POLITICAL WARFARE, LA GUERRA ATTRAVERSO IL “MEZZO SOCIALE”

di Massimo Iacopi -

Quando le rivalità di potenza aumentano, il limite fra la guerra e la pace si smorza in una serie di scontri al di sotto della soglia del fuoco. Gli Anglosassoni hanno un nome per questa categoria di conflitto, la political warfare.

 

Nel 1941 i Britannici creano il Political Warfare Executive (PWE), dipartimento segreto destinato a minare il morale e la resistenza del nemico attraverso varie forme di propaganda. Oltre alle operazioni di propaganda classica, questo organismo elabora operazioni complesse destinate a modellare il comportamento dei dirigenti avversari grazie a uno studio metodico del loro carattere. A partire dal 1942 la Psychological Warfare Division anglo-americana favorisce la diffusione del “saper fare” specifico britannico oltre Atlantico. Washington crea, nello stesso anno, la Psychological Warfare Branch e l’Office of War Information (OWI) per “minare la volontà di resistenza nemica, per demoralizzare le sue forze e per contrastare le operazioni contro la capacità di mantenere elevato il morale” delle popolazioni favorevoli agli Alleati. Prima della fine della guerra, l’OWI riceve il compito di rendere popolare l’American dream e il modo di vita che ne deriva, nei paesi dell’Asse. Al contrario dei metodi di propaganda totalitari, esso non cerca di atrofizzare lo spirito critico, ma piuttosto a sedurre l’opinione pubblica, alimentandola con informazioni oggettive e scelte. Si tratta di un successo, indubbiamente facilitato dal timore che ispirano i Russi.

Una guerra coperta

Una volta messa in letargo la pace ritrovata, questo approccio sociale e psicologico del combattimento va incontro a un nuovo slancio durante la Guerra fredda. Esso si inquadra ormai in un contesto più ampio. Lo studioso statunitense George Frost Kennan espose quella che è diventata la definizione di riferimento della political warfare in una nota segreta, oggi declassificata, del 4 maggio 1948: “L’applicazione logica dei principi di Clausewitz in tempo di pace” (continuazione della guerra con altri mezzi). Più in generale, la political warfare riguarda l’impiego di tutti i mezzi a disposizione di una nazione, a eccezione della guerra, per conseguire i suoi obiettivi, per accrescere la sua influenza e la sua autorità e per indebolire gli avversari. Tali operazioni sono, allo stesso tempo, coperte e/o manifeste. Il campo d’azione si estende ad azioni aperte, quali le alleanze politiche, le misure economiche (come i programmi di riforme economiche) e la propaganda “bianca” (proveniente cioè da una fonte chiaramente identificabile), fino a operazioni coperte, come il sostegno clandestino di elementi stranieri “amici”, le operazioni psicologiche “nere” e anche il supporto ai movimenti di resistenza sotterranei negli Stati ostili.
Kennan (1) non inventò la definizione né il suo oggetto, che abbiamo visto essere invece di origini britanniche. Ed è all’applicazione di questi principi che egli attribuisce “la creazione, il successo e la sopravvivenza” dell’impero.
Quando definisce la political warfare, Kennan, è cosciente che gli Americani devono superare diversi blocchi culturali: “l’attaccamento popolare al concetto di una differenza fondamentale fra la guerra e la pace”; ”una tendenza a considerare la guerra come una specie di situazione sportiva distinta da tutto il contesto politico”; “una reticenza a riconoscere le realtà delle relazioni internazionali”. Essi, tuttavia, vi riescono rapidamente grazie alla volontà e alla facoltà d’adattamento che li caratterizza. Le loro prime operazioni coperte avvengono a partire dalla fine degli anni ’40 “allo scopo di minare la forza dei mezzi stranieri – che si tratti di governi, di organizzazioni o di individui, che sono impegnati in attività non amichevoli verso gli USA -, e a sostenere la politica estera degli Stati Uniti, influenzando l’opinione pubblica all’estero in un senso favorevole alla realizzazione degli obiettivi degli USA”. Queste operazioni segrete inglobano “tutti i mezzi di informazione e di persuasione a esclusione della costrizione fisica”. Ispirandosi alla cultura britannica, gli Americani apportano più largamente “una risposta integrata alle minacce diverse dalla guerra convenzionale”. Vale a dire che l’insieme delle loro azioni politiche o militari, ma anche di tipo economico o culturale, si accordano in una visione strategica globale. Il loro principale teatro d’attività è l’Europa occidentale.
La CIA finanzia discretamente la sinistra non comunista per tagliare l’erba sotto i piedi di Mosca. L’agenzia interviene in occasione delle elezioni generali italiane del 1948 a vantaggio dei democratici-cristiani contro i comunisti. In Francia, favorisce la creazione di un sindacato, Force Ouvriere, al fine di dividere le forze della CGT. Nel resto del mondo impiega le ONG e l’aiuto umanitario (specialmente l’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, voluta nel 1961 da John Fitzgerald Kennedy) come vettori di influenza politica.
Gli Stati Uniti favoriscono la nascita di un ecosistema sociale a loro favorevole. Il Piano Marshall, se consente la ricostruzione dell’Europa, determina anche la sua messa sotto tutela, contrastando. nel contempo e magistralmente. la propaganda sovietica. Le masse, costrette a scegliere, optano per la società dei consumi, preferendola alla lotta di classe. La CIA conduce parallelamente operazioni di guerra economica coperta, campo nel quale gli americani raggiungono rapidamente l’eccellenza, interessando un largo spettro che va dallo spionaggio industriale, alla predazione finanziaria, passando per le informazioni economiche.
Infine, un’offensiva culturale senza precedenti prepara l’americanizzazione dell’Europa. Nel 1949 il filosofo americano Sidney Hook propone di rieducare l’Europa. Ma occorre procedere con prudenza nelle società democratiche aperte, perché hanno sviluppato “una forte immunità contro la propaganda”. Di conseguenza, le operazioni di informazioni americane “dovranno essere le più silenziose e sottili e il marchio USA non dovrà generalmente essere visibile”. La CIA si mette all’opera appoggiandosi all’Ufficio Informazioni Internazionali e degli Affari Culturali. L’agenzia finanzia così una politica d’influenza diretta sugli intellettuali europei per mezzo del “Congresso per la libertà e la cultura” e di sue diverse riviste, nelle quali scrivono alcuni dei più autorevoli filosofi e politologi. La CIA arriva ad assicurare “la promozione delle esposizioni d’arte espressioniste astratte per contrare il realismo socialista”, assimilando l’astrazione “all’ideologia della libertà e della libera impresa”. Attraverso un rovesciamento pianificato e condotto con efficacia, l’immaginario americano si libera delle sue radici europee: New York rimpiazza Parigi e altre importanti città come capitale intellettuale e artistica del mondo.
Quando la Guerra fredda si conclude, Washington è riuscita nella più formidabile operazione di political warfare della storia. L’URSS è crollata. L’Europa è invece bloccata in una sorta di “cultura della dipendenza”. Diversi decenni di penetrazione psicologico-politica l’hanno convinta della sua incapacità, o meglio della sua illegittimità ad assumere un’autonomia strategica, mentre la subordinazione strutturale dei suoi strumenti di difesa la confinano al ruolo di elemento suppletivo degli USA.

Political warfare oggi

Dopo la decomposizione dell’URSS gli americani hanno considerato la superiorità del loro modello come un fatto acquisito. Non essendo più possibile alcuna rimessa in discussione sistemica del modello in vigore, credevano che si potesse allentare la political warfare a vantaggio della difesa dei loro interessi economici a breve termine.
Il ritorno della Russia sulla scena internazionale e la messa in esecuzione della dottrina Gerasimov (dal nome del generale russo che l’ha concepita; prevede una strategia militare che combina la sfera militare, tecnologica, informativa, diplomatica, economica, culturale e altre tattiche per il raggiungimento di obiettivi strategici), li hanno trovati spiazzati. A dire il vero, la dottrina Gerasimov, o New Generation Warfare, risulta, in primo luogo, la riappropriazione e la modernizzazione del saper fare perduto, più che una vera e propria innovazione. Essa si basa sulla convinzione che le regole della guerra sono profondamente cambiate. Il ruolo degli strumenti non militari per conseguire obiettivi politici e strategici è cresciuto e in molti casi ha superato il potere delle armi in termini di efficacia. Le guerre delle nuove generazioni necessitano, in tale contesto, di un approccio olistico (integrato in tutte le sue componenti) che abbracci una serie di strumenti politici, militari, informativi ed economici. Ben lungi dal minimizzare l’importanza della potenza militare, tale dottrina afferma “l’importanza della somma degli strumenti non cinematici ed asimmetrici”. La gestione russa della crisi di Crimea, nel 2014, ne costituisce una perfetta dimostrazione.
I Russi hanno identificato la vera posta delle sfide di potenza contemporanee. Pubblicato nel 2016, il loro “concetto di politica estera” proclama che “la lotta per il dominio nella formazione dei principi chiave d’organizzazione del futuro sistema internazionale diventa la tendenza principale della tappa attuale dello sviluppo mondiale”. In tal modo, ”la concorrenza riguarda non solo il potenziale umano, scientifico e tecnologico, ma acquisisce sempre di più un carattere di civiltà, assumendo la forma di rivalità fra riferimenti assiologici (che si riferiscono a una scala di valori o sono fondati su un giudizio di valore)”. Solo che Mosca non dispone più della formidabile forza d’attrazione ideologico dell’URSS. Il suo modello socio-economico non risulta tale da sedurre le folle. Anche in termini informazionali (cioè, con particolare riferimento all’informatica e alla teoria dell’informazione), i Russi sono diventati apparentemente meno pericolosi di quanto si potesse immaginare. Privilegiando la disinformazione e la propaganda nell’epoca dell’informazione aperta, essi espongono la loro credibilità a lungo termine in favore di alcuni vantaggi immediati e alquanto dubbiosi. Essi non sono più capaci di strutturare l’immaginario o di riprogrammare l’obliquità cognitiva di un bersaglio come ai tempi dell’URSS – il romanzo di Vladimir Volkoff, Il montaggio, pubblicato nel 1982 sulla base dei consigli del capo dei servizi di sicurezza esterni e controspionaggio francesi (SDECE), conte Alexandre de Marenches, fornisce un’idea di quello che essi potevano realizzare a quel tempo. La Russia è ormai ridotta a impiegare modalità di guerra ibrida, certamente destabilizzanti, ma non strutturali. Essa può attaccare le società rivali, o anche contribuire alla loro disarticolazione. Ma le sue capacità in termini di political warfare sono troppo limitate per rimodellarle (2).
La minaccia cinese è stata, al contrario, sottostimata per lungo tempo. Gli Americani avrebbero dovuto leggere La guerra fuori dai limiti, un importante volume in cui due ufficiali superiori dell’esercito popolare cinese annunciavano il tempo delle guerre non militari già alla fine degli anni ’90. La Cina ha tessuto la sua tela con progressività e grande discrezione. Essa si è imposta nelle strutture internazionali, come l’OMC (Organizzazione mondiale del commercio), nelle quali si è abilmente infiltrata. Quando necessario, essa ha creato strutture ad hoc, come la Banca asiatica d’investimenti per le infrastrutture, che fa concorrenza diretta al Fondo Monetario Internazionale, sotto influenza americana.
Alla libertà, considerata come anarchica, la Cina oppone il contro-modello dell’armonia, associato al suo formidabile sviluppo economico. Essa ha studiato i suoi rivali per condizionarne i comportamenti. Gli Americani e le più alte sfere del governo del mondo economico o accademico si sono rivelati di una sorprendente vulnerabilità alle manipolazioni psicologiche della Repubblica Popolare Cinese. Gli Stati Uniti, di fronte a queste minacce, hanno deciso di reinvestire nella political warfare. Le forze armate americane stanno giocando un ruolo importante in questa presa di coscienza. L’US Army risulta all’origine di un fondamentale rapporto del 2018 della RAND Corporation sull’argomento (3), mentre l’US Marine Corps ha pubblicato nel 2020 uno studio sulla political warfare cinese e i mezzi per controbilanciarla. Il nuovo concetto strategico britannico, articolato intorno all’integrazione multisettore e dell’ingaggio sotto la soglia del fuoco nella competizione globale, evidenzia ugualmente una svolta decisiva al fine di condurre la political warfare nel modo più efficace.

Tre guerre concorrenti e separate

Contrariamente all’idea comune, la guerra moderna non consiste più nell’uccidere gli individui avversi. Paradossalmente, l’obiettivo è quello opposto. Essa ha come scopo di ridurre un’entità strategica a una somma di individui privi di volontà collettiva. E’ proprio con questa logica che si comprende il trittico competizione-contestazione-scontro evidenziato all’inizio nella dottrina Gerasimov. Esso non designa un ciclo di preparazione, quindi di degradazione delle relazioni e infine di scontro. Le tre sfere sono concomitanti ma distinte e il modo di operare e di combattere differisce in ognuna.
Per riprendere il vocabolario del filosofo Immanuel Kant, il sistema strategico contemporaneo si articola in Fenomeno e Noumeno. Il Fenomeno strategico corrisponde agli effetti prodotti da una società o da un gruppo ed è associabile a una conseguenza. Il Noumeno strategico, invece, ingloba gli elementi costitutivi di un gruppo o di una società in quanto tali, designandone la loro natura profonda e causale.
La guerra con le armi rappresenta la risposta cinetica a uno scontro diretto. Il suo paradigma è l’urto. Essa tratta i fenomeni materiali, sensibili. I suoi principi sono quelli delle crisi classiche fra gli Stati o fra uno Stato e una organizzazione o un gruppo. Gli attori sono chiaramente individuabili come amici e nemici che si cerca di distruggere fisicamente l’avversario.
Come evocato dal loro nome, le guerre ibride si posizionano nell’intersezione del Fenomeno e del Noumeno, in un quadro di contestazione. In esse si assiste allo svolgimento di combattimenti indiretti in zone di tensione, spesso per mezzo di proxys, per non provocare un’escalation militare. Pechino impiega largamente questo tipo di coercizione nel Mar della Cina meridionale, occupando gli spazi marittimi con le sue flotte da pesca e organizzando alcuni scogli corallini in zone marittime contestate in isole artificiali occupate militarmente. La fase di contestazione è indiretta, ma si gioca fra attori identificati in zona delimitate. Essa oppone alleati e avversari che cercano di darsi fastidio e di neutralizzarsi vicendevolmente.
La political warfare, invece, si applica alla fase di competizione, che è il nuovo stato normale delle relazioni internazionali. Essa risale alle cause e punta alla modifica della natura profonda del bersaglio. Riguarda i meccanismi in sé stessi più che le loro conseguenze. Il suo obiettivo è il Noumeno strategico; esso non risponde a un atto ostile ma ne interdice l’espressione, ovvero la competizione. Agisce sull’identità, la volontà, le convinzioni, il credo, le capacità di analisi e i comportamenti sociali del bersaglio. Il suo paradigma è l’architettura strategica. Multidominio, non è riducibile a un quadro geografico o a limiti temporali. Estranea alle categorie classiche amico/nemico, conosce solo attori e bersagli per modellare a proprio vantaggio le strutture relazionali e cognitive del suo ambiente in un contesto di competizione globale.
Il concetto di political warfare non è facile da tradurre in italiano, in quanto le espressioni di guerra politica o guerra psicologica sono troppo restrittive. In Europa alla fine degli anni ’50 si sono cominciati a studiare gli insegnamenti della Guerra d’Indocina e della “guerra nell’ambiente sociale”. Dove l’ambiente sociale era inteso nel suo senso più ampio, ovvero come l’insieme delle interazioni umane. In ogni caso, sembra che la traduzione più corretta della political warfare dovrebbe essere la “guerra attraverso il mezzo sociale”, complemento indispensabile della guerra ibrida e della guerra attraverso le armi. Se i suoi risultati sono meno spettacolari rispetto ad un bombardamento, i suoi effetti sono più durevoli e decisivi, poiché essi vengono a determinare una situazione in luogo di reagire a delle conseguenze. La guerra attraverso il mezzo sociale non costituisce uno scontro di fioretti spuntati, ma una vera e propria guerra totale, spesso non dichiarata.

Note
(1) Kennan George Frost, The Inauguration of organized political Warfare, nota segreta del 30 aprile 1948.
(2) Congressional Research Service: Russian Armed Forces: Military Doctrine ad Strategy, 20 agosto 2020.
(3) Linda Robinson, Todd C. Helmus, Raphael S. Coen, Alireza Nader, Andrew Radin, Madeline Magnuson, Katia Migacheva, Modern Political Warfare. Current Practices and Possible Responses – RAND Corporation, Santa Monica California, 2018.
(4) Gershanek Kerry G., Political Warfare. Strategies for combating China’s Plan to “Win without Fghting” – Marine Corps University Press, Quantico, Virginia, 2020.