarono una serie di avvenimenti che seguirono due logiche.
1. Da una parte si vollero neutralizzare le forze militari nemiche (quelle dell’Asse e dello Stato Indipendente di Croazia, oltre ai collaborazionisti). Tale strategia di morte fu segnata da esecuzioni sommarie, eccidi (ad esempio, il massacro di Bleiburg), campi di concentramento: Borovnica, Aidussina, Škofja Loka, Maribor, Goli Otok (Isola Calva) e Sveti Grgur (Isola di San Gregorio)[70].
2. Dall’altra, si dette inizio a un segreto piano di “normalizzazione”. Nell’ottica di Belgrado si doveva approfittare del momento favorevole (acquisizione di territori, e occupazione dei centri di potere) per realizzare una pulizia etnica. Tale politica provocò violenze sui civili croati, la soppressione di quanti non erano comunisti, l’eliminazione di esponenti di formazioni democratiche, il ripetuto uso delle foibe, lo svolgimento di procedimenti penali irregolari, le requisizioni di beni mobili e immobili, i messaggi intimidatori per costringere migliaia di italiani a fuggire dalle province istriane, dalmate e della Venezia Giulia, la persecuzione di vescovi, sacerdoti, religiosi[71], religiose[72] e laici[73].
Nel contesto delineato, le autorità di Belgrado cercarono in ogni modo di neutralizzare quello che consideravano l’avversario più pericoloso: l’arcivescovo anticomunista di Zagabria, mons. Alojzije Stepinac[74]. Per arrivare ad avere un pieno controllo sul presule vennero seguite più strade. Si cercò di farlo trasferire in altra sede. Il disegno fallì. Si tentò allora un contatto diretto con mons. Stepinac per indurlo ad avvicinarsi a Belgrado, e ad allontanarsi dall’obbedienza al Papa. Anche in questo caso il no fu risoluto. A questo punto, per i dirigenti comunisti non rimase che l’ultima opzione: un processo pubblico con accuse penali. Venne così istruito un procedimento. Il presule subì l’accusa di collaborazionismo con il precedente regime (quello ustaša), e di aver sostenuto un’opposizione al nuovo governo comunista. Accanto all’arcivescovo furono affiancati altri imputati (laici e religiosi). In tal modo il regime cercò di ‘dimostrare’ l’esistenza di un ‘complotto’ anti-statale guidato dal presule. Le udienze durarono dal 30 settembre al 3 ottobre 1946.
La sentenza fu avversa all’imputato. Mons. Stepinac venne condannato a 16 anni di lavori forzati, e alla successiva privazione dei diritti politici e civili per cinque anni. In seguito, la prigionia nel carcere di Lepoglava fu tramutata in domicilio coatto.
Con tali provvedimenti il regime (ma non la Chiesa) ridusse l’arcivescovo allo stato di semplice sacerdote, ‘dipendente’ da un parroco. Non poté più guidare la diocesi di Zagabria. Gli fu proibito di mantenere contatti con i vescovi. Venne vietata ogni corrispondenza in entrata e in uscita (chi gli inviava lettere fu perseguitato). Si ostacolò il collegamento con la Santa Sede. In ultimo, si arrivò a istruire un secondo procedimento penale. Non si arrivò comunque al processo perché mons. Stepinac morì nel 1960 per l’ostruzione di alcuni tratti dell’arteria polmonare causata da trombi mobili[75]. Nel 1998 Giovanni Paolo II[76] proclamò beato il defunto arcivescovo di Zagabria. L’iter seguito fu quello del riconoscimento del martirio, che non richiede la constatazione di un miracolo.

Gli studi storici su mons. Stepinac
La vicenda Stepinac, per il clamore suscitato, è stata materia di studi a favore o contro il presule. Varie informazioni sono state manipolate prima dal regime ustaša e poi da quello comunista. Negli anni del regime di Tito, in particolare, la propaganda comunista attaccò l’arcivescovo cercando di dimostrare il suo comportamento falso, equivoco e anti-statale. Solo dopo il crollo della Iugoslavia, superate le censure e i divieti, cominciarono ad essere diffusi nuovi saggi. La storia di mons. Stepinac cominciò ad essere letta in modo non emotivo, con uso di documenti e testimonianze. L’impulso principale lo dette il processo di beatificazione. Per scrivere la Positio, fu necessario un approfondito lavoro di ricerca storica. In tal modo si aprì la strada a ulteriori contributi. Nel 2018 l’Editrice italiana Àlbatros ha pubblicato un testo sull’arcivescovo di Zagabria. Chi scrive è stato l’autore dell’opera. Circa cinquecento pagine di testo, quasi duemila note giustificative, centinaia di riferimenti inseriti nell’indice dei nomi, costituiscono un apporto che trasmette dati significativi. Si trascrivono qui di seguito alcune evidenze.

Alcuni dati significativi
1) Mons. Stepinac manifestò una vita spirituale profonda. Fu attento alle necessità del popolo, fedele all’insegnamento della Chiesa. I suoi scritti dimostrano un’intensa vita spirituale, una solida formazione teologica, un’evidente premura pastorale.
2) Sul piano socio-politico, il presule difese l’identità croata. Sostenne di questo Paese la storia, la religione cattolica, la cultura, le tradizioni, e le iniziative autonomistiche. Tra i suoi interlocutori rivolse attenzione al Partito Contadino Croato[77], e interagì con il leader, Vladko Maček.[78]
3) Sul versante ideologico, mons. Stepinac respinse in modo netto le dottrine totalitarie. Avvertì i fedeli sui rischi collegati a regimi che si allontanavano dalle esigenze della popolazione. In particolare, il presule avversò la dottrina hitleriana della razza, del sangue, della superiorità ariana. Già prima dello scoppio del II° conflitto mondiale il presule – pur seguendo un chiaro orientamento cattolico – non ebbe remore a interagire con i più diversi interlocutori e a contribuire a mantenere degli equilibri sociali.
4) Nei confronti delle potenze dell’Asse il rapporto fu critico. Mons. Stepinac non mostrò mai delle simpatie verso il III° Reich. In particolare, non rivolse particolari attenzioni ai massimi dirigenti del regime. Non sostenne i testi nazisti. Non volle mantenere canali di comunicazione con il rappresentante politico della Germania hitleriana a Zagabria. Avversò l’anti-semitismo. Anche nei confronti del Governo di Roma il presule non superò mai una linea di atti formali, imposta dalle circostanze. Mons. Stepinac, infatti, non approvò l’ingerenza mussoliniana sulle vicende croate, e disapprovò di fatto l’occupazione italiana di territori croati. Quando fu necessario intervenire per favorire operazioni umanitarie, l’arcivescovo si rivolse in modo diretto o indiretto agli occupanti del tempo per richieste di grazia, di mutamento di condanna, di accesso ai campi di concentramento, di passaggio in luoghi dichiarati teatro di guerra.
5) Verso Pavelić e il movimento ustaša la posizione dell’arcivescovo Stepinac non si configurò come adesione. Il presule, informato sugli eccidi in corso, si rese presto conto di un fatto. Il Poglavnik spingeva verso una linea politica che avrebbe condotto la Croazia a una situazione tragica. Mentre la stampa del tempo manipolò l’informazione riguardante i rapporti Stepinac-Pavelić (facendoli apparire ottimi), la documentazione storica fornisce dati molto diversi:
- Pavelić cercò di far allontanare mons. Stepinac da Zagabria; diversi dirigenti ustaša erano avversi al presule;
- in ripetute occasioni Pavelić scavalcò il ruolo di mons. Stepinac in materia ecclesiastica, e adottò decisioni che erano di esclusiva competenza della Chiesa cattolica;
- Pavelić si oppose alla consacrazione vescovile di mons. Petar Čule (a motivo delle sue denunce) ma mons. Stepinac, pur scontrandosi con il regime del tempo, lo consacrò ugualmente;
- il duce croato fu destinatario di molteplici interventi di Stepinac per modificare decisioni statali dagli effetti deleteri;
- l’arcivescovo condannò la politica razziale, le operazioni sanguinarie, i campi di concentramento, le condanne a morte senza regolari processi, gli arresti immotivati;
- mons. Stepinac non volle mai alzare la mano destra adottando il saluto ustaša;
- la presenza del presule in cerimonie pubbliche fu circoscritta a eventi nazionali. Quando venne riaperto un sedicente Parlamento, l’arcivescovo volle sedersi nel banco dei visitatori;
- pur di salvare gli ortodossi, l’arcivescovo evidenziò eccezioni a quanto prescriveva il codice di diritto canonico. In pratica, gli ortodossi potevano passare alla Chiesa Cattolica (Pavelić li stava obbligando con propria decisione) e, a fine conflitto, erano liberi di tornare nella Chiesa Ortodossa.
6) Nei confronti del mondo cattolico croato, mons. Stepinac dovette affrontare varie criticità. Mentre un gruppo significativo di fedeli rimase particolarmente vicino al proprio arcivescovo, in altri casi si verificarono situazioni diverse:
- nella popolazione si trattò in particolare di seguire delle opportunità, delle convenienze, delle necessità;
- ci furono alcuni vescovi, sacerdoti e religiosi (specie francescani) che sostennero il regime ustaša;
- si verificarono delle realtà criminose che videro anche (a vario titolo) la presenza di persone consacrate.
Il presule fu costretto a intervenire in diverse occasioni:
- non permise ai consacrati di iscriversi a movimenti politici, e di prendere parte ad iniziative politiche;
- richiamò fedeli e consacrati ai princìpi del Vangelo, alle direttive dei Pontefici, ed evidenziò i drammi che si moltiplicavano per le lotte interne, per quelle inter-etniche e per gli scontri bellici;
- emise provvedimenti disciplinari nei confronti di sacerdoti e di religiosi costringendo i responsabili di azioni condannate dalla Chiesa a cessare il proprio ruolo religioso.
7) Nell’interazione con la Santa Sede, mons. Stepinac mostrò fedeltà. Applicò puntualmente le direttive di Pio XI e quelle di Pio XII. In particolare, nei documenti pastorali e nelle omelie inserì i riferimenti del magistero pontificio riguardanti: la pace, la famiglia, la vita morale, la spiritualità.
L’arcivescovo, che aveva studiato a Roma presso l’Istituto Germanico e la Pontificia Università Gregoriana, ebbe modo di incontrare Pio XII, e interagì con il rappresentante della Santa Sede inviato in area balcanica.[79] Mentre sostenne il diritto della Croazia a vivere secondo criteri di autonomia e di pace, il presule riferì anche sulle vicende dolorose in atto nel suo Paese preferendo canali di natura riservata (così da tutelarsi dallo spionaggio).
8) Verso il nuovo regime comunista l’arcivescovo di Zagabria ebbe rapporti critici. Già negli anni della sua azione pastorale precedenti il regime di Tito, mons. Stepinac condannò la dottrina riguardante il comunismo ateo e materialista. Con il sopravvento dei partigiani di Belgrado sulle forze croate si insediò un nuovo governo locale. Il presule fu al centro di inchieste. In questo periodo egli condannò in modo ufficiale le nuove direttive comuniste per i danni che, a motivo di quest’ultime, subivano le diverse iniziative della Chiesa Locale (scuole cattoliche chiuse o controllate, tipografie inattive, insegnamento religioso ridotto al minimo, dottrina morale impoverita da correnti di pensiero non in sintonia con l’orientamento cattolico). La situazione precipitò con un primo arresto dell’arcivescovo a cui seguì un secondo arresto.[80]
Il 30 settembre 1946 ebbe inizio un pubblico processo. Si arrivò in ultimo a una condanna a 16 anni di lavori forzati e alla successiva privazione dei diritti politici e civili per la durata di cinque anni. In tali occasioni la linea del presule rimase integra. Egli non deviò dalle sue posizioni. Rifiutò di organizzare una Chiesa nazionale vicina al regime comunista e staccata dal Pontefice Romano (come avrebbe voluto Tito). Respinse anche l’idea di lasciare la Croazia per trasferirsi altrove (come aveva chiesto Belgrado alla Santa Sede).
Dopo diversi anni di carcere, mons. Stepinac (anche per le pressioni internazionali) poté usufruire di un mutamento di condanna. Si trattò di un domicilio coatto presso la località ove era nato: Krašić. Nella canonica, in una modesta stanza, l’arcivescovo visse fino alla morte (10 febbraio 1960). Anche nell’ultima fase della sua vita fu costretto ad affrontare momenti critici. Tra questi, oltre alla insistente sorveglianza e ai controlli imposti ai visitatori e alla corrispondenza, anche due interventi operatori a motivo di una trombosi. Con il decesso ebbe termine l’istruttoria iniziata per poter arrivare a un secondo processo a suo carico.

Qualche considerazione
Tenendo conto delle evidenze citate, si possono annotare qui di seguito alcune considerazioni.
1) Nel corso della sua vita, mons. Stepinac affrontò sia il regime di Pavelić (e la milizia degli ustaše), sia la vicenda di consacrati croati che non seguirono le direttive dell’arcivescovo, sia gli eserciti occupanti (la Wehrmacht tedesca e le divisioni dell’esercito italiano), sia le fazioni interne impegnate nel conflitto (i ćetnici), sia le truppe collaborazioniste di diversa nazionalità (dalla provincia tedesca di Lubiana arrivarono i belogardisti e i domobranci; erano “sloveni bianchi”, anticomunisti), sia i partigiani di Tito (che nelle loro formazioni accolsero pure italiani e croati).
2) Malgrado una posizione situata al centro di una “polveriera”, mons. Stepinac dovette comunque garantire il proseguimento della vita ecclesiale, e rivolse una particolare cura verso le opere assistenziali, e verso le iniziative mirate a mitigare condanne e a strappare dalla morte molteplici condannati.
3) Nell’attuale periodo, la maggiore difficoltà degli studi storici riguarda il controllo puntuale di ogni dato. Si tratta di scindere le affermazioni spurie (di derivazione politica) dalle evidenze (supportate da documenti). Su mons. Stepinac, infatti, è ancora oggi possibile trovare (anche in siti internet) notizie che provengono o dall’ufficio propaganda del regime ustaša, o dai centri stampa legati al governo iugoslavo.
- Mentre nel primo caso si volle trasmettere un messaggio di continua “vicinanza” del presule a Pavelić (anche correggendo discorsi dell’arcivescovo, e manipolando foto o filmati),
- nel secondo si volle accentuare tale aspetto di “prossimità” agli ustaše, mostrando immagini di carneficine (per dimostrare la presunta “passività” di mons. Stepinac), foto già utilizzate dagli operatori ustaša, e rapporti con affermazioni false.
Purtroppo, con il tempo, tale realtà informativa si è aggravata per le successive guerre balcaniche. È possibile così comprendere una continuità di polemica che ancora segna l’interazione serbo-croata. In tale contesto, la vicenda Pavelić riemerge in più occasioni. E si continua a discutere (senza risultati definitivi) sui morti per mano degli ustaše (e collaborazionisti), su quelli uccisi dai serbi (con i collaborazionisti)[81], e sulle vittime degli eccidi comunisti.

Nella Bosnia-Erzegovina[82]

Nella storia della Iugoslavia socialista la data del 27 luglio 1941 fu scelta come festa nazionale. Segnava la ‘giornata dell’insurrezione’, l’inizio cioè della lotta antifascista. Da quel momento, a episodi militari, si affiancarono anche persecuzioni a danno di cattolici (tra il 1941 ed il 1952, ma soprattutto nel 1945). Ne furono vittime, oltre ai laici[83], anche sacerdoti e religiosi delle diocesi della Bosnia Erzegovina: Sarajevo, Banja Luka, Mostar e Tribinje. In quegli anni i cattolici nella regione risultavano circa 650mila e rappresentavano il 27% della popolazione, contro il 42% degli ortodossi (più tutelati) ed il 30% dei musulmani. Nel 2008, mons. Tomo Vuksic[84] rese noti i risultati di una sua ricerca.[85] Per questo Vuksic, durante il secondo conflitto mondiale la Chiesa cattolica in Bosnia Erzegovina avrebbe perso 227 tra sacerdoti, fratelli laici, chierici, seminaristi e suore:
1) in modo diretto o indiretto, ad opera di forze comuniste, ne furono uccisi 184 (cioè l’81,05%);
2) sedici morirono di tifo;
3) diciotto per mano dei cetnici;
4) nove per motivi non precisati;
5) la vittima più giovane aveva 12 anni, si chiamava Ivan Skender ed era seminarista a Banja Luka;
6) la persona più anziana che venne eliminata aveva 84 anni. Si trattò di don Vide Putica[86], parroco in pensione della diocesi di Trebinje, disabile. Fu trucidato a Prenj (nei pressi di Stolac).

La situazione dei vescovi[87]. Mons. Petar Čule
Perseguitando i vescovi, il regime comunista ottenne il risultato che voleva. Alla fine del 1949 nella Bosnia Erzegovina non c’erano più presuli. Nel 1948 infatti, con mons. Ivan Šarić[88] (arcivescovo di Sarajevo) in esilio, mons. Petar Čule[89], vescovo di Mostar-Duvno, e amministratore apostolico di Trebinje-Mrkan, subì un arresto (22 aprile). Tale attacco delle autorità fu legato a più denunce di mons. Čule. 1. Il presule aveva accusato il governo dello sterminio fisico dei cattolici (proteggendo invece i preti ortodossi e i gruppi musulmani). Questa dura politica si realizzava a volte con processi. In altri casi non c’erano neanche delle inchieste e dei giudizi formali. 2. Nella Lettera Pastorale del 22 settembre 1945 (sessione episcopale di Zagabria) venne denunciato il massacro dei frati di Široki Brijeg.
Il processo a mons. Čule si svolse in un cinema dal 14 al 18 luglio 1948. Il presule fu condannato a undici anni e sei mesi di carcere duro, con successiva perdita dei diritti civili per tre anni. Unitamente a ciò, la polizia politica – attraverso perquisizioni – sequestrò al presule molte risorse che dovevano servire per la costruzione della cattedrale. Čule trascorse diversi mesi nel carcere di Ćelovina e il 7 ottobre 1948 fu trasferito nell’istituto penitenziario di Zenica. Il presule condivise la sua cella di prigione n. 32 con il vescovo ortodosso serbo Varnava Nastic. Il 25 novembre 1948, Čule fu messo in isolamento per sette mesi, fino al luglio 1949.
Il 26 aprile 1951 venne disposto il trasferimento di un gruppo di prigionieri, tra cui Čule e altri sacerdoti cattolici, nella prigione di Srijemska Mitrovica. Il 27 aprile 1951, alle 3 del mattino, un carro con prigionieri fu staccato e travolto da un treno merci. Molti rimasero uccisi. Anche il vescovo cadde dal carro. Rimase per terra, ferito. Venne poi trasferito nell’ospedale di Ossijek. Il giorno dopo fu trasportato al carcere di Srijemska Mitrovica. Vi restò fino al 27 giugno 1951, quando venne riassegnato al carcere di Zenica. Lì fu messo in una cella con le finestre rotte, i muri umidi, il lenzuolo era infestato da pulci. In autunno, al presule fu diagnosticata la tubercolosi.
Dopo la detenzione, mons. Čule riprese le sue attività pastorali. Morì a Mostar il 29 luglio del 1985. Fu sepolto nella cripta della cattedrale di Mostar.[90]

Mons. Smiljan Franjo Čekada
Nell’ultimo periodo del 1949, fu espulso il vescovo di Skopje (in Macedonia), mons. Smiljan Franjo Čekada[91] (era pure amministratore apostolico di Banja Luka). Questo presule era stato nominato Ordinario di questa diocesi il 18 agosto 1940.
Già nella sua prima omelia in diocesi (agosto 1940) aveva chiesto giustizia per tutti gli uomini di qualsiasi nazionalità o razza. L’11 marzo 1943, inviò una lettera di protesta al comandante della polizia di Skopje Asen Bogdanov in cui definì le operazioni anti-ebraiche “un evento doloroso”. Chiese il rilascio degli “ebrei di fede cattolica”. Fece pressioni per poter visitare gli ebrei rinchiusi nei magazzini di Monopol. Scrisse che gli ebrei dovevano essere trattati in modo umano. Bogdanov non rispose alla lettera, ma trasmise una denuncia ad Artur Vitte (console tedesco a Skopje). Vitte allegò la denuncia in un rapporto al Ministero degli Esteri riguardante la deportazione degli ebrei di Macedonia.
Mons. Čekada non solo mostrò fermezza davanti ai nazisti, ma nascose pure cinque bambini (quattro maschi e una ragazza). Per il suo disegno umanitario utilizzò i locali della chiesa (Skopje), e poi i monasteri di Letnica e Janjevo. Tra i bambini salvati c’erano Shaul Gattegno (nato nel 1940), Albert Mussafia (nato nel 1936) ed Erica Weingruber. Questo vescovo morì a Sarajevo nel 1976. Venne sepolto nella tomba di famiglia nel cimitero cittadino di Sarajevo. Il 28 ottobre del 2011 le sue spoglie sono state trasferite nella cattedrale. Il 9 marzo 2010, la direzione del Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme ha riconosciuto mons. Smiljan Čekada come Giusto tra le nazioni.

La situazione dei sacerdoti e dei religiosi[92]

Don Waldemar Nestor

Don Waldemar Nestor

27 luglio 1941. A Drvar, una parrocchia della diocesi di Banja Luka (Bosnia Erzegovina), avvenne un fatto cruento. Ribelli serbi (azione partigiana jugoslava) bloccarono don Waldemar Maksimilijan Nestor[93] e numerosi fedeli mentre facevano ritorno nella loro comunità. Avevano partecipato alla festa di Sant’Anna, vicino a Knin (Kosovo). Le milizie li catturarono, li legarono, li trascinarono fino alla fossa di Golubnjača. E li trucidarono. I corpi finirono in cavità del terreno. Don Nestor fu il primo sacerdote ucciso nel territorio dell’ex Iugoslavia nel periodo del secondo conflitto mondiale[94]. Mercoledì 19 novembre 2014 i resti di don Nestor e quelli di 14 vittime innocenti della sua parrocchia sono stati sepolti in un cimitero cattolico a Banja Luka.
Poche ore dopo l’eccidio di don Nestor e dei suoi fedeli, venne pure arrestato don Juraj Gospodnetić.[95] Era nato a Postire, sull’isola di Brač. Venne ordinato sacerdote a Zagabria il 26 giugno del 1938. Divenne in seguito parroco nel villaggio di Bosansko Grahovo. Un gruppo di ribelli serbi lo bloccò al termine di una celebrazione eucaristica domenicale. Fu torturato e assassinato durante il massacro che riguardò i cattolici di questa località (27 luglio 1941).[96]
Nell’autunno del 1944 ebbe inizio una fase critica per il clero che, dal luglio 1945, fu segnata da azioni apertamente sanguinose. Si prelevarono senza motivo dai conventi e dalle case parrocchiali diversi consacrati. Questi furono eliminati in più casi senza un regolare processo. In altre vicende, la condanna a morte fu comminata dai cosiddetti tribunali militari. Non mancarono poi i preti che persero la vita con i profughi che cercavano di raggiungere l’Austria, e quelli che morirono dopo la guerra nei campi di concentramento comunisti e nelle prigioni.
Nel novembre del 2015, la Procura della Bosnia-Erzegovina ha comunicato l’avvenuta riesumazione di corpi dalla fossa di Golubnjača. È stato specificato che si tratta dei corpi dei pellegrini uccisi nel luglio 1941.
La cronaca del tempo riferisce diversi fatti cruenti. Si riporta un esempio. Il 7 febbraio 1945, a Široki Brijeg (vicino Medjugorje), partigiani dell’8° Corpo d’Armata dalmata, assalirono (con uso di bombe) la locale chiesa e il convento francescano. Trovarono trenta religiosi, alcuni dei quali erano professori nel ginnasio adiacente il santuario. Intimarono ai frati di lasciare l’abito religioso. Nessuno obbedì. Allora presero i francescani uno ad uno, li portarono fuori dal convento e li uccisero. Testimoni oculari hanno poi raccontato che i religiosi andarono incontro alla morte pregando e cantando le litanie della Madonna. Terminata l’esecuzione i loro corpi furono cosparsi di benzina e bruciati. Poi, i partigiani oltraggiarono e cancellarono la scritta sulla pietra invocante Dio e la Madonna, posta sopra l’ingresso del convento. Infine, distrussero la biblioteca (circa 150 mila volumi), di grande valore storico. Il regime comunista jugoslavo proibì di far memoria dei consacrati. I loro corpi rimasero celati sotto terra per molti anni.[97]
Sempre il 7 febbraio 1945 vennero trucidati, a Mostarski Gradac, quattro sacerdoti e due chierici. Quattro giorni dopo, in un villaggio a nord-ovest di Široki Brijeg, un comandante partigiano ordinò di interrompere la celebrazione della messa. Furono prelevati e uccisi due religiosi ed un fratello laico. Secondo i più recenti studi si è arrivati a ritenere che determinate tragedie non si possono definire come conseguenza di circostanze casuali. Da più dettagli si individua un piano preordinato mirato ad attuare una persecuzione religiosa. Tale asserzione tiene conto anche di due fatti:
1) dall’inizio della guerra fino al 1944 furono eliminati quaranta sacerdoti e religiosi. Dopo la guerra (1945) i consacrati trucidati furono 120;
2) nessun miliziano comunista ha mai dovuto rispondere dei crimini commessi, anche se le uccisioni si verificarono in modo brutale e senza processo.

Qualche considerazione di sintesi

Le vicende considerate attraversano un periodo storico caratterizzato da eventi bellici e da politiche apertamente anti-religiose, e soprattutto anti-cattoliche. Alcuni autori, avendo omesso lo studio di diversi documenti desecretati in tempi recenti, hanno mantenuto uno schema che riunisce nella medesima analisi fatti di guerra (legati a operazioni belliche), e uccisioni di sacerdoti e di religiosi/e (motivati da politiche anti-ecclesiali).
1. Con il procedere del tempo, è stato dimostrato che il secondo conflitto mondiale (con le sue dinamiche, alleanze e operazioni territoriali) è da ascrivere a precise responsabilità di politici, di militari, di milizie non regolari, e di collaborazionisti. Le persecuzioni religiose, al contrario, così come quelle di molti civili non legati a vicende belliche, sono riconducibili a direttive provenienti da Belgrado.
2. La regìa jugoslava, e il maresciallo Tito in primis, considerava la Chiesa cattolica – specie la gerarchia ecclesiastica – una realtà da impoverire per poterla meglio controllare. Per tale motivo l’uomo forte del movimento partigiano non esitò ad impartire ai propri fiduciari delle linee operative mirate a dominare, eliminare e nascondere in fosse comuni anche figure di consacrati fedeli al Papa.
3. Furono numerosi i sacerdoti e le suore che, dal 1943 al 1948, persero la vita gettati nelle foibe insieme ad un imprecisato numero di persone, colpevoli di non essere vicine all’ideologia comunista e di essere italiane.
4. Gli studi storici hanno cercato di far luce su vicende che riguardano più consacrati. Indagini recenti hanno riguardato (oltre alle figure già citate):padre Antonio Curcio[98], don Giovanni Manzoni,[99] don Ladislav Lado” Piščanc[100], vicario di Circhina (Go), sei suore scomparse da un convento di Fiume e 76 religiosi di cui si ignora la fine, don Alojzij Obit del Collio[101], don Ludvik Sluga di Circhina[102], don Anton Pisk[103], don Filip Tercelj[104], don Izidor Zavadlav[105], don Raffaele Busi Dogali[106] e don Giovanni Pettenghi di Pavia[107], don Antonio Pisic[108], don Lodovico Sluga[109], il seminarista Erminio Pavinci[110], il parroco di Golazzo[111].
5. I successivi rivolgimenti che hanno caratterizzato l’area dei Balcani hanno spinto anche a relegare nell’oblio vicende dolorose o a unire tra loro dati storici diversi. È doveroso, oggi, fare luce su un periodo non facile da studiare. Tale impegno continua, in taluni casi, a dover affrontare delle salite, ma rimane comunque un atto di doverosa vicinanza a persone innocenti.

 

Note

[1] Josip Broz, detto Tito (1892-1980). Non è sicura la data della sua iscrizione al Partito Comunista. N. Beloff, Tito fuori dalla leggenda. Fine di un mito. La Jugoslavia e l’Occidente 1939-1986. Il libro proibito dal regime di Belgrado, Reverdito, Trento 1987.
[2] La Odeljenje za ZaštituNAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, in sigla OZNA, o Oddelek za zaščitonaroda, era parte dei servizi segreti militari jugoslavi. W. KlingerIl terrore del popolo. Storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Luglio Editore, Trieste 2015.
[3] Cf anche: F.T. Rulitz, Tragedy of Bleiburg and Viktring, 1945, DeKalb, NIU Press/Northern Illinois University Press, Champaign 2016.
[4] Tale espressione volutamente generica servì a perseguitare molti cattolici senza fornire riscontri oggettivi.
[5] Cf anche: A. Petacco, L’esodo. La tragedia negata, Mondadori, Milano 2000.
[6] Cf anche: O. Moscarda Oblak, La presa del potere in Istria e in Jugoslavia, in: ‘Quaderni’, volume XXIV, Centro di ricerche storiche-Rovigno 2013, pp. 29-61.
[7] Aleksandar Ranković (1909-1983). Capo dei Servizi segreti jugoslavi. Vicepresidente della Jugoslavia dal 1963 al 1966.
[8] Partito Contadino Croato.
[9] La frase è poco chiara. È probabile che Ranković suggerisca di estorcere confessioni sui quadri inferiori agli ‘esponenti di spicco’ conosciuti.
[10] La seconda sezione O.Z.N.A. si occupava, all’interno del territorio occupato dalle milizie di Tito,.di quanti avevano collaborato con i nemici dei titini.
[11] Si tratta di Vladimir Bakarić (1912-1983), capo dell’esecutivo della Croazia comunista.
[12] Il documento si trova in: Hrvatski Državni Arhiv [HDA], Zagreb, 1491, 2.49/3 – Krjiga poslanih i primljenih depeša od 27. IV. do 5. VI. 1945. Pubblicato ora in Zdravko Dizdar – Vladimir Geiger – Milan Pojić – Mate Rupić (a cura di), Partizanska i komuni-stička represija i zločini u Hrvatskoj 1944-1946. Dokumenti, Srijema i Baranje 2005, Slavonski Brod, Hrvatski institut za povijest – Podružnica za povijest Slavonije.
[13] W. Klinger, Il terrore del popolo: storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Italo Svevo, Trieste 2012, p. 160. Cfr. anche: M. Djilas, Se la memoria non mi inganna, Il Mulino, Bologna 1988, p. 305.
[14] Vaso Čubrilović (1897-1990). Divenne ministro dell’agricoltura e foreste nella Jugoslavia comunista di Tito. Fu poi consigliere di Slobodan Milošević (presidente della Serbia dal 1989 al 1997, e presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000).
[15] (PDF) Memorandum sulle minoranze etniche in Jugoslavia di Vasa Cubrilovic I Pietro Cappellari – Academia.edu.
[16] R. Elsie, Gathering Clouds. The Roots of Ethnic Cleansing in Kosovo and Macedonia. Early Twentieth-century Documents, Dukagjini Balkan Books, Dukagjini, Peja 2002, p. 70.
[17] Ivi, p. 70.
[18] M. Micich, La Seconda guerra mondiale a Fiume e dintorni, tre puntate, in: ‘Fiume’, Società generale della Società di Studi Fiumani, presidente dell’Associazione per la cultura fiumana istriana e dalmata nel Lazio, saggista per la rivista ‘Fiume’ dal 1995.
[19] Fonte jugoslava: Prikljućenje Istre Federalnoj državi Hrvatskoj u demokratskoj federativnoj Jugoslaviji (1943-1968), Sjevero Jadranski Institut, Jugoslavenske Akademije Znanosti u Umjetnosti, Rijkea 1968, “ Svi oni Talijani koji (su) se posljie 1918. godine doselili i Istru u svrhu odnarođivanja i izrabljivanja našeg naroda biti će vračeni u Italiju. O pojedinim slučajevima odlučivati će zato posebna komisija”, p. 194.
[20] Cf anche: G. La Perna, Pola – Istria – Fiume, 1943-1945. La lenta agonia di un lembo d’Italia, Mursia, Milano 1993.
[21] P. Zovatto, Mons. Raffaele Radossi. Vescovo di Parenzo e Pola (1941-1947). «Profugo giuliano», Luglio Editore, Trieste 2019.
[22]
Mons. Raffaele Radossi, Lettera di commiato, in: ‘La Nuova Voce Giuliana’, 1 maggio 2021, p. 3.
[23] Mons. Eugenio Ravignani (1932-2020).
[24] A. Corsi, Ricordo del vescovo Mons. Raffaele Radossi; con i ricordi di Mons. Bommarco, di Mons. Radole e altri, Unione degli Istriani, Trieste 2006. Le frasi cit. nel testo sono riprese da C. Antonelli, Il ricordo del vescovo Raffaele Radossi, in: ‘Il Piccolo’, 25.7.2006.
[25] AA.VV., Olocausti dimenticati, a cura di E. Longo, lulu.com, Morrisville 2016, p. 60.
[26] Cf anche: P. Triulcio, Monsignor Ugo Camozzo ultimo vescovo di Fiume italiana: tra guerra ed esilio, in: ‘Fiume’, 22 ottobre 2014.
[27] Mons. Carlo Jamnik (1891-1949). Decano di Torrenova. Fu Amministratore Apostolico di Fiume dal 1947 al 1949.
[28] Cit. in E. Varutti, Italiani di FiumepretiOzna e le carceri titineDon Janni Sabucco esule a Pisa. Blog di Elio Varutti: https://evarutti.wixsite.com/website.
[29] Ricordo di mons. Ugo Camozzo, in: ‘La Voce del Carnaro’, a cura della Lega Fiumana di Napoli, Firenze 1953, pp. 19-20.
[30] U. Camozzo, La lampada è accesa: …lunga giornata di un sacerdote e Vescovo, Pacini Mariotti, Pisa 1967.
[31] G.E. Lovrovich, Pietro Doimo Munzani arcivescovo di Zara, Tip. Santa Lucia, Marino 1978.
[32] Cf anche: M. Gasparini, C. Razeto, 1944. Diario dell’anno che divise l’Italia, Lit Edizioni, Roma 2014.
[33] Le autorità politiche erano consapevoli della grande autorità morale del presule, e della popolarità che godeva a Zara.
[34] M. Zerboni, Pietro Doimo Munzani. L’ultimo arcivescovo italiano di Zara ricordato a 60 anni dall’esodo (1947-2007), Italo Svevo, Trieste 2006.
[35] P. Zovatto, Mons. Antonio Santin e il razzismo nazifascista a Trieste (1938-45), Centro Studi Storico Religiosi, Quarto d’Altino 1977.
[36] A seguito delle approvazioni delle leggi razziali fasciste, mons. Santin affrontò lo stesso Mussolini per difendere gli ebrei e incontrò Pio XI (attaccato dal regime per frasi favorevoli agli ebrei).
[37] Tale Linea prese il nome dal generale William Duthie Morgan, ufficiale del generale Harold  Alexander, comandate delle forze alleate in Italia.
[38] https://www.centrostudifederici.org/mons-santin-e-la-preghiera-per-le-vittime-delle-foibe/.
[39] Mons. Carlo Margotti (1891-1951).
[40] Redazione, Il vescovo di Trieste aggredito a Capodistria, in: “L’Osservatore Romano”, 21 giugno 1947.
[41] Con rif. Alle omelie di mons. Santin cf anche: Antonio Santin. Parole agli esuli, a cura di don Ettore Malnati e di don Paolo Rakic, Casa Editrice: Archivi don Ettore Malnati, Trieste 2006.
[42] P. Zovatto, Mons. Antonio Santin… cit.
[43] Invocazione per le vittime delle Foibe di Mons. Santin (leganazionale.it).
[44] Don Pietro (Calvino) Damiani (1910-1997). Era un sacerdote di Pesaro.
[45] Dalla Germania, dalla Russia e dalla Jugoslavia.
[46] Erano ricercati talvolta anche dagli agenti segreti dell’OZNA di Tito fino all’interno del campo medesimo.
[47] A. Santin, Al tramonto: ricordi autobiografici di un vescovo, Edizioni Lint, Trieste 1979.
[48] P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, Luglio Editore, Trieste 2017; R. Ponis, Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede, Litografia Zenit, Trieste 2006.
[49] P. Zovatto, Preti perseguitati …, cit.
[50] Primo periodo di uccisioni di massa seguite al vuoto di potere legato al crollo politico, militare e istituzionale dell’8 settembre 1943.
[51] Cfr. M. Girardo, Sopravvissuti e dimenticati. Il dramma delle foibe e l’esodo dei giuliano-dalmati, Paoline, Milano 2006.
[52] P. Triulcio, Il primo martire delle foibe. Beato don Francesco Giovanni Bonifacio, in: Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pp. 549-568. P. Vanzan, Don Francesco Bonifacio Martire delle foibe, in La Civiltà Cattolica, 15 novembre 2008, pp. 357-366.
53] Nota anche come Crassizza.
[54] S. Galimberti, Don Francesco Bonifacio, presbitero e testimone di Cristo, MGS Press, Trieste 1998. M. Ravalico, Don Francesco Bonifacio. Assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio, AVE, Roma 2016.
[55] Mons. Jacob Ukmar (1878-1971). Era già stato designato amministratore apostolico per la parte della diocesi di Trieste e Gorizia destinata a passare alla Jugoslavia. Cf anche: A. Rebula, Jakob Ukmar, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992.
[56] I comunisti la chiamavano ‘il Vaticano’ per la fedeltà dei parrocchiani alla Chiesa cattolica.
[57] Don Stjepan (Stefan) Cek (1913-1985). Nel febbraio del 1946 si era rifiutato di firmare per l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia di Tito.
[58] Cf anche: F. Veraja, Miroslav Bulešić, Izdaje, Biskupija Porečka i Pulska, Poreč 2013.
[59] R. Ponis, In odium fidei…, op. cit., pp. 105-121. Cf anche: G. Tamburrino osb, I Benedettini di Daila e S. Onofrio in Istria: ultime vicende (1940-1950), Abbazia di Praglia, Praglia 2021.
[60] Don Giuseppe Della Valentina (1913-1993). Insegnò nel Seminario della diocesi di Concordia. Fu parroco di Vacile.
[61] Don Domenico Corelli (1912-2009). Nato a Bellei, nell’isola di Cherso (Quarnaro). Ordinato sacerdote nel 1937.
[62] Richiamato a Roma per proteggerlo.
[63] G. Strasiotto, Giorno del Ricordo 2010. Articolo pubblicato nel sito del Centro di Documentazione ‘Aldo Mori’, Portogruaro (VE).
[64] Mons. Giuseppe Dagri (1906-1964).
[65] Chiusura sezione della Democrazia Cristiana, epurazioni nelle fabbriche e negli uffici, devastazione della sede della Gioventù Cattolica e delle ACLI, provvedimenti contro le manifestazioni e cerimonie religiose (con limiti perfino al suono delle campane), allontanamento delle suore infermiere dal servizio prestato in ospedale.
[66] R. Ponis, In odium fidei. Sacerdoti in Istria. Passione e calvario, Edizioni ZENIT, Trieste 2006, pp. 147-158.
[67] J. Batelja, Croazia.Il cardinale Alojzie Stepinac e la prima fase della battaglia ideologica, in: ‘Testimoni della fede …’, cit., pp. 483-504.
[68]Stato Indipendente di Croazia (in croato: Nezavisna Država Hrvatska, abbreviato in NDH).
[69] Avvocato Ante Pavelić (1889-1959). Nato a Bradina (Bosnia-Erzegovina), morì a Madrid (Spagna).
[70] In questi campi molti internati morirono di torture o si suicidarono. Altri vennero lasciati morire di fame o di sfinimento.
[71] J. Krišto, Croazia. I procedimenti sommari delle autorità comuniste contro i religiosi, in Testimoni della fede… cit., pp. 505-516.
[72] V. Popić, Croazia.Il calvario delle donne di vita consacrata, in Testimoni della fede … cit., pp. 517-532.
[73] M. Jareb, Croazia.I laici e il regime comunista, in Testimoni della fede… cit., pp. 533-548.
[74] Mons. Alojzije Stepinac (1898-1960; beato). Nacque a Krašić (vicino Zagabria). Venne nominato arciv. coadiutore di Zagabria da Pio XI il 28 maggio del 1934. Fu consacrato vescovo il 24 giugno dello stesso anno dall’arciv. Anton Bauer (1856- 1937). Mons. Stepinac, il 7 dicembre 1937, successe a mons. Bauer come Ordinario diocesano. Nel 1953 fu creato cardinale da Pio XII.
[75] Il postulatore della causa di canonizzazione, mons. Juraj Bateljia ha riferito anche in merito a un possibile avvelenamento. Cf Adnkronos, 6 maggio 1998.
[76] Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła; 1920-2005; santo). Il suo pontificato durò dal 1978 alla morte.
[77] Hrvatska seljačka stranka, HSS.
[78]Vladko Maček (1879-1964). Avvocato e politico. Nel marzo del 1941 non accettò la proposta nazista di diventare il leader politico di uno Stato indipendente croato. Si ritirò a vita privata.
[79] Mons. Giuseppe Ramiro Marcone (1882-1952). Religioso benedettino. Divenne abate di Montevergine nel 1918. Mantenne tale incarico fino al 1952.
[80] Il secondo arresto avvenne il 18 settembre del 1946.
[81] P.L. Guiducci, Dossier Stepinac. Alojzije Stepinac (1898-1960). Un arcivescovo tra ustaše, cetnici, nazisti, fascisti e comunisti, Albatros, Roma 2018.
[82] T. Vukšić, I martiri ritrovati. I partigiani di Tito, il regime comunista e la persecuzione dei cattolici nella Bosnia-Erzegovina dal 1941 al 1952, in Nuova Storia Contemporanea, n. 1, gennaio-febbraio 2008, pp. 45-65.
[83] M. Krešić, Bosnia Erzegovina. I fedeli laici, in Testimoni della fede… cit., pp. 465-481.
[84] Mons. Tomo Vukšić (nato nel 1954). Arcivescovo coadiutore di Sarajevo.
[85] T. Vukšić, Op.cit.
[86] Don Vide Putica (1858-1942).
[87] R. Perić, Bosnia Erzegovina. I vescovi, in Testimoni della fede…cit., pp. 387-404.
[88] Mons. Ivan Šarić (1871-1960).
[89] Mons. Petar Čule (1898-1985). Ordinato sacerdote a Sarajevo il 20 giugno 1920. Fu anche amministratore apostolico di Trebinje-Mrkan dal 1942 al 1980. Oppositore del regime ustaša nello Stato Indipendente di Croazia, aiutando a salvare i serbi perseguitati e i dissidenti politici.
[90] Đ. Kokša, (1991), Društveno-političke prilike u vrijeme dra Petra Čule [Societal-political circumstances during the time of Petar Čule, PhD]. In: A. Luburić, R. Perić (eds.), ‘Za Kraljevstvo Božje – Život i djelo nadbiskupa dra Petra Čule [For the Kingdom of God - The life and work of Archbishop Petar Čule, PhD] (in Croatian). Mostar: Biskupski ordinarijat Mostar.
[91] Mons. Smiljan Franjo Cekada (1902-1976). Era nato a Donji Vakuf (Bosnia). Fu ordinato sacerdote nel 1925.
[92] A. Orlovac, Bosnia Erzegovina. I sacerdoti diocesani, in Testimoni della fede... cit., pp. 405-423. M. Semren, Bosnia Erzegovina. I religiosi uccisi e perseguitati, in Testimoni della fede…cit., pp. 425-444. N. Palac, Bosnia Erzegovina. Le religiose, in Testimoni della fede…cit., pp. 445-464.
[93] Don Waldemar Maksimilijan Nestor (1888-1941; Servo di Dio).
[94] ‘Nestor Waldemar Maximilian’, in Testimoni della fede…cit., pp. 406, 411-412, 469.
[95] Don Juraj Gospodnetić (1910-1941; Servo di Dio).
[96] ‘Gospodnetić Juraj’, in: ‘Testimoni della fede…’, cit., pp. 406, 410-411.
[97] A. Nikić, Stradanja Hrvata u Hercegovini po franjevačkim izvješćima: 1942-1944, ‘Život i svjedočanstva: Zavičajna knjižnica’, vol. 46, Mostar, Franjevačka knjižnica i arhiv, 1992, 380 p. (A. Nikić, Le sofferenze dei croati in Erzegovina secondo Franciscan Reports: 1942-1944, ‘Life and Testimonies: Native Library”, vol. 46, Mostar, Franciscan Library and Archives, 1992, 380 p.).
[98] P. Antonio Curcio ofm. Parroco di Bencovaz (Dalmazia). Gli fu affidata l’assistenza religiosa dell’XI Regg. Bersaglieri.
[99] Don Giovanni Manzoni. Parroco di Rava (Sebenico) fu ucciso il 18 ottobre del 1944.
100] Don Ladislav “Lado” Piščanc (1914-1944).
[101] Don Alojzij Obit del Collio. Scomparve nel gennaio del 1944.
[102] Don Ludvik Sluga di Circhina. Assassinato insieme con altri 13 suoi parrocchiani nel febbraio del 1944.
[103] Don Anton Pisk. Di Tolmino. Scomparso e poi verosimilmente infoibato nell’ottobre del 1944.
[104] Don Filip Tercelj. Di Aidussina. Fu sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio del 1946 e successivamente scomparso.
105] Don Izidor Zavadlav. Di Vertoiba. Arrestato e fucilato il 15 settembre 1946.
[106] Don Raffaele Busi Dogali (1912-1942). Ordinato sacerdote nel 1937. Cappellano. Poi parroco. Gli fu affidata l’assistenza religiosa dell’XI Regg. Bersaglieri. Pugnalato a morte il 15 giugno del 1942 in Dalmazia.
[107] Don Giovanni Pettenghi. Di Pavia. Gli fu affidata l’assistenza religiosa del 311° Reggimento Fanteria. Pugnalato a morte il 2 agosto del 1942, in Dalmazia.
[108] Don Antonio Pisic (1886-1945). Assassinato il 31 gennaio 1945.
[109] Don Lodovico Sluga. Ucciso con altre dodici persone.
[110] Erminio Pavinci. Da Chersano (Fianona). Seminarista. Ucciso con il padre (Matteo).
[111] Il parroco di Golazzo (diocesi di Fiume) fu prelevato dai titini il 14 agosto 1947 mentre accompagnava un funerale.

Ringraziamenti
Dott. Marino Micich, Specialista in Slavistica, Direttore dell’Archivio Museo di Studi Fiumani (Roma), Segretario dell’Associazione di Studi Fiumani, Autore di numerosi saggi sul confine orientale italiano, sulle problematiche legate all’esodo e alle foibe, e sull’inserimento degli esuli istriani e dalmati nel tessuto sociale italiano.
Avv. Paolo Sardos Albertini, Presidente della Lega Nazionale di Trieste (Trieste). La Lega Nazionale gestisce per conto del Comune di Trieste due importanti musei cittadini: il Centro di documentazione del Sacrario della Foiba di Basovizza e il Civico Museo del Risorgimento e Sacrario di Oberdan.
Presidenza Associazione delle Comunità Istriane (Trieste).

Per saperne di più
A. Ballarini, G. Stelli, M. Micich, E. Loria, Venezia Giulia Fiume Dalmazia. Le foibe, l’esodo, la memoria, Associazione per la Cultura Fiumana Istriana e Dalmata nel Lazio, Roma 2010.
F. BiloslavoM. Carnieletto, Verità infoibate. Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica, Signs Publishing, Victoria (Australia) 2021.
E. Burich, Esperienze di un esodo, in: “Fiume, rivista di studi fiumani”, XI, n. 3-4, luglio-dicembre 1964, pp. 97-182.
M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo, Esodi: trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000.
F. Dal Mas, Nuovi terribili particolari sugli eccidi commessi dal regime nell’ex-Jugoslavia tra il 1941 e il 1952, soprattutto a Sarajevo e Mostar. Tito, la mattanza dei cristiani, in: “Avvenire”, 4 marzo 2008, p. 23.
M. Dassovich, M. Codan, L. Drioli, R. Gerichievich, A.S. Gomiero, G. Gorlato, Sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia, Fachin Editore, Trieste 1997.
P.L. Guiducci, La questione religiosa nel secondo dopoguerra. Le persecuzioni del clero e dei religiosi in Istria e nell’area balcanica, in: “Fiume”, rivista di studi adriatici (nuova serie), 43, novembre-dicembre 2020 n. 11-12 – gennaio 2021 n. 1, pp.75-98.
M.A, Marocchi, Rose per l’Istria, Fiume e la Dalmazia, Book Sprint Edizioni, Romagnano al Monte 2018.
B. Matkovich, Croatia and Slovenia at the End and After the Second World War (1944-1945) Mass Crimes and Human Rights Violations Committed by the Communist Regime, BrownWalker Press, Irvine, Boca Raton USA 2017.
V. Mercante, Il cardinale Alojzije Stepinac. Nella Croazia degli ustascia e nella Jugoslavia di Tito, Luglio Editore, Trieste 2018.
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S.M. Paci, Intervista con il cardinale Franjo Kuharic, in “30 Giorni. Nella Chiesa e nel mondo”, n. 2, 1999.
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J. Sabucco, si chiamava Fiume, Edizioni Centro Italia, Perugia 1953.
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R. Toncetti, Tra gli orrori della guerra in Istria, a cura di M. Jelenić, Parrocchia di San Biagio, Dignano 2007.
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