OBIETTIVO DE GAULLE: L’ATTENTATO DEL PETIT-CLAMART

di Roberto Poggi -

Il 22 agosto 1962 il presidente francese Charles de Gaulle sfugge miracolosamente a un doppio attentato alle porte di Parigi. Chi sono gli esecutori? Chi i mandanti? Il cerchio attorno al commando si chiude nel giro di poche settimane. Nella rete finisce tutta la struttura organizzativa, formata da esponenti dell’estremismo antigollista e guidata un ufficiale di belle speranze, Jean-Marie Bastien-Thiry. Il loro obiettivo: eliminare il “tiranno” colpevole di aver abbandonato l’Algeria francese.

(Da Storia in Network nn. 198 e 199, aprile e maggio 2013) In una Parigi quasi deserta, oppressa dall’afa agostana, l’auto presidenziale sfrecciava a novanta chilometri all’ora diretta all’aeroporto militare di Villacoublay. A breve distanza la seguiva un’auto di scorta con a bordo un medico e tre agenti speciali, chiudeva il corteo una coppia di poliziotti in motocicletta pronti ad intervenire per sciogliere eventuali ingorghi stradali.
Per prendere parte al consiglio dei ministri, quel mercoledì 22 agosto 1962, il generale de Gaulle, insieme alla moglie Yvonne e al genero, il colonnello Alain de Boissieu, aveva lasciato di buon mattino la quiete della Boisserie, la sua residenza a Colombey-les-Deux-Eglises, immersa tra le colline boscose dell’Alta Marna, e intendeva farvi ritorno prima di notte. Né il tesissimo clima politico, né l’attentato subito un anno prima a Pont-sur-Seine, né gli inviti del ministro degli Interni, che in più occasioni gli aveva fatto presente quanto fosse arduo garantire la sua sicurezza nei continui spostamenti tra Parigi e la Boisserie, erano riusciti a convincere il generale a modificare le sue abitudini, a rinunciare alle passeggiate nei boschi e al raccoglimento del suo studio da cui poteva vedere l’orizzonte perdersi tra le colline.

I fori dei proiettili nella parte posteriore dell'auto

I fori dei proiettili nella parte posteriore dell’auto

Poco prima delle 20, il corteo presidenziale aveva lasciato l’Eliseo e aveva seguito il percorso più rapido e diretto verso l’aeroporto. Quella scelta non era passata inosservata. A bordo della Citroën DS presidenziale, invece, nessuno, nella luce incerta del crepuscolo, fece caso su Avenue de la Libération a un uomo con un cappello grigio che sventolava un giornale sopra la testa. Era il segnale convenuto per aprire il fuoco.
Da un furgoncino Renault Estafette giallo, parcheggiato sul lato destro della strada, nel senso di marcia del corteo presidenziale, partirono all’improvviso alcune raffiche di armi automatiche. L’autista del presidente, il maresciallo Francis Marroux, non si lasciò impressionare dal crepitio dei proiettili e affondò il piede sull’acceleratore per sfuggire alla linea di tiro degli attentatori. L’esplosione di due pneumatici fece sbandare l’auto, ma non impedì a Marroux di tenere la strada e aumentare la velocità.
Superato l’iniziale stupore, il generale e sua moglie furono pronti nell’eseguire l’ordine di abbassarsi urlato dal genero. Quella prontezza fu provvidenziale. Un centinaio di metri oltre il furgone giallo, all’incrocio con rue du Bois, una Citroën DS blu s’immise a tutta velocità tra l’auto presidenziale e quella di scorta, mitragliandole entrambe sino alla rotonda del Petit-Clamart, per poi svanire in direzione di Parigi.
Furono esplosi più di centocinquanta proiettili, ma solo sei raggiunsero la vettura presidenziale. Uno frantumò il vetro laterale sinistro, attraversò l’interno del veicolo e squarciò la carrozzeria sopra il sedile posteriore destro, a una decina di centimetri dalla testa di madame de Gaulle. Un altro penetrò all’altezza della targa, attraversò il baule per conficcarsi nello schienale del sedile posteriore sinistro, dove sedeva il generale. L’auto di scorta fu centrata quattro volte. Il casco di uno dei motociclisti fu colpito di striscio, così come il portabagagli della seconda motocicletta.
Per miracolo tutti uscirono incolumi da quella tempesta di fuoco. Soltanto un automobilista che transitava, in compagnia della moglie e dei tre figli, in senso contrario al corteo presidenziale fu lievemente ferito all’indice da una scheggia staccatasi dal volante nell’impatto con una pallottola vagante.

Giunto all’aeroporto di Villacoublay, de Gaulle passò in rassegna il picchetto d’onore. Poi, imperturbabile, osservando la sua auto crivellata commentò: “Questa volta era tangente! Fortunatamente quelli là sparano come dei porci!”. Sua moglie ancora scossa per lo scampato pericolo esclamò: “Spero che i polli non si siano fatti nulla!”. Non aveva sprecato la sua giornata parigina: prima di lasciare l’Eliseo aveva fatto sistemare nel baule un paio di polli acquistati in previsione del soggiorno alla Boisserie.
Fin dalle prime indagini non vi furono dubbi sulla matrice dell’attentato. La scelta dell’obiettivo, la tecnica militare impiegata dal commando, la considerevole potenza di fuoco, le cui tracce erano ben visibili in avenue de la Libération (il tappeto di bossoli sull’asfalto, le facciate dei palazzi crivellate di proiettili, la terrazza di un bar e la vetrina di un negozio di apparecchi radio-televisivi devastate), orientarono i sospetti degli inquirenti in una precisa direzione. Il ritrovamento, circa un’ora dopo il duplice agguato, del furgoncino Estafette giallo fornì ulteriori conferme alle prime congetture. All’interno del veicolo abbandonato, insieme a fucili mitragliatori, munizioni, bengala e granate, fu rinvenuto un potente congegno esplosivo plastico, firma inconfondibile degli irriducibili, quanto disperati, combattenti per l’Algeria francese.
Negli ultimi mesi, da quando la politica favorevole all’autodeterminazione dell’Algeria, promossa dal generale de Gaulle, con il pieno sostegno della maggioranza dei francesi, era giunta alla sua fase culminante, i plasticages, gli attentati al plastico, prima limitati ad Algeri e Orano, si erano moltiplicati sul territorio francese, seminando il terrore. Tra il 15 ed il 21 gennaio del 1962 si erano registrati quaranta attentati al plastico, venticinque dei quali alla periferia di Parigi nella sola notte del 18 gennaio, altri trentatré tra il 22 ed il 28 dello stesso mese, ancora trentaquattro tra il 5 e l’11 febbraio. Un crescendo di terrore senza precedenti, ma ancora ben lontano dall’emulare la violenza che stava insanguinando l’Algeria, dove nel solo mese di gennaio del 1962 si erano verificati oltre ottocento attentati, perpetrati dalle diverse fazioni in lotta. Nella prima quindicina del febbraio successivo gli attentati erano stati 507, provocando 256 morti 490 feriti.

La principale responsabile di questo bagno di sangue era l’OAS, l’Organisation de l’Armée Secrète, costituita nel febbraio del 1961 da alcuni leader ultras dell’attivismo pro Algeria francese, come Jean-Jacques Susini, animatore dell’estrema destra del movimento studentesco, Pierre Lagaillarde, ex deputato di Algeri, con il sostegno di un generale infedele, Raoul Salan, disposto a contrastare con ogni mezzo, incluso il terrore, la politica gollista di “abbandono” dell’Algeria.
Dopo il fallimento del tentativo di colpo di stato, organizzato nell’aprile del 1961 dai generali Salan, Jouhaud, Zeller e Challe con la speranza di determinare la caduta di de Gaulle e con essa l’accantonamento di ogni ipotesi di negoziato con Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino, l’OAS aveva dato inizio a una escalation di azioni terroristiche. Ad Algeri e Orano aveva scatenato la sua ferocia soprattutto sui militanti dell’FLN, sulla popolazione musulmana – colpendo spesso indiscriminatamente – e sulle forze dell’ordine decise a restare fedeli agli ordini di Parigi. Sul territorio metropolitano aveva preso di mira: sedi istituzionali e di partito, banche, esponenti politici, sia gollisti che di sinistra, giornalisti, intellettuali che si erano schierati a favore dell’indipendenza algerina, come Jean-Paul Sarte, o che non erano rimasti immuni al carisma del generale de Gaulle, come Maurice Duverger.
Accecata dall’odio, l’OAS colpiva privilegiando la rapidità di esecuzione rispetto alla pianificazione. Questa approssimazione aveva salvato la vita ad alcune delle sue vittime, come Sartre e Duverger, altre volte aveva generato atrocità tanto assurde da essere controproducenti sul piano politico, persino in un’ottica di terrore generalizzato. Una carica di plastico piazzata erroneamente sotto le finestre dell’alloggio sottostante a quello del ministro della Cultura André Malraux, un fedelissimo del generale, aveva sfigurato e accecato una bambina di quattro anni, sollevando un’ondata di indignazione nei francesi di ogni schieramento. L’imponente manifestazione di “difesa repubblicana”, indetta a Parigi dalla sinistra, nonostante il divieto delle autorità, per denunciare la “minaccia fascista” dell’OAS, si era conclusa con un bilancio non meno tragico di quello del fallito attentato al ministro Malraux. Per sottrarsi alle brutali cariche della polizia, una parte della folla in preda al panico si era accalcata nell’angusta scala di accesso alla stazione Charonne della metropolitana. Intrappolata tra una cancellata forse sbarrata e la furia dei poliziotti, alcuni dei quali non avevano esitato a scagliare pesanti griglie di ferro divelte dal selciato e dalle aiuole attorno agli alberi del viale, la massa dei dimostranti in fuga aveva calpestato e ucciso nove persone. I feriti erano stati decine.

OASTra tutti i bersagli dei fanatici difensori dell’Algeria francese il più ambito era la “Grande Zohra”, come i pieds-noirs, i francesi d’Algeria, soprannominavano con disprezzo il generale de Gaulle. In tutto il Nordafrica i cammellieri si rivolgevano affettuosamente ai loro animali chiamandoli Zohra, un nome femminile piuttosto comune, anche nei postriboli algerini. Il dileggio lasciava intravvedere un odio viscerale. Rappresentando de Gaulle come uno stupido cammello condotto da un arabo, oppure come una allampanata e ammiccante odalisca, con tanto di kepì, baffi e naso pronunciato, pronta a prostituirsi, i pieds-noirs intendevano scacciare dal suo piedistallo l’eroe che il 18 giungo 1940 aveva salvato l’onore della Francia. Ai loro occhi, il “più illustre dei francesi” non era altro che uno spregevole traditore dei suoi doveri costituzionali, oltreché delle promesse politiche con cui aveva inaugurato il suo mandato, e in quanto tale meritava una condanna a morte.
L’Algeria non era una colonia, uno dei tanti possedimenti di un impero un tempo immenso, ma parte integrante del territorio nazionale. Nei dipartimenti algerini, assegnati alla competenza del ministero degli Interni fin dal 1896, viveva oltre un milione di francesi, insieme a circa dieci milioni di musulmani. Alle due comunità non erano riconosciuti pari diritti, tuttavia entrambe risiedevano sul suolo della repubblica francese. La costituzione del 1946 aveva sancito che l’Algeria era la Francia: Algeri, Orano e Costantina erano città francesi esattamente come Parigi, Marsiglia o Lione. Anche soltanto ventilare l’ipotesi di cedere parte del territorio nazionale costituiva una palese violazione dell’articolo 85, che definiva la repubblica francese “una e indivisibile”, pur riconoscendo la sussistenza delle collettività territoriali: comuni, dipartimenti e territori d’oltremare.
Nel tentativo di dare una parvenza legale ai loro propositi omicidi, gli attivisti pieds-noirs non si stancavano di ripetere che anche la nuova costituzione, voluta nel 1958 dal generale de Gaulle, riaffermava il principio dell’unità della repubblica e assegnava al suo presidente il compito di garantirne l’indipendenza e l’integrità. Al di là della violazione dei principi costituzionali, ciò che i pieds-noirs non potevano perdonare alla “Grande Zohra” era di aver ingannato la loro fiducia, di aver subdolamente sfruttato il loro entusiastico appoggio per poi consegnare la loro terra, un lembo della repubblica francese, al Fronte di Liberazione Nazionale algerino (FLN).

Nel maggio del 1958, il pronunciamento dei vertici militari in Algeria era stato determinante per porre fine all’agonia della quarta repubblica e riportare de Gaulle al potere. Dopo la caduta, alla metà di aprile, del governo guidato da Felix Gaillard, i partiti si erano mostrati incapaci di esprimere una maggioranza in parlamento e un premier. Sia Georges Bidault, sia René Pleven avevano finito per rifiutare l’incarico di formare un nuovo esecutivo. In questo vuoto di potere, che mostrava tutta la fragilità della quarta repubblica, i vertici militari ad Algeri avevano scorto la possibilità di imporre una politica di difesa ad oltranza dei dipartimenti d’oltremare. Molti nei ranghi dell’esercito temevano che l’inettitudine della classe politica rischiasse di creare le condizioni per una nuova Dien Bien Phu (la battaglia che nel 1954 aveva segnato la definitiva disfatta francese nella guerra d’Indocina), questa volta in territorio francese.
Il timore che una sconfitta sul campo, generata dall’incapacità dei politici di assumere decisioni nette, di rinunciare alle schermaglie parlamentari per servire gli interessi superiori della patria, vanificasse tutto il sangue versato per mantenere l’Algeria in seno al territorio nazionale, si intrecciava per un verso con gli imperativi posti dalla guerra fredda e per un altro con la necessità di difendere la vita e il patrimonio della popolazione pieds–noirs.
Nella valutazione dello stato maggiore ad Algeri, se il movimento indipendentista algerino fosse riuscito a prevalere, sfruttando a suo favore l’impasse del sistema politico, la flotta sovietica non avrebbe impiegato molto tempo a sostituirsi a quella francese a Mers-el-Kébir e oltre un milione di pieds-noirs si sarebbero trovati a dover scegliere tra la valigia e la bara.
A condizione di essere sostenuto con coerenza e determinazione dalla classe politica, l’esercito era convinto di poter vincere la guerra scatenata a partire dal novembre 1954 dall’FLN. In caso contrario, la sconfitta sarebbe stata inevitabile e durissima per i francesi d’Algeria.

La notizia dell’imminente conferimento dell’incarico di formare un nuovo governo al centrista Pierre Pflimlin, ben noto per la sua posizione favorevole a una soluzione negoziata della questione algerina, aveva convinto lo stato maggiore ad Algeri a rompere gli indugi, facendo leva sugli attivisti pieds-noirs. Il 13 maggio 1958 una imponente manifestazione indetta ad Algeri dalle associazioni degli ex combattenti e dai comitati di difesa dell’Algeria francese per commemorare tre militari uccisi dall’FLN – mentre a Parigi sembrava affermarsi la linea favorevole al negoziato, anticamera dell’abbandono – si era trasformata, sotto l’occhio benevolo dell’esercito, in un assalto alla sede del governo, a cui era seguito l’insediamento di un comitato di salute pubblica che aveva assunto i pieni poteri civili e militari.
Benché il comandante in capo delle truppe in Algeria, Raoul Salan, pluridecorato reduce dall’Indocina e fervente anticomunista, incarnasse meglio di chiunque altro tutti gli spettri che agitavano lo stato maggiore e l’esercito (cioè la nascita di uno stato filosovietico nel mediterraneo e la diaspora di un milione di pieds-noirs), la presidenza dell’improvvisato comitato insurrezionale era stata assegnata al generale Jacques Massu, in considerazione della sua immensa popolarità.
Nell’arco di pochi mesi, a partire dal gennaio del 1957, Massu, al comando della decima divisione paracadutisti, aveva stroncato ad Algeri l’attività terroristica dell’FLN, restituendo ai pieds-noirs la speranza che la “rivolta” potesse essere domata. Per vincere la battaglia di Algeri non aveva esitato ad avallare esecuzioni sommarie e a fare un ricorso sistematico alla tortura dei prigionieri. In Francia la sua feroce determinazione aveva suscitato sdegno in larghi settori dell’opinione pubblica. Oltremare molti l’avevano considerata pienamente giustificata dai risultati ottenuti.

Né la formazione del gracile governo Pflimlin, né l’appello alla lealtà verso le istituzioni democratiche rivolto all’esercito dal presidente della repubblica Coty avevano potuto arrestare la proliferazione dei comitati di salute pubblica sul territorio algerino. La spirale del caos politico aveva continuato a crescere, creando un clima di tensione che lasciava presagire una imminente prova di forza. Nelle stanze del potere avevano incominciato a diffondersi le voci di un’operazione denominata in codice “Resurrezione” con cui i generali di Algeri contavano di assumere il controllo militare di Parigi. Mentre il “tintinnio delle sciabole” si faceva sempre più intenso e sinistro, le parole pronunciate ad Algeri dal generale Salan alla folla assiepata davanti al palazzo del governo avevano aperto uno spiraglio per una soluzione incruenta e legale della crisi: “La vittoria è la sola via della grandezza francese. Io sono dunque con voi, con tutti voi. Viva la Francia! Viva l’Algeria francese! Viva il generale de Gaulle!”.
Alle invocazioni di Salan, de Gaulle aveva indirettamente risposto con un comunicato dal tono sovrano, affermando la propria disponibilità ad assumere la guida della repubblica. Non volendo incrinare la sua immagine super partes, si era però guardato bene dall’esprimere solidarietà agli insorti di Algeri. Aveva puntato l’indice contro il sistema politico, senza tuttavia auspicare o giustificare nessuna azione eversiva, in modo da consentire ai vertici istituzionali di incanalare la crisi nei rituali costituzionali. Di fronte all’indecisione dei partiti e all’impazienza dei militari non aveva perso la calma e non aveva cercato di forzare i tempi. Si era invece preoccupato di fornire rassicurazioni sia agli Stati Uniti che all’opinione pubblica francese. Aveva riservato il privilegio di conoscere le sue vere intenzioni sul futuro dell’Algeria soltanto all’alleato americano. Se i pieds-noirs e i golpisti di Algeri avessero conosciuto il suo pensiero si sarebbero resi conto quanto le loro speranze di una difesa ad oltranza dello status quo fossero mal riposte. In via riservata, attraverso fidati portavoce, il generale aveva fatto sapere all’ambasciata americana di non voler mettere in discussione la partecipazione francese alla NATO, di non avere velleità autoritarie, di non essere coinvolto nel complotto algerino e di avversare ogni ipotesi di politica repressiva in Algeria, sperando di convincere l’esercito a salvare il salvabile nei dipartimenti d’oltremare oppure ad accettare la creazione di una sorta di Commonwealth dell’Africa del nord.

De Gaulle ad Algeri dopo aver pronunciato il suo enigmatico “Io vi ho capito!”

De Gaulle ad Algeri dopo aver pronunciato il suo enigmatico “Io vi ho capito!”

All’opinione pubblica, in una affollata conferenza stampa convocata al Palais d’Orsay il 19 maggio 1958, de Gaulle aveva dichiarato di non avere alcuna intenzione di intraprendere all’età di sessantasette anni la carriera del dittatore, evocando la sua indomita battaglia per l’affermazione dei principi liberali e democratici calpestati dal regime di Vichy.
Anche in assenza di una aperta condanna da parte del generale delle tentazioni sediziose che serpeggiavano nell’esercito, le forze politiche, ad eccezione dei comunisti e di alcune personalità dell’area socialista e centrista, avevano finito per vincere le loro resistenze, preferendo le credenziali democratiche dell’uomo del 18 giugno a quelle dei paracadutisti di Massu e di Salan, che ormai anche la stampa giudicava, non senza motivo, sul punto di irrompere nelle sedi istituzionali della capitale.
Prima le dimissioni del governo Pflimlin, poi il conferimento a de Gaulle, a larga maggioranza parlamentare, dei pieni poteri per affrontare la questione algerina e dare una nuova costituzione alla repubblica avevano definitivamente annullato l’operazione “Resurrezione”, ma non avevano fugato tutti i timori dei pieds-noirs e degli ufficiali golpisti.
Accanto a de Gaulle avevano trovato posto al governo uomini del vecchio regime come il socialista Guy Mollet e lo stesso Pflimlin, mentre erano stati esclusi alcuni ferventi sostenitori dell’Algeria francese come Bidault.
Come primo atto da capo del governo de Gaulle era voltato quindi ad Algeri, per non alienarsi il sostegno di chi più di ogni altro gli aveva spianato la strada verso il potere e la possibilità di riscrivere la costituzione, incidendo la piaga del parlamentarismo. L’accoglienza era stata trionfale, militari, pieds-noirs e persino numerosi musulmani lo avevano acclamato come un salvatore. Al cospetto di una folla immensa che pendeva dalle sue labbra, il generale aveva rinunciato alla franchezza per adottare una formula cinicamente ambivalente: “Io vi ho capito!”. Senza rivelare, come aveva fatto con l’alleato americano, i suoi disegni sul futuro dell’Algeria, aveva lasciato intatti i sogni di ciascuno, in ossequio alla massima secondo cui non si esce dall’ambiguità che a proprio danno. Non aveva voluto deludere neppure il sogno dell’integrazione franco-algerina, affermando: “Qui non ci sono che dei francesi a parte intera… . Per questi dieci milioni di francesi, i loro voti conteranno come quelli di tutti gli altri”. A Mostaganem, contagiato dall’entusiasmo della folla o forse tradito dalla stanchezza, si era persino lasciato sfuggire un “Viva l’Algeria francese!”.

Nell’immediato, l’eloquenza ed il carisma del generale si erano rivelati efficacissimi nel suscitare consensi. Chiamati alle urne, pieds-noirs e musulmani avevano approvato a larga maggioranza, nel settembre del 1958, la costituzione della quinta repubblica che delineava una inedita forma di governo semipresidenziale, attribuendo al capo dello stato la condivisione del potere esecutivo con il primo ministro, la facoltà di sciogliere le camere, di sospendere il normale funzionamento del sistema costituzionale in caso di grave minaccia all’integrità e all’indipendenza della nazione, di sottoporre direttamente all’approvazione popolare disegni di legge concernenti l’organizzazione dello stato. L’annuncio, in occasione di un discorso pronunciato a Costantina all’inizio di ottobre del 1958, di un piano di investimenti per lo sviluppo delle infrastrutture algerine e per la scolarizzazione dei giovani musulmani era stato interpretato come una prova della volontà del generale di non separare i destini dei francesi che vivevano sulle opposte sponde del Mediterraneo.
Le illusioni dei pieds-noirs erano però ben presto svanite, lasciando il posto alla rabbia e al rancore non appena de Gaulle aveva incominciato a mostrare tutto il suo pragmatismo. Alla fine delle stesso mese di ottobre del 1958, nel corso di una conferenza stampa, aveva offerto ai ribelli dell’FLN la “pace dei coraggiosi”, ponendo come unica condizione per l’avvio delle trattative la deposizione delle armi.
Salan e i suoi ufficiali, con il pieno sostegno degli attivisti pieds-noirs, non avevano contemplato nessuna soluzione alla crisi algerina diversa dall’annientamento della rivolta guidata dall’FLN. Pertanto, la parola pace, pronunciata dall’uomo che credevano avrebbe combattuto sino alla vittoria finale – e quindi al ristabilimento dello status quo, seppur con qualche apertura all’integrazione tra francesi e musulmani -, li aveva colti di sorpresa e indignati. Avevano tuttavia ritenuto più prudente non insorgere contro de Gaulle, dal momento che la stessa situazione politica gli impediva di attuare il suo disegno. L’FLN infatti aveva rifiutato sdegnosamente l’offerta di pace e aveva intensificato la sua attività militare e terroristica. Benché il generale Salan avesse espresso con molta circospezione la sua ostilità, il governo aveva comunque provveduto a neutralizzare la sua influenza sediziosa sulle truppe schierate in Algeria, assegnandogli il prestigioso incarico di comandante della regione militare di Parigi.

Nel corso del 1959 i rapporti tra de Gaulle, i militari di Algeri e i pieds-noirs avevano continuato a deteriorarsi, senza tuttavia giungere a una rottura definitiva. In pubblico, il generale, eletto nel dicembre del 1958 presidente della repubblica da un collegio di grandi elettori, era sfuggente a proposito dell’Algeria, rifiutava gli slogan, lasciava intendere di ritenere impraticabili soluzioni che guardassero al passato, ma non si impegnava a chiarire sino in fondo il suo pensiero. Nell’aprile del 1959, al deputato Pierre Laffont, direttore di un quotidiano di Orano, aveva dichiarato: “L’Algeria di papà è morta. Se non lo capiamo, moriremo con lei”. Invitava a guardare al futuro, ma non aveva ancora messo una pietra tombale sul sogno dell’Algeria francese. A rendere ancor più indecifrabili le sue allusioni avevano contribuito le dichiarazioni del primo ministro, Michel Debré, che enfatizzavano l’indissolubilità del legame tra Francia e Algeria.
Soltanto nel settembre del 1959, de Gaulle aveva finalmente dissipato ogni dubbio rivolgendosi direttamente ai francesi dagli schermi televisivi. Dopo aver illustrato gli incoraggianti segnali di ripresa economica registrati nei diciotto mesi dal suo ritorno al potere, aveva affrontato la questione algerina rompendo il tabù dell’autodeterminazione: “In nome della Francia e della repubblica, in virtù del potere che la Costituzione mi attribuisce di consultare i cittadini, con la protezione di Dio e con l’obbedienza della nazione, mi impegno a domandare da un lato agli algerini, nei loro… dipartimenti, cosa vogliono finalmente diventare, dall’altro a tutti i francesi di ratificare questa scelta qualunque essa sia”. Pur ribadendo che anche in caso di secessione dei dipartimenti d’oltremare la Francia avrebbe protetto, a beneficio di tutto l’occidente, i suoi interessi petroliferi nel Sahara, de Gaulle aveva declassato l’Algeria francese da principio irrinunciabile a quesito referendario. Per non indebolire troppo la sua posizione di fronte all’FLN non aveva fissato una data per la consultazione popolare, ma aveva innescato un processo il cui esito, data la proporzione di uno a dieci tra pieds-noirs e musulmani, appariva scontato.

Zeller, Jouhaud, Salan e Challe, i generali autori dell'attentato

Zeller, Jouhaud, Salan e Challe, i generali autori dell’attentato

Moltissimi francesi, stanchi di temere per la vita dei propri figli chiamati a combattere un’insensata e anacronistica guerra coloniale contro l’FLN, avevano accolto le parole del generale come l’annuncio della fine di un incubo. Pur tra distinguo, cautele e crisi di coscienza, i leader di tutto l’arco costituzionale avevano finito per approvare la svolta nel senso dell’autodeterminazione algerina. Incurante dell’isolamento politico, Bidault si era invece affrettato a raccogliere attorno a sé una pattuglia parlamentare per la difesa dell’Algeria francese e del principio dell’integrazione della comunità musulmana. I pieds-noirs avevano gridato al tradimento, trovando nell’esercito un’ampia, anche se inizialmente discreta, solidarietà. Le voci di un nuovo pronunciamento militare erano giunte sino a Parigi. Nel gennaio del 1960, il generale Massu, nel corso di un’intervista rilasciata a un giornale tedesco, aveva apertamente confermato lo smarrimento dell’esercito rispetto alla nuova politica algerina, gettando ombre sulla fedeltà di ufficiali e soldati. Difronte ad una presa di posizione così provocatoria ed eversiva, de Gaulle aveva immediatamente reagito rimuovendo Massu dal comando del corpo d’armata di Algeri.
L’allontanamento dell’ufficiale che rappresentava l’ultimo baluardo dell’Algeria francese contro la politica gollista dell’abbandono aveva suscitato la violenta protesta dei pieds-noirs che, sobillati da leader come Lagaillarde, Susini e Ortiz, avevano invaso le vie del centro di Algeri e innalzato barricate. Mentre l’esercito, agli ordini del generale Challe, si era limitato cautamente ad avviare trattative con i capi della rivolta, la gendarmeria aveva tentato di liberare le strade, ma era stata respinta dopo intensi scontri a fuoco che avevano causato venti morti (quattordici agenti e sei pieds-noirs) e circa centocinquanta feriti. Nonostante il sangue versato, alcuni reggimenti di paracadutisti dispiegati per dare l’assalto alle barricate avevano finito per fraternizzare con i pieds-noirs, ponendo il governo centrale in una posizione delicatissima.
Dopo alcuni giorni di incertezza, in cui il rischio di un colpo di stato militare appariva imminente, de Gaulle era riuscito a risolvere la crisi a proprio favore, affidandosi ancora una volta al suo carisma. Indossata l’uniforme, si era rivolto dagli schermi televisivi ai francesi per condannare la rivolta e richiamare tutti i soldati al loro dovere di obbedienza alla legittima autorità. Il suo appello non era caduto nel vuoto. Ufficiali e truppa avevano proceduto in buon ordine allo sgombero delle barricate. Lagaillarde e Susini erano stati arrestati, Ortiz invece si era messo in salvo fuggendo in Spagna.

La settimana delle barricate di Algeri anziché indebolire de Gaulle l’aveva rafforzato, offrendogli il pretesto da un lato per allontanare dai centri di potere i politici, i funzionari e gli ufficiali sospettati di simpatie verso la causa dei pieds-noirs, dall’altro per ottenere dall’assemblea nazionale, ai sensi dell’articolo 38 della costituzione, la facoltà di legiferare tramite decreto sulle questioni relative alla difesa dell’ordine pubblico ed alla salvaguardia dello stato. Anche la popolarità del generale aveva raggiunto lo zenit. Secondo i sondaggi, circa il 75% dei francesi aveva approvato il suo operato.
Dopo aver consolidato, presso l’opinione pubblica e all’interno delle istituzioni la sua posizione, de Gaulle si era preoccupato di rinsaldare i legami di fedeltà dell’esercito, recandosi, nel marzo del 1960, a visitare le truppe di stanza in Algeria. Di fronte a ufficiali e soldati aveva spiegato l’importanza di ottenere una netta vittoria sull’FLN per costringerlo ad accettare il principio di autodeterminazione dell’Algeria, il solo che potesse preservare una qualche forma di legame tra le due sponde del Mediterraneo: “La bandiera francese sventolerà ancora a lungo, siatene certi, ad Algeri. L’indipendenza sarebbe nello stesso tempo una catastrofe, una sciocchezza, una mostruosità. Sono gli algerini che decideranno. Io credo che diranno: ‘una Algeria algerina legata alla Francia’.” Le sue esortazioni, benché si prestassero a interpretazioni opposte, non erano state inefficaci. L’esercito aveva rinnovato il suo slancio, procedendo rapidamente alla pacificazione pressoché completa delle regioni di Algeri e di Orano.
Forte dei successi militari conseguiti, de Gaulle nel giugno del 1960 aveva aperto a Melun, un piccolo comune nella regione parigina, le trattative con i rappresentanti dell’FLN. Ma i negoziati, falliti sul nascere, avevano offerto agli attivisti dell’Algeria francese, in carcere o latitanti, nuovi argomenti per accusare de Gaulle di tradimento, infiammando l’odio dei pieds-noirs. Bidault aveva definito l’apertura di un dialogo con il nemico una “cupa follia”. All’indomani del suo pensionamento, il generale Salan, divenuto presidente dell’associazione dei combattenti dell’Unione francese, aveva incominciato a muovere critiche così dure alla politica gollista da indurre il governo a vietargli di stabilirsi ad Algeri. Alla fine di ottobre del 1960, dopo un’infiammata conferenza stampa in compagnia di Bidault e del generale Zeller, Salan si era trasferito in Spagna, dove era entrato in contatto con la dirigenza del movimento estremista dei pieds-noirs.

Nonostante l’epurazione dei più accesi simpatizzanti dell’Algeria francese seguita alla settimana delle barricate, l’esercito non era rimasto indifferente alla radicalizzazione dell’opposizione di Salan, a cui molti ufficiali attribuivano un nobile significato patriottico.
Come sua abitudine, de Gaulle non si era lasciato intimidire né dagli anatemi degli estremisti, né dalle avvisaglie del crescente disagio dei militari, tuttavia non aveva ignorato la crescente pressione dell’opinione pubblica, soprattutto di sinistra, a favore di una rapida conclusione della guerra. Nel novembre del 1960, in occasione di uno dei suoi frequenti discorsi televisivi alla nazione, aveva annunciato la convocazione di un referendum sul principio di autodeterminazione, evocando per la prima volta la futura costituzione di una repubblica algerina indipendente. L’improvvisa accelerazione impressa al processo di autodeterminazione aveva suscitato una nuova e più impetuosa ondata di risentimento nelle file dei sostenitori dell’Algeria francese e negli ambienti militari. Il maresciallo Alphonse Juin, l’eroe della campagna d’Italia, profondamente legato alle sue origini algerine, aveva pubblicamente rotto la sua cinquantennale amicizia con de Gaulle e aveva espresso la sua piena solidarietà a Salan e Jouhaud, entrati ormai in semi clandestinità.
In vista della consultazione popolare il generale si era recato in Algeria dove era stato accolto da violentissime contestazioni da parte dei pieds-noirs in preda all’esasperazione. Il servizio di sicurezza aveva sventato a Orléansville un attentato contro la sua persona. Un altro complotto, ideato dal generale Jouhaud per rapire il capo dello stato e giustiziarlo dopo un processo sommario, era fallito prima ancora di essere attuato. Anche la comunità musulmana aveva colto l’occasione della visita presidenziale per scendere nelle piazze a far sentire le proprie invocazioni all’FLN e all’indipendenza. I cortei dei pieds-noirs e quelli dei musulmani si erano affrontati nelle strade di Algeri, di Orano e di altri centri minori. Gendarmeria ed esercito non avevano esitato a sparare sulla folla per riportare l’ordine. Il bilancio degli scontri era stato di un centinaio di morti, per lo più musulmani.

Manifesto dell'OAS

Manifesto dell’OAS

Il generale aveva continuato la sua campagna elettorale dagli schermi televisivi, dichiarandosi pronto a dimettersi dal suo incarico in caso di sconfitta. Il voto popolare dell’8 gennaio 1961 aveva confermato la piena fiducia dei francesi nella politica presidenziale. Grazie alla massiccia partecipazione dei musulmani, il “sì” aveva trionfato anche in Algeria. Soltanto nelle grandi città il “no” dei pieds-noirs si era fatto sentire.
L’inequivocabile risultato delle urne da una lato aveva incoraggiato de Gaulle a riprendere i negoziati con l’FLN, dall’altro aveva spinto i partigiani dell’Algeria francese verso la lotta armata e il terrorismo. Poche settimane dopo il referendum, l’avvocato liberale Pierre Popie, colpevole di essersi espresso pubblicamente a favore dell’indipendenza algerina, era stato pugnalato da un paio di sicari arruolati nelle file del Fronte dell’Algeria Francese (FAF), una rete clandestina organizzata dall’industriale André Canal, detto “Le Monocle”, in quanto cieco da un occhio.
Mentre ad Algeri il terrorismo mieteva le sue prime vittime, a Madrid venivano definite le strategie per proseguire la lotta per l’Algeria francese. Nel dicembre del 1960, approfittando dei benefici delle libertà provvisoria, i leader dell’estremismo pieds-noirs, Susini e Lagaillarde, in attesa di giudizio per i crimini commessi durante la settimana delle barricate, erano fuggiti da Parigi per riparare in Spagna e offrire a Salan di unire le forze per la causa comune. Da questo accordo, nel febbraio del 1961, era nata l’OAS, l’ultima e più fragile delle organizzazioni estremiste, ma non per questo meno sanguinaria. Già in marzo si era conquistata la ribalta uccidendo, con due cariche di esplosivo plastico piazzate presso la sua abitazione, il sindaco di Evian, Camille Blanc. Una punizione esemplare per non essersi rifiutato di ospitare nella sua città i negoziati tra il governo francese e l’FLN.
Nella strategia dell’OAS e degli altri gruppuscoli oltranzisti, il terrorismo era lo strumento per rallentare ed intralciare il processo di autodeterminazione algerino avviato da de Gaulle, mentre la sollevazione dell’esercito era quello per bloccarlo definitivamente.

In qualità di ex comandante delle truppe in Algeria, di ufficiale più decorato delle forze armate, di leader riconosciuto degli ex combattenti, Salan si era illuso di poter convincere l’esercito a mettere in atto un colpo di stato per destituire de Gaulle. Dopo un avvio incoraggiante, la saldatura tra estremisti pieds-noirs ed esercito, come già era avvenuto nel gennaio 1960, era sfumata. Il 21 aprile 1961, alcuni reparti di paracadutisti delle legione straniera avevano assunto il controllo dei centri nevralgici di Algeri: la sede del governo, il municipio, l’aeroporto e i depositi di armi. I generali Challe, Zeller e Jouhaud si erano rivolti alla popolazione annunciando di aver preso il potere per rispettare il giuramento dell’esercito di mantenere francese l’Algeria. Rientrato in tutta fretta ad Algeri dalla Spagna, Salan era stato acclamato dalla folla.
All’Eliseo nel frattempo de Gaulle aveva mantenuto il suo sangue freddo, arrivando persino, durante un consiglio dei ministri, a ironizzare su quanto stava accadendo nella città bianca: “Il fatto più grave in questa vicenda è che non si tratta di una cosa seria”. Neppure rivolgendosi ai francesi dagli schermi televisivi aveva rinunciato a ridicolizzare i capi della congiura, descrivendoli come un pugno di generali in pensione accecati dall’ambizione, dal fanatismo e dalla pochezza delle loro capacità. Alla derisione, de Gaulle aveva fatto seguire l’annuncio dell’assunzione dei pieni poteri, ai sensi dell’articolo 16 della costituzione, e l’esortazione a tutti i francesi, a cominciare da quelli in uniforme, a rispettare il loro giuramento di fedeltà alla repubblica. I soldati di leva, che costituivano la maggioranza del contingente di stanza in Algeria, avevano riconosciuto in quelle parole la voce della legittima autorità e avevano isolato i generali golpisti a cui non era rimasto che il dilemma tra la resa e la fuga. Challe e Zeller avevano optato per la prima, Salan e Jouhaud per la seconda.

Il fallimento del putsch dei generali aveva privato gli estremisti della loro arma più efficace, costringendoli a concentrare nel terrorismo e nell’insurrezione dei pieds-noirs le loro speranza per salvare il sogno dell’Algeria francese, che con l’avvio dei negoziati di Evian pareva destinato a svanire in breve tempo. La necessità di agire in fretta e la profondità della delusione per la sconfitta subita avevano fatto da catalizzatore. I gruppuscoli dell’estremismo prima dispersi erano confluiti nell’OAS, che sotto la guida di Salan si era dotata di una struttura efficace e determinata. Il colonnello Yves Godard, esperto di guerra psicologica, ispirandosi al modello di struttura clandestina rivoluzionaria rappresentato dall’FLN, aveva plasmato l’OAS su di un organigramma suddiviso in tre rami: organizzazione delle masse, azione diretta e propaganda. Salan, affiancato da uno stato maggiore composto dai capi dei tre rami e da un servizio informazioni gestito da Godard, si era riservato la guida dell’organizzazione. Al generale Jouhaud era sta affidata la responsabilità di dirigere l’OAS nella zona di Orano.
Il ramo azioni, sotto la guida del medico Jean-Claude Pérez, fondatore di uno dei primi gruppi di auto difesa dei pieds-noirs contro le azioni terroristiche dell’FLN, e di Roger Degueldre, un ufficiale disertore della legione straniera destinato a conquistarsi la fama di “genio del terrorismo urbano”, si era distinto per il suo dinamismo, dando macabra concretezza allo slogan: “L’OAS colpisce chi vuole, dove vuole, quando vuole!”. Ogni esplosione che dilaniava un nemico dell’Algeria francese, ogni colpo di pugnale che abbatteva un presunto traditore della patria aveva contribuito a risollevare il morale dei pieds-noirs, riaccendendo le loro speranze di riuscire a preservare terra, averi, identità e memorie.
Il responsabile del ramo propaganda, Susini, aveva saputo sfruttare i successi ottenuti sul campo dagli spietati commando di Degueldre per fare proseliti tra i pieds-noirs e alimentare il mito dell’invincibilità dell’OAS. Talvolta l’audacia, più ancora della violenza o del fragore delle esplosioni, si era rivelata efficace per conquistare la mente e i cuori dei pieds-noirs. Nell’agosto del 1961, l’OAS aveva offerto una dimostrazione clamorosa della sua onnipotenza inserendosi sulle frequenze della radio di stato per diffondere un invito alla ribellione contro la dittatura gollista.

L’OAS si era rapidamente ramificata anche a Parigi e nel resto della Francia, grazie alla fanatica abnegazione di un altro ex ufficiale della legione straniera, Pierre Sergent. Benché potesse contare su di un organico molto più ridotto rispetto a quello algerino, su modeste capacità di fare proselitismo e soprattutto su di un sostegno molto limitato nell’opinione pubblica, la rete metropolitana dell’OAS già nell’estate del 1961 si era resa responsabile di decine di attentati esplosivi ogni mese, mostrando capacità offensive tanto sviluppate da poter minacciare il nemico numero uno dell’Algeria francese.
All’inizio di settembre del 1961, una dichiarazione rilasciata dal generale de Gaulle riguardo al riconoscimento, fino ad allora ostinatamente negato, del carattere algerino del Sahara aveva sbloccato il negoziato con l’FLN, giunto a una fase di stallo. La replica dell’OAS a quest’ultimo cedimento, che prefigurava la nascita di uno stato algerino pienamente sovrano, svincolato da qualsiasi tutela francese rispetto allo sfruttamento delle immense risorse del Sahara, non si era fatta attendere.
La sera dell’8 settembre 1961, in prossimità di Pont sur Seine, il corteo presidenziale diretto dall’Eliseo alla Boisserie era stato investito dalla violenta esplosione di un ordigno nascosto in un mucchio di sabbia, posto al margine della strada in previsione delle gelate invernali. In seguito all’onda d’urto, l’auto sui cui viaggiava il generale in compagnia della moglie aveva sbandato, poi aveva attraversato indenne una barriera di fiamme alte fino al cielo che ingombrava la carreggiata. La destrezza al volante del maresciallo Marroux aveva contribuito a salvare la vita della coppia presidenziale non meno dell’imperizia degli attentatori. Infatti la carica di circa quaranta chili di esplosivo, stipata in una bombola di gas, nascosta per una settimana sotto il mucchio di sabbia, era stata in gran parte neutralizzata dall’umidità. La violenza dell’esplosione, pur ridotta del 90% del suo potenziale distruttivo, era comunque riuscita a innescare un bidone di liquido infiammabile, collocato dagli attentatori a poca distanza dall’ordigno per amplificarne gli effetti.

Ad azionare il comando a distanza di quella bomba difettosa era stato Martial de Villamandy, un ex speaker di radio Saigon che aveva abbracciato con entusiasmo la causa dell’Algeria francese. La polizia era giunta al suo arresto nell’arco di poche ore. Allontanandosi dal luogo dell’esplosione, Villamandy aveva perso il controllo della sua auto, impantanandosi in un fosso. Un contadino, Daniel Pillet, che percorreva quel viottolo di campagna in sella a un ciclomotore gli aveva prestato aiuto. Per sdebitarsi Villamandy si era sentito in dovere di invitare il suo soccorritore a bere un bicchiere al caffè del Centro di Pont sur Seine, dove tutti gli avventori erano intenti a commentare il misterioso boato udito pochi minuti prima. Villamandy aveva bevuto in fretta il suo bicchiere e si era accomiatato con mille ringraziamenti. Pillet aveva sorseggiato più lentamente, poi, spinto dalla curiosità, si era diretto in compagnia di un amico verso il luogo dell’esplosione. Lungo la strada avevano incontrato un posto di blocco. Non potendo proseguire si erano messi a conversare con gli agenti della gendarmeria e avevano finito per raccontare di quel forestiero liberato dal fango a poca distanza dalla strada nazionale mentre si aggirava al buio, senza meta tra campi e boschi. Quel racconti non aveva lasciato indifferenti i gendarmi.
Nel frattempo Villamandy, dopo aver constatato che tutte le strade in uscita da Pont sur Seine erano bloccate, aveva ritenuto più prudente ritornare al caffè e mescolarsi agli avventori, particolarmente numerosi in quella sera dedicata al santo patrono. La gendarmeria allertata da Pillet non aveva impiegato molto tempo prima di passare a dare un’occhiata al caffè del Centro. Una rapida ispezione all’auto di Villamandy era stata sufficiente per scoprire una prova schiacciante. Nel bosco che fiancheggiava la strada nazionale, accanto al detonatore era stata rinvenuta una custodia che corrispondeva perfettamente al binocolo in bella mostra sul cruscotto dell’auto di Villamandy. Di fronte all’evidenza, l’ex speaker di radio Saigon non si era fatto pregare troppo per denunciare i suoi complici: Henry Manoury, Bernard Barance, Jean-Marc Rouvière, Dominique Cabane de la Prade e Armand Belvisi. Della mente operativa dell’attentato non aveva potuto svelare altro che il nome di battaglia: “Germain”.

Armand Belvisi al momento del suo arresto il 30 maggio 1962

Armand Belvisi al momento del suo arresto il 30 maggio 1962

Tra tutti i membri del commando, soltanto Belvisi era riconducibile alla rete metropolitana dell’OAS, diretta dal capitano Sergent. Sull’ipotesi di assassinare il capo dello stato il gruppo dirigente dell’OAS si era spaccato. Pérez, Susini, Sergent e Godard si erano dichiarati favorevoli, ritenendo che la morte di de Gaulle avrebbe fatto vacillare la quinta repubblica. Al contrario Salan, probabilmente cedendo ad un sussulto di senso dell’onore militare, si era opposto con decisione. I dirigenti favorevoli all’assassinio di de Gaulle non si erano docilmente rassegnati al veto di Salan, al tempo stesso non avevano voluto sfidare apertamente la sua autorità. Pertanto avevano incoraggiato un piccolo gruppo clandestino ultraconservatore, composto da intellettuali, politici e militari insospettabili, a elaborare in autonomia un piano per l’eliminazione di de Gaulle, limitandosi a inserire nel commando un soggetto come Belvisi, coinvolto marginalmente nella rete metropolitana dell’OAS. Con questo espediente erano convinti, in caso di successo, di poter acquisire forza nella lotta di potere con Salan, e in caso di fallimento di poter negare ogni accusa di insubordinazione.
Il gruppo incaricato di uccidere la “Grande Zohra”, destinato più tardi ad assumere la denominazione di Consiglio Nazionale della Resistenza Interna (CNRI), aveva affidato al suo uomo più qualificato, un tenente colonnello dell’aeronautica esperto in missilistica e balistica, il compito di progettare le modalità operative dell’attentato, arruolando invece gli altri membri del commando negli ambienti dell’estremismo pieds-noirs e dei reduci dall’Indocina.

Protetto dal nome di battaglia “Germain”, l’uomo del CNRI era sfuggito all’arresto. Allo stesso modo Belvisi, potendo contare sull’assistenza della rete metropolitana dell’OAS, aveva fatto perdere le sue tracce per diversi mesi. In mano agli inquirenti non era rimasta altro che la bassa manovalanza, da cui Salan, in una lettera aperta indirizzata ai giornali, aveva potuto prendere le distanze, condannando l’attentato. A confondere ulteriormente le acque sarebbe poi intervenuto l’avvocato difensore degli attentatori, Tixier-Vignancour, che avrebbe dipinto i suoi assistiti come dei “cani sciolti”, inconsapevolmente manovrati addirittura dal ministero degli Interni. Nella sua fantasiosa ricostruzione, a Pont sur Seine non era scoppiata una bomba, ma un grosso e innocuo petardo, con l’obiettivo non di uccidere de Gaulle, ma di convincerlo ad adottare misure più incisive contro l’OAS. La tesi dell’attentato fasullo, benché destinata a crollare in tribunale, avrebbe nell’immediato sviato l’attenzione degli inquirenti e dell’opinione pubblica, coprendo i veri mandanti politici, che dopo il loro primo fallimento non si erano certo scoraggiati.
Bomba o petardo che fosse, l’ordigno esploso a Pont sur Seine aveva accresciuto la popolarità di de Gaulle, conferendogli la base di consenso necessaria per reagire con fermezza tanto alle intimidazioni dell’OAS quanto alle pressioni dell’FLN. A partire dall’autunno del 1961, pur senza riuscire ad arrestare il proliferare degli attentati al plastico, la polizia aveva proceduto a numerosi arresti, indebolendo la rete metropolitana dell’OAS; al tempo stesso aveva stroncato con selvaggia violenza il tentativo dell’FLN di mettere sotto pressione il governo mobilitando gli algerini residenti a Parigi. Il 17 ottobre la manifestazione non autorizzata di oltre trentamila musulmani per le vie di Parigi si era conclusa con un orribile massacro: circa duecento morti e migliaia di feriti.

Dopo aver dimostrato di non essere disposto a lasciarsi manovrare né dall’OAS né dall’FLN, de Gaulle aveva rinnovato i suoi sforzi per dare nuovo slancio al processo di autodeterminazione algerino. Sfidando la ferocia terroristica dell’OAS, all’inizio di febbraio del 1962 aveva annunciato l’imminente soluzione della tormentata questione algerina. Un mese più tardi i lavori della conferenza di Evian erano ripresi per concludersi il 18 marzo con la firma del cessate il fuoco tra l’esercito francese e l’FLN . Ad Algeri, i pieds-noirs, inquadrati dall’OAS erano insorti con le armi in pugno, prendendo il controllo del quartiere di Bab el Oued. L’esercito, questa volta senza esitazioni, era intervenuto aprendo il fuoco e provocando quarantasei morti e duecento feriti. Lo spargimento del sangue dei pieds-noirs nelle vie di Algeri non aveva scalfito la determinazione della maggioranza dei francesi a recidere ogni legame con l’Algeria. In occasione del referendum dell’8 aprile oltre il 90% dei votanti aveva espresso il proprio consenso alla politica di de Gaulle. Dopo il voto era iniziato l’esodo disperato di un milione di pieds-noirs verso l’altra sponda del mediterraneo, lasciandosi alle spalle case, terreni, attività economiche e radici culturali ramificatesi nel corso di centotrent’anni. Per arrestare l’emorragia della propria base di massa, l’OAS aveva compiuto ogni sforzo, arrivando persino a presidiare le agenzie di viaggi e le aree di imbarco dei porti. Né la propaganda, né le intimidazioni avevano potuto ridare speranza a un popolo affranto. A partire dalla fine di maggio ogni giorno migliaia di pieds-noirs avevano scelto la via dell’esilio.

Indebolita dall’esodo dei pieds-noirs, privata di ogni prospettiva politica, l’OAS si era abbandonata a una furia cieca che mirava a trasformare la terra per cui si era tanto accanitamente battuta in una landa desolata. I commando di Degueldre, denominati Delta, avevano scatenato un inferno di esplosioni contro ogni genere di obiettivo: banche, impianti industriali, infrastrutture, ospedali, scuole e biblioteche. Ad Algeri erano andati in fumo oltre sessantamila volumi. Auto imbottite di esplosivo parcheggiate in prossimità di luoghi frequentati da musulmani avevano provocato decine e decine di vittime.
Mentre l’Algeria sprofondava nel sangue e nell’orrore sommando tragedia a tragedia, la polizia aveva arrestato prima il generale Jouhaud e poi anche il generale Salan. L’OAS, decapitata e del tutto incapace di fronteggiare la nuova congiuntura politica, aveva continuato a colpire, distruggere e seminare terrore tanto in Algeria quanto in Francia. Il 1° luglio 1962 de Gaulle aveva nuovamente chiamato i francesi alle urne per esprimersi sull’indipendenza algerina. La vittoria schiacciante dei “Sì” aveva definitivamente infranto il sogno dell’Algeria francese.
Le raffiche sparate contro l’auto presidenziale il 22 agosto 1962 non furono altro che un atto di rabbiosa vendetta.

La ricostruzione dell'attentato

La ricostruzione dell’attentato

La caccia agli autori del duplice agguato del Petit-Clamart fu breve e assistita dalla fortuna. Il 24 agosto un volantino di rivendicazione inviato ai giornali confermò i forti sospetti che gli inquirenti avevano già maturato: “Il 22 agosto, dei patrioti hanno compiuto un atto di resistenza per liberare la Francia da un dittatore spergiuro che conduce il paese alla rovina dopo averlo condotto al disonore. Il Consiglio Nazionale della Resistenza approva totalmente questa azione. Oggi o domani, a dispetto di tutti, de Gaulle sarà abbattuto come un cane rabbioso”.
Alla fine di marzo del 1962, qualche settimana prima di finire in manette ed essere deferito alla corte marziale, Salan aveva designato Georges Bidault come capo del Consiglio Nazionale della Resistenza (CNR). Prevedendo una imminente sconfitta sul campo dell’OAS, il generale, che fin dall’inizio della sua latitanza aveva assunto il nome di battaglia di “Soleil”, si era posto il problema della sua successione e aveva gettato le basi per la creazione di una nuova struttura che continuasse in Francia la battaglia contro il regime gollista. La scelta della denominazione della nuova organizzazione non era stata casuale, volendo evocare la coraggiosa lotta che il Consiglio Nazionale della Resistenza, fondato da Jean Moulin nel 1943, aveva combattuto contro l’occupazione nazista. Altrettanto meditata era stata la scelta dell’uomo a cui affidarne la guida. Bidault, successore di Moulin alla presidenza del CNR durante la guerra, insignito dell’onorificenza di Compagnon de la Libération, ex primo ministro, strenuo difensore della bandiera dell’Algeria francese in seno all’assemblea nazionale, gli era parsa la figura più autorevole a cui assegnare il compito di riannodare i fili dell’OAS, ormai in fase di disgregazione.

Il legame tra Salan e Bidault era ben noto alla polizia da quando, nel settembre del 1961, in seguito all’arresto all’aeroporto di Orly di un corriere dell’OAS, era entrata in possesso di documenti compromettenti. Nel novembre dello stesso anno, Bidault aveva sfidato apertamente de Gaulle partecipando a Parigi a un affollato comizio, organizzato dal comitato di Vincennes, in cui erano risuonate invocazioni all’OAS e al generale Salan. Nonostante l’immunità parlamentare, la polizia aveva intensificato la sorveglianza nei suoi confronti, tanto da indurlo a rifugiarsi in Svizzera nel marzo del 1962. Un mese più tardi, Bidault aveva firmato sotto la sigla CNR una vibrata dichiarazione di condanna del referendum sull’autodeterminazione algerina indetto da de Gaulle. L’arresto ad Algeri, il 20 aprile 1962, del generale Salan gli aveva offerto l’occasione di far valere il suo diritto di successione alla guida della lotta per l’Algeria francese. La volontà espressa da “Soleil” era stata rispettata. Nel maggio del 1962 erano convenuti in gran segreto a Roma Jacques Soustelle, accademico di Francia, con un passato di fervente gollista, fondatore del comitato di Vincennes, un’organizzazione trasversale che, prima di essere sciolta da de Gaulle nel novembre del 1961, aveva tentato di riunire intellettuali e politici intenzionati a battersi per la difesa dell’integrità territoriale francese, il colonnello Antoine Argoud, ex capo di stato maggiore del generale Massu e animatore della rete spagnola dell’OAS, e Pierre Sergent, responsabile della rete metropolitana dell’OAS, per assegnare a Bidault la presidenza del comitato esecutivo del CNR. Anche il piccolo gruppo conservatore che aveva gestito l’attentato di Pont sur Seine, pur senza rinunciare alla propria identità e alla propria sigla, CNRI, aveva guardato con favore a Bidault e gli aveva offerto, attraverso il proprio agente di collegamento, il capitano di corvetta Jacques Roy, la competenza di “Germain”, ribattezzato “Didier”, per portare a termine l’operazione a lungo avversata da Salan: uccidere la “Grande Zohra”.

Non disponendo di informazioni precise sul CNR, gli inquirenti posero in cima alla lista dei ricercati, oltre a Bidault, sui cui gravava da qualche settimana un mandato di arresto internazionale, il dirigente dell’OAS più pericoloso rimasto in circolazione: il capitano Sergent. La cattura nel maggio precedente dell’industriale André Canal, fondatore di un gruppo autonomo dell’OAS, denominato “Mission III”, autore dell’ondata di attentati al plastico che aveva terrorizzato Parigi, era stato l’ultimo clamoroso successo ottenuto dalla polizia. Da quel momento le esplosioni si erano diradate, rendendo ancora più inafferrabili i militanti e i dirigenti a piede libero. In mancanza di indizi, gli inquirenti procedettero perciò alla cieca, dispiegando, con la piena collaborazione del ministero degli Interni, una imponente rete di posti di blocco su tutto il territorio francese, nella speranza che qualche gregario vi finisse impigliato e rivelasse elementi utili a imprimere una svolta positiva alle indagini. E così avvenne.
Il 3 settembre in un posto di blocco in prossimità di Valence, sull’arteria principale tra Parigi e Marsiglia, gli agenti della gendarmeria fermarono un’auto immatricolata ad Algeri con quattro uomini a bordo. Uno di essi, sprovvisto di documenti, dichiarò candidamente di chiamarsi Pierre Magade e di essere ricercato per diserzione. Il confronto delle impronte digitali confermò le sue affermazioni. In attesa di essere consegnato alle autorità militari, il giovane ed emotivo Magade fu sottoposto a un interrogatorio di routine, nel corso del quale confessò spontaneamente di aver partecipato all’agguato del Petit-Clamart. Inizialmente increduli, i gendarmi lo incalzarono, ottenendo risposte precise e circostanziate.
Nelle stesse ore in cui Magade cedeva alla tensione, abbandonandosi alle prime ammissioni, la polizia parigina concludeva un altro importante arresto. Alcuni cittadini residenti in via Victor Hugo a Meudon, un piccolo comune alle porte di Parigi non lontano da Clamart, avevano segnalato un via vai sospetto di uomini e auto il giorno dell’attentato. La verifica di queste rivelazioni aveva aperto una pista promettente. Nello stabile al numero 2 di via Victor Hugo viveva Monique Bertin, sorella di Pascal, un giovane con l’ambizione di entrare all’accademia militare di Saint-Cyr, schedato come attivista pro Algeria francese e irreperibile dal giorno seguente all’attentato.

Il 4 settembre, seguendo gli spostamenti di Monique, la polizia giunse in poche ore all’arresto di Pascal in un grande magazzino della capitale. L’omertà di Bertin, che si limitò a dichiarare la propria appartenenza all’OAS, fu compensata dalla loquacità di Magade, che fornì le generalità di quasi tutti i suoi complici. Sapendo chi cercare, la polizia agì con fulminea rapidità. Etienne Ducasse, un giovane studente di diritto, fu arrestato in Borgogna a casa del patrigno, un generale in pensione dell’aeronautica. A Montmartre finì in manette Jacques Prévost, un ex parà reduce da Diem Bien Phu, mentre si trovava al volante di una vistosa Chevrolet Bel-Air in compagnia di Alain Bougrenet de la Tocnaye, un ex ufficiale discendente da una nobile famiglia bretone, già condannato per il suo coinvolgimento nel putsch dei generali dell’aprile 1961. A bordo dell’auto furono trovate armi che avevano sparato al Petit-Clamart. Bougrenet, che non compariva nella lista di nomi fornita da Magade, esibì prima dei documenti falsi, poi spontaneamente dichiarò la sua identità e si offrì di collaborare, mostrandosi quasi ansioso di convincere gli inquirenti dell’importanza del proprio ruolo nell’attentato. Prévost non si mostrò meno collaborativo, rivelando subito il nome di un altro congiurato: Alphonse Constantin, un ex caporale della legione reduce dall’Indocina, dal Marocco e dalla Tunisia, che a causa di un improvviso attacco di cistite non aveva potuto partecipare all’agguato del Petit-Clamart. Constantin fu arrestato nell’arco di poche ore mentre stava riconsegnando un veicolo preso a noleggio.
Le rivelazioni di Magade trascinarono in carcere anche l’ex legionario Gérard Buisines e Lazlo Varga, un esule ungherese scampato alla repressione sovietica. Altri due ungheresi, Lajos Marton, un fanatico anticomunista, e Gyula Sari, un legionario reduce dall’Indocina, benché braccati, riuscirono a far perdere le proprie tracce.
Nel frattempo le indagini sul furgone Renault Estafette giallo ritrovato poche ore dopo l’agguato proseguirono, portando a nuovi arresti. Il banale controllo della targa condusse gli investigatori a un individuo che sotto il falso nome di Jean-François Murat aveva noleggiato il veicolo a Joigny, in Borgogna. Lo stesso misterioso Murat risultò aver noleggiato a Compiègne, in Piccardia, una Fiat Neckar, ritrovata a Parigi con il baule colmo di granate, fucili mitragliatori e munizioni di ogni calibro.

Le deposizioni delle impiegate di Joigny e di Compiègne furono concordi nel descrivere Murat come un giovane gentile e di bell’aspetto, ma non fornirono altri elementi utili a svelare la sua vera identità. Perciò le indagini furono estese dalle agenzie di autonoleggio agli alberghi di ogni angolo di Francia. Dai registri dell’Hotel de la Poste di Dinan, in Bretagna, emerse che un uomo rispondente al nome di Murat era stato ospitato per una sola notte tra il 2 ed il 3 luglio. Quel brevissimo soggiorno sarebbe stato insignificante se Murat non avesse commesso la leggerezza di fare dalla sua camera una telefonata a Lauzun, un piccolo villaggio di un migliaio di abitanti in Aquitania. I destinatari di quella chiamata, i coniugi Larrieu, furono immediatamente condotti a Parigi per essere interrogati. Il loro silenzio non durò a lungo, confessarono di aver incominciato a lavorare per la causa dell’Algeria francese nel gennaio del 1962 e di aver dato asilo a diversi attivisti, tra cui Armand Belvisi, arrestato a Parigi nel mese di maggio dopo una lunga latitanza, Bougrenet de la Tocnaye e Georges Watin, detto “la boiteuse”, la zoppa, entrambi già identificati, grazie a Magade, come membri del commando del Petit-Clamart . I Larrieu fecero anche il nome del maggiore Henri Niaux. Quel nome, benché del tutto sconosciuto, accese l’interesse degli investigatori.
Nelle deposizioni rilasciate da Magade, Bougrenet, Ducasse e Prévost abbondavano i riferimenti alla mente organizzativa dell’attentato, un personaggio evanescente chiamato “Didier”, descritto come un ufficiale sulla quarantina in servizio attivo presso qualche ente di grande importanza per la difesa nazionale. Pertanto l’idea che Niaux potesse essere il capo del commando si fece subito strada. L’abitazione del maggiore ad Agen, non lontano da Lauzun, fu sottoposta a una scrupolosa perquisizione, nel corso della quale furono rinvenuti documenti sospetti relativi al noleggio di auto a Parigi e lettere che sembravano celare un codice. Tali indizi furono sufficienti per strappare a Niaux le prime ammissioni. Dichiarò di essere stato convinto dal colonnello Godard, responsabile del servizio informazioni dell’OAS, a dare il suo contributo alla difesa dell’integrità territoriale francese, ospitando latitanti. Al tempo stesso negò ogni coinvolgimento diretto con l’attentato, fornendo per i giorni 21 e 22 agosto un alibi inattaccabile. Non potendo collocare Niaux sul luogo dell’attentato, gli inquirenti si convinsero che la caccia al fantomatico “Didier” era ancora aperta. L’interrogatorio si fece quindi meno pressante e al maggiore fu concessa qualche ora di riposo. Non appena si trovò solo, Niaux si impiccò alle sbarre della cella con un lembo di stoffa strappato dalla camicia.

Nelle stesse ore in cui il maggiore meditava il gesto estremo, gli investigatori giunsero finalmente a identificare Murat. Alcuni dei contratti di noleggio sequestrati in casa di Niaux erano intestati a un certo Lauvernier che convocato dalla polizia affermò di aver ospitato più volte in casa propria Serge Bernier, un vecchio compagno d’armi del battaglione Corea a cui doveva la vita. Anche dopo il 22 agosto, pur sapendo che il suo ex commilitone aveva preso parte all’attentato del Petit-Clamart, Lauvernier aveva voluto onorare il suo debito di riconoscenza offrendogli un nascondiglio per qualche giorno, il tempo necessario a preparare la fuga. Lauvenier disse di non poter fornire elementi utili all’arresto del fuggitivo, ma come prova della propria volontà di collaborazione rivelò l’indirizzo di una amica di Bernier. Una volta rintracciata, la ragazza svelò che Murat e Bernier erano la stessa persona.
Oltre a Bernier, risultarono introvabili altri componenti del commando: Jean Pierre Naudin, uno studente appena ventenne affiliato all’OAS, Louis de Condé, un tenente della riserva, e Georges Watin, un estremista pied-noir, già ricercato per la sua attività terroristica. Gli inquirenti non si preoccuparono troppo di questi gregari, concentrarono invece tutte le loro energie nel tentativo di dare un volto a “Didier”.
Il commissario Bouvier, incaricato delle indagini, ebbe l’intuizione di coinvolgere il servizio segreto militare, a cui inviò la descrizione di “Didier” fornita dai congiurati disposti a collaborare. Nell’arco di qualche giorno ottenne alcune fotografie di ufficiali superiori in servizio, tra cui Magade, Ducasse, Varga, Buisines e Prévost riconobbero il loro misterioso capo: il tenente colonnello dell’aeronautica Jean-Marie Bastien-Thiry, considerato una delle menti più brillanti dell’esercito francese.

Bastien-Thiry era nato, primo di sette fratelli, a Lunéville nel 1927, da una antica famiglia lorenese che aveva dato alla Francia magistrati e ufficiali. Adolescente aveva acclamato il generale de Gaulle mentre sfilava in trionfo per le strade di Metz appena liberata. L’esempio di suo padre, ufficiale di artiglieria e fervente gollista, lo aveva spinto a maturare la decisione di intraprendere la carriera militare. Dopo aver completato gli studi liceali a Nancy, distinguendosi per la sua spiccata predisposizione per la matematica, era stato ammesso nel 1947 alla prestigiosa École Polytechnique, deputata fin dal 1794 a formare l’élite tecnico-scientifica dell’esercito francese. Dopo tre anni di studi aveva optato per l’arma azzurra, completando la sua formazione presso la non meno prestigiosa scuola superiore aeronautica. Nel 1951 era stato promosso ingegnere militare di seconda classe. L’avanzamento della sua carriera era stato rapido e travolgente. Nel 1954, dopo un periodo di perfezionamento presso il centro di volo sperimentale, era stato nominato ingegnere di prima classe e assegnato al servizio tecnico dell’aeronautica presso il ministero dell’Aria. Al primo traguardo della sua carriera erano seguite le nozze con Geneviève Lamirand, figlia dell’ex segretario di stato alla gioventù nel governo collaborazionista di Vichy. Pur impegnandosi con entusiasmo e trasporto nella ricerca tecnologica al servizio della Francia, le sue profonde convinzioni cattoliche gli avevano impedito di trascurare la famiglia. Dalla felice unione con Geneviève aveva avuto tre figlie: Hélène, Odile ed Agnès.
Specializzatosi nel campo dello studio dei sistemi d’arma teleguidati, aveva dato prova di non comuni capacità, fornendo un contributo decisivo alla concezione del missile terra-terra SS-10, adottato prima dall’esercito francese e in seguito da quelli degli Stati Uniti e di Israele. Una tale affermazione professionale gli aveva procurato la meritata fama di “Von Braun” francese, che aveva accelerato la sua ascesa nella gerarchia dell’aeronautica militare. Nel 1961 era stato insignito della croce di cavaliere della Légion d’honneur e l’anno successivo, all’età di appena trentacinque anni, aveva ottenuto la nomina ad ingegnere capo di seconda classe, equivalente al grado di tenente colonnello.
Nei confronti di un ufficiale così stimato, il commissario Bouvier agì con prudenza, prima lo fece sorvegliare con discrezione per ventiquattro ore, poi, il 15 settembre, si decise a ordinarne l’arresto e la perquisizione del domicilio. Dopo aver rovistato in ogni angolo della casa, gli agenti fecero una paio di scoperte interessanti: una pagina di una agenda tascabile sui cui era tracciato uno schizzo di Chaville, una località tra Parigi e Versailles, e l’angolo strappato di un giornale su cui erano annotati un nome, Hubert Leroy, l’indirizzo di un hotel parigino, Terminus Vaugirard, e un numero telefonico. Bouvier riuscì a stabilire che il pezzetto di giornale proveniva da una copia di Paris Presse del 21 agosto, vigilia dell’attentato, giorno in cui un certo Leroy aveva effettivamente preso una camera all’hotel Terminus Vaugirard. Magade e gli altri congiurati pentiti confermarono che Leroy era una delle false identità utilizzate da “Didier”.

Jean-Marie Bastien-Thiry subito dopo la cattura

Jean-Marie Bastien-Thiry subito dopo la cattura

Il tenente colonnello Bastien-Thiry si rese certamente conto che gli indizi raccolti contro di lui non costituivano una prova schiacciante, perciò si ostinò per un paio di giorni a recitare la parte della vittima di un malinteso, respingendo con indignazione ogni accusa, poi improvvisamente, lunedì 17 settembre, confessò al commissario Bouvier di essere stato l’istigatore e il principale responsabile dell’attentato a de Gaulle. Negò ogni affiliazione sia all’OAS, sia alla rete “Mission III” di André Canal, rivendicò invece la propria appartenenza al CNR, guidato da Georges Bidault. Raccontò, mentendo, di essersi avvicinato all’organizzazione quando gli accordi di Evian avevano dimostrato al di là di ogni dubbio il tradimento da parte del presidente della repubblica del proprio mandato costituzionale. L’abbandono al nemico di una porzione del territorio nazionale gli era parso un atto talmente abominevole da trasformare l’assassinio del capo dello stato in un legittimo tirannicidio. Alla fine di aprile del 1962, era stato inserito in un gruppo di studio, incaricato dalla direzione del CNR di individuare le modalità attraverso cui mettere de Gaulle nelle condizioni di non poter più nuocere alla Francia. Le riunioni volte alla pianificazione dell’operazione, denominata “Charlotte Corday”, in onore della passionaria girondina che nel 1793 aveva assassinato il sanguinario Marat, si erano svolte a Parigi e ad Agen, con la partecipazione del maggiore Niaux in qualità di esperto di trasmissioni. Anche Armand Belvisi era stato tra i primi a essere coinvolto, tuttavia Bastien-Thiry evitò accuratamente di nominarlo nella sua lunga deposizione al commissario Bouvier. Citarlo lo avrebbe costretto a confessare il ruolo direttivo ricoperto, sotto lo pseudonimo di “Germain”, nell’attentato di Pont sur Seine. Per proteggere i mandanti politici dell’agguato del settembre 1961, cioè il ben occultato gruppo dirigente del CNRI, Bastien-Thiry preferì datare alla primavera del 1962 la sua decisione di aderire al progetto si eliminare de Gaulle. La fretta con cui sia la magistratura sia l’opinione pubblica avevano archiviato la bomba di Pont sur Seine come un maldestro e velleitario gesto di un gruppo di “cani sciolti”, senza né coperture né prospettive politiche, giocò a suo favore, consentendogli di circoscrivere e selezionare le sue rivelazioni. Il sospetto di un legame tra l’attentato del Petit-Clamart e quello di Pont sur Seine non sfiorò il commissario Bouvier neppure per un attimo, benché il nome di Belvisi fosse comparso tra i frequentatori della casa dei coniugi Larrieu a Lauzun.

Il contributo di Belvisi al duplice agguato del Petit-Clamart era stato comunque trascurabile, poiché nel maggio del 1962 la polizia, da tempo sulle sue tracce, lo aveva sorpreso in un appartamento di Parigi, nascosto dalla moglie di un ufficiale incarcerato dopo il putsch dei generali. Belvisi era riuscito a barricarsi nell’appartamento, minacciando di far saltare in aria l’intero palazzo se gli agenti avessero tentato di fare irruzione. Dopo una lunga trattativa si era finalmente arreso e aveva ammesso con orgoglio le proprie responsabilità nell’attentato di Pont sur Seine, aveva mantenuto invece il più assoluto silenzio sia sui preparativi in corso per l’operazione “Charlotte Corday”, sia sulla vera identità di “Germain”, alias “Didier”. Avrebbe custodito il suo segreto per una decina d’anni, fino alla pubblicazione delle sue memorie, avvenuta dopo la sua scarcerazione, a seguito dell’amnistia del 1968.
Belvisi aveva incontrato per la prima volta “Germain” alla fine di giugno del 1961 e ne era rimasto affascinato, lo aveva giudicato la perfetta incarnazione della nobile causa dell’Algeria francese, un esempio purissimo di integrità morale, patriottismo e fierezza. Mentre “Germain” si allontanava a bordo della sua auto, Belvisi, ancora emozionato da quel breve ed intensissimo colloquio, non aveva saputo resistere alla tentazione di annotarsi il numero di targa. Gli era stato poi sufficiente effettuare un rapido controllo presso gli uffici della prefettura per scoprire che “Germain” abitava a Bourg-la-Reine e rispondeva al nome di Jean-Marie Bastien-Thiry.
L’arresto di Belvisi non aveva intralciato i preparativi dell’operazione “Charlotte Corday”. A giugno era stato ammesso nel gruppo di studio il tenente Bougrenet de la Tocnaye che si era ben presto guadagnato la fiducia di “Didier”, diventandone il braccio destro. L’intesa tra i due ufficiali era stata profonda. Condividevano il culto dei valori tradizionali: Dio, patria e famiglia, la convinzione che la decisione di sopprimere de Gaulle fosse moralmente giustificata e una solida preparazione professionale. Bougrenet, decorato con la croce al valor militare, era un uomo d’azione coraggioso e determinato, benché le sue note di servizio lo descrivessero come poco affidabile, in quanto privo di equilibrio e irascibile. “Didier”, ignorando le fragilità del suo luogotenente, gli aveva affidato il compito di reperire le armi e di selezionare gli uomini del commando. In particolare gli aveva raccomandato di rispettare scrupolosamente il criterio della rappresentatività.

Bidault aveva concepito il CNR come un soggetto capace di coagulare le diverse anime dell’estremismo antigollista. Nel delirio politico dei congiurati, ormai del tutto indifferenti alla reale volontà popolare, l’eliminazione della “Grande Zohra” per assumere il significato di catarsi e rigenerazione della repubblica doveva apparire come un atto corale, riflesso della variegata composizione del CNR.
Nel corso della sua latitanza, dopo l’evasione dalla prigione della Santé, Bougrenet aveva maturato una approfondita conoscenza della rete dell’OAS dai vertici sino ai gregari, perciò non aveva incontrato difficoltà a eseguire gli ordini ricevuti. Come esponenti della lotta contro il comunismo aveva arruolato gli esuli ungheresi Varga, Marton e Sari. Il malessere degli studenti nostalgici di un impero perduto era stato incarnato da Bertin, Ducasse e Naudin, membri della rete metropolitana dell’OAS. Georges Watin e il giovane Magade avevano simboleggiato la rabbia e la disperazione dei pieds-noirs. Prévost insieme a Buisines e Constantin avevano dato rappresentanza alla rete algerina dell’OAS. Bougrenet aveva infine riservato per se stesso e per “Didier” il compito di testimoniare la rivolta morale dell’esercito nei confronti di una autorità divenuta illegittima.
Sulla provenienza delle armi Bastien-Thiry osservò il più assoluto silenzio, fu evasivo anche sui fondi ricevuti per l’operazione. Ammise di aver avuto a disposizione dal CNR alcuni milioni di vecchi franchi, a cui aveva aggiunto un contributo personale di circa mezzo milione. Secondo gli inquirenti le risorse del commando del Petit-Clamart provenivano almeno in parte da una serie di rapine a uffici postali e istituti di credito effettuate nel mese di luglio nella zona di Parigi dalla banda composta da Prévost, Magade, Constantin e Buisines.

Mentre era in corso la selezione dei membri del commando, Bastien-Thiry aveva messo a punto il piano operativo, adattando alle circostanze un caso classico previsto dai manuali di tattica militare: l’attacco a un convoglio. Il fallito attentato di Pont sur Seine aveva confermato la vulnerabilità del presidente durante i suoi frequenti spostamenti, al tempo stesso aveva dimostrato quanto gli esplosivi potessero essere inaffidabili. Bastien-Thiry aveva pertanto deciso di bloccare la vettura presidenziale con un intenso fuoco di armi automatiche e di assegnare a un secondo commando, appostato poco più avanti, il compito di neutralizzare la scorta e di abbattere il generale de Gaulle, risparmiando, se possibile, la vita di sua moglie Yvonne. Confidando sulla potenza di fuoco del primo gruppo di tiratori, non aveva ritenuto necessario porre un ostacolo sulla strada per arrestare la corsa dell’auto presidenziale. Era stato un errore fatale, probabilmente indotto anche dall’incertezza sino all’ultimo minuto sul percorso che il convoglio presidenziale avrebbe seguito. La distanza tra l’aeroporto militare di Villacoublay e il palazzo dell’Eliseo poteva essere coperta seguendo due diversi itinerari: il primo attraverso il bosco di Meudon risalendo poi il corso della Senna; il secondo, più breve, passando per la rotonda del Petit-Clamart, la strada nazionale 306, la porta di Châtillon e attraversando Parigi fino alla spianata dell’Hotel des Invalides e al ponte Alessandro III. Affinché gli uomini potessero prendere posizione occorreva conoscere per tempo il percorso scelto dal corteo presidenziale. A tal fine Bastien-Thiry aveva predisposto una rete di osservatori.
La sorveglianza dell’aeroporto militare di Saint Dizier nell’alta Marna, non lontano dalla residenza privata di de Gaulle, era stata affidata a un certo “Pierre”. Per celare la sua attività di spionaggio sotto l’apparenza di una passeggiata romantica, “Pierre” era accompagnato da una giovane amica di Naudin, Bernadette Praloran. Altre vedette, la cui identità ad oggi non è stata ancora accertata, erano poste all’aeroporto di Villacoublay, lungo i due percorsi abituali e in prossimità dell’Eliseo.
Dal momento della segnalazione delle vedette il dispiegamento degli uomini e la preparazione dell’agguato richiedevano un certo tempo e una estrema precisione nell’esecuzione dei compiti assegnati a ciascuno. La minima incertezza poteva mandare in fumo l’operazione.

Infatti, prima di riuscire a passare veramente all’azione nella serata del 22 agosto, i congiurati avevano effettuato due tentativi, entrambi falliti per mancanza di coordinamento e di tempismo. All’inizio di agosto, Bastien-Thiry aveva interrotto le sue vacanze in Svizzera dopo aver appreso dai giornali la notizia che per mercoledì 8 era stata programmata la visita all’Eliseo dell’ex presidente americano Eisenhower. Allertata la sua squadra, in cui non era stata ancora incorporata la banda guidata da Prévost, Bastien-Thiry era rimasto in attesa del segnale di “Pierre”, che era giunto puntuale. Anche la vedetta di Villacoublay non aveva deluso le aspettative, indicando tempestivamente che il corteo presidenziale aveva imboccato il percorso numero uno lungo il corso della Senna. Tuttavia alcune improvvise deviazioni del corteo avevano impedito al commando sia di prendere le posizioni previste per il duplice agguato, sia di affiancare in corsa l’auto su cui viaggiava de Gaulle per tentare un attacco in movimento.
Il secondo fallimento non era stato meno frustrante. Non conoscendo la data precisa di convocazione del consiglio dei ministri, Bastien-Thiry aveva ordinato al commando di tenersi pronto sin dal 21 agosto. Gli uomini avevano atteso il segnale di “Pierre” in un appartamento di proprietà del patrigno di Ducasse, in rue Vaugirard, da cui potevano essere agevolmente raggiunti entrambi i percorsi abituali del corteo presidenziale. Nella stessa via Bastien-Thiry aveva preso una camera all’hotel Terminus a nome Leroy. Alle 21 aveva telefonato a Bougrenet per comunicargli il cessato allarme e predisporre l’azione per l’indomani mattina. Poco prima delle 9 del 22 agosto, “Pierre” aveva avvertito “Didier” della partenza del volo presidenziale dall’aeroporto di Saint Dizier. Come convenuto, tutti i membri del commando avevano raggiunto la stazione Boucicaut della metropolitana, in attesa di conoscere su quale percorso dispiegarsi. Alla segnalazione da Villacoublay sulla scelta del percorso numero due, i mezzi dei congiurati si erano mossi in gran velocità, ma erano giunti nel punto prescelto per l’agguato in ritardo, quando ormai il corteo presidenziale era passato. Era stato sufficiente un guasto temporaneo al telefono della vedetta di Villacoublay per far accumulare agli attentatori un tale ritardo da far fallire l’operazione.

Copertina di Paris Match dell’agosto 1962

Copertina di Paris Match dell’agosto 1962

Nonostante lo smacco subito, Bastien-Thiry aveva deciso di tenere sotto pressione i suoi uomini e di ritentare la fortuna in serata. Aveva quindi dato ordine al commando di convergere verso l’appartamento della sorella di Bertin in via Victor Hugo a Meudon.
Intorno alle 18, anche Bastien-Thiry aveva raggiunto Meudon al volante di una Simca 1000, poi si era accomodato in un caffè e aveva atteso sino alle 19,45, quando la vedetta posta in prossimità dell’Eliseo gli aveva telefonato che il corteo presidenziale aveva imboccato ancora una volta il percorso numero due. Si era quindi spostato all’appartamento di Monique Bertin, che si trovava a pochi passi dal caffè, e aprendo sotto le sue finestre un giornale due volte aveva segnalato agli uomini di precipitarsi alle auto e di dirigersi in avenue de la Libération. Era infine salito a bordo della sua Simca, che fungeva da vettura di comando, per prendere posizione all’incrocio tra avenue de la Libération e la strada del Pavé-Blanc. Al passaggio del corteo presidenziale era stato stabilito che agitasse un giornale per impartire all’equipaggio del furgone Estaffette giallo, composto da Varga, Bernier, Buisines, Sari e Marton, l’ordine di aprire il fuoco. Buisines, ex tiratore scelto della legione, avrebbe dovuto mirare agli pneumatici, Sari e gli altri all’abitacolo. Quella tempesta di pallottole avrebbe dovuto arrestare la corsa dell’auto presidenziale e quanto meno ferire la “Grande Zohra”. A quel punto, la Citroën DS blu, appostata all’angolo tra rue du Bois e avenue de la Libération, con a bordo Bougrenet, alla guida, Watin e Prévost, avrebbe dovuto intervenire per dare il colpo di grazia al generale de Gaulle. A supporto e protezione degli uomini della DS blu, Bastien-Thiry aveva previsto un secondo furgone Peugeot, guidato da Magade, con due tiratori a bordo, Bertin e de Condé. Al giovane Naudin, alla guida della Citroën 2 CV della sorella di Bertin, era stato assegnato un compito di pattugliamento e di ulteriore protezione.
Un piano così ben congegnato in tutti i dettagli si era tuttavia rivelato del tutto inefficace. Poco dopo le venti, il corteo presidenziale era giunto all’altezza dell’incrocio tra avenue de la Libération e la strada del Pavé-Blanc. La distanza tra Bastien-Thiry e il furgone Estafette giallo era di appena un centinaio di metri, eppure, nella luce incerta del crepuscolo, Bernier aveva scorto con lieve ritardo il segnale di aprire il fuoco. Sari era stato il primo a sparare, sfruttando l’angolo di tiro migliore, ma la velocità sostenuta del convoglio lo aveva comunque colto di sorpresa. In un attimo tutti i tiratori del furgone giallo si erano visti sfilare via il loro bersaglio. Nonostante l’esplosione di due pneumatici, la Citroën DS presidenziale non si era fermata, costringendo l’equipaggio di Bougrenet a gettarsi all’inseguimento. Watin, seduto accanto al posto di guida, era riuscito a sparare un paio di raffiche imprecise contro l’auto di de Gaulle e contro quella della sua scorta, l’arma di Prévost si era inceppata, impedendogli di fare fuoco. Il disperato inseguimento era proseguito sino alla rotonda del Petit-Clamart, poi Bougrenet aveva svoltato in direzione di Parigi. Il furgone Peugeot guidato da Magade, essendo troppo lento, era rimasto tagliato fuori dall’azione.

La confessione resa da Bastien-Thiry al commissario Bouvier, pur contenendo alcuni punti oscuri a proposito della composizione del gruppo di studio, della provenienza della armi, delle modalità di finanziamento e dell’identità delle vedette, fu giudicata sufficientemente completa e circostanziata da autorizzare la chiusura delle indagini. Del resto, de Gaulle aveva fretta di giungere a una condanna esemplare, che segnasse la definitiva sconfitta dei piani eversivi del CNR. La severità nei confronti dei terroristi era parte integrante di un più ampio disegno, volto a rafforzare il ruolo politico e costituzionale del presidente della repubblica. Il fallito attentato del Petit-Clamart, accrescendo la popolarità del generale, gli fornì l’occasione, da tempo attesa, di introdurre nell’ordinamento costituzionale l’elezione diretta del capo dello stato. L’obiettivo di tale riforma era ridurre l’influenza dei partiti nel sistema politico, portando a compimento il presidenzialismo della quinta repubblica.
Nonostante le perplessità del primo ministro Pompidou, de Gaulle nell’ottobre del 1962 annunciò alla nazione la decisione di indire entro breve termine un referendum costituzionale, suscitando la violenta reazione dei partiti di centro-destra e di sinistra. La contestazione riguardava il metodo referendario, in palese violazione delle prerogative attribuite al parlamento dalla costituzione, e il merito, sospettato di aprire la strada a una pericolosa deriva autoritaria. Il presidente del Senato, Gaston Monnerville, fu tra i primi a insorgere per denunciare l’arroganza di de Gaulle. La sua presa di posizione ispirò uno scatto d’orgoglio dei partiti che misero in minoranza il governo Pompidou, costringendo de Gaulle a sciogliere le camere e indire nuove elezioni. I toni della campagna elettorale e referendaria furono infuocati, da più parti de Gaulle venne dipinto come una minaccia per la repubblica. Per un attimo Bidault sperò che si aprissero nuovi spazi di manovra politica per il CNR. Il risultato del referendum del 28 ottobre 1962 spazzò via ogni tardiva illusione degli irriducibili dell’Algeria francese, il 62% dei votanti si espresse a favore dell’elezione diretta del presidente della repubblica. Un mese più tardi, le elezioni politiche diedero un’ulteriore conferma della popolarità di de Gaulle. Ad eccezione dei comunisti e dei socialisti, tutte le altre forze politiche ostili a de Gaulle uscirono penalizzate dalle urne.

In questo contesto politico, il 28 gennaio 1963, si tenne la prima udienza del processo a Bastien-Thiry e ai suoi complici. I congiurati comparirono davanti alla corte militare di giustizia, presieduta dal generale Gardet. Tale giurisdizione eccezionale era stata creata nel giugno del 1962 per volontà di de Gaulle, indignato dalla mitezza della pena inflitta dall’alto tribunale militare al generale Salan. Il capo dell’OAS, responsabile di centinaia di vittime in Algeria e in Francia, era stato condannato all’ergastolo anziché alla pena capitale, imponendo di fatto a de Gaulle di concedere la grazia al generale Jouhaud. Sarebbe stato infatti assurdo e lesivo per l’immagine delle istituzioni eseguire la condanna a morte inflitta poche settimane prima dallo stesso tribunale al numero due dell’OAS e risparmiare la vita di Salan. La corte istituita da de Gaulle era stata giudicata nell’ottobre del 1962 illegale, poiché, in violazione dei principi generali del diritto penale, non erano ammessi ricorsi contro le sue sentenze. L’assemblea nazionale era intervenuta nel gennaio successivo istituendo una nuova corte di sicurezza, dotata della competenza su tutti i crimini contro l’autorità dello stato. Il suo insediamento era fissato per il 25 febbraio. Spostando di appena un mese la data di avvio del processo, avrebbe potuto giudicare i responsabili dell’attentato del Petit-Clamart, ma de Gaulle si impose, sfidando il parere contrario del consiglio di stato, affinché il corso della giustizia non subisse ritardi.

La forzatura dell’esecutivo di affidare il giudizio alla vecchia giurisdizione, dichiarata incostituzionale, anziché alla nuova, spinse gli avvocati della difesa a ingaggiare una lotta contro il tempo, ricorrendo a ogni espediente dilatorio per impedire che la sentenza fosse pronunciata prima del 25 febbraio. Oltre quella data, la corte presieduta da Gardet sarebbe stata sciolta e il processo avrebbe dovuto ricominciare da capo presso il tribunale di sicurezza dello Stato, con maggiori garanzie per gli imputati.
Tra gli avvocati della difesa, per esperienza, acume giuridico, eloquenza e fiuto politico, primeggiavano Jacques Isorni, che aveva costruito la sua carriera sulla notorietà acquisita assumendo nel 1945 la difesa del maresciallo Pétain dall’accusa di alto tradimento, e Jean-Louis Tixier-Vignancour, che aveva già dimostrato la propria abilità prima salvando il generale Salan dal plotone di esecuzione, poi trasformando l’ordigno di Pont sur Seine in un innocuo petardo piazzato dai servizi segreti con l’inconsapevole complicità di un gruppo di volenterosi sprovveduti.
Isorni, difensore di Magade e Prévost, Tixier-Vignancour, difensore di Bastien-Thiry e Bougrenet, e gli avvocati degli altri imputati lavorarono come una squadra ben affiatata, riuscirono a ritardare l’esame dei fatti sino alla quarta udienza, appigliandosi a ogni cavillo utile a sollevare dubbi sulla legittimità della corte. Isorni in più occasioni si spinse sino alla provocazione ora lanciando attacchi contro la condotta di de Gaulle durante l’occupazione nazista, ora mettendo in dubbio l’imparzialità dei giudici. Un affondo particolarmente violento contro il giudice Raboul gli costò una accusa per diffamazione e l’esclusione dal processo.
Tixier-Vignancour e Isorni andarono ben oltre le schermaglie procedurali, trovando l’occasione di mettere in grave imbarazzo il governo. Prendendo spunto da un articolo pubblicato all’inizio di gennaio da un periodico belga, insinuarono che la “talpa” dell’OAS all’Eliseo fosse il ministro delle Finanze in carica, Valéry Giscard d’Estaing. Nell’udienza dell’11 febbraio, Bastien-Thiry confermò l’appartenenza del ministro, con il codice 12-b, alla rete di informatori dell’OAS. Pronta e vibrata fu la smentita dell’interessato. La difesa segnò un punto a suo favore, gettando discredito sul governo e soprattutto guadagnando altro tempo prezioso, ma fallì il suo obiettivo più importante: l’azzeramento del processo. Il 20 febbraio, il parlamento in cui il governo godeva di una solida maggioranza dopo le elezioni del novembre 1962, approvò una legge di proroga della corte militare di giustizia sino alla conclusione del processo in corso.

Gli espedienti dilatori non furono l’unica arma della difesa. Benché la piena confessione degli imputati rendesse ristretti i margini di manovra, Tixier-Vignancour e i suoi colleghi riuscirono comunque a imbastire una linea difensiva, offrendo una lettura piuttosto fantasiosa dei fatti. Convinsero i loro assistiti a ritrattare le loro precedenti deposizioni su di un punto fondamentale: il fine ultimo dell’operazione “Charlotte Corday” non era l’uccisione del presidente, ma il suo rapimento. L’eventualità della morte di de Gaulle, e di sua moglie, era un rischio che gli uomini del commando avevano accettato, in quanto inevitabile, e non un obiettivo prioritario. Bastien-Thiry fece notare che i tiratori appostati attorno al furgone giallo avevano ricevuto l’ordine di mirare alle gomme e non all’abitacolo dell’auto presidenziale e che l’equipaggio della Citroën DS sbucata da rue du Bois era composto soltanto da tre uomini per poter caricare a bordo il presidente, dopo aver neutralizzato la sua scorta. Affermò inoltre che era stato allestito un luogo di detenzione in una villa tra Parigi e Versailles, a una ventina di minuti dalla rotonda del Petit-Clamart. Lo schizzo della cittadina di Chaville, rinvenuto tra le carte del tenente colonello durante la perquisizione del 15 settembre, sembrava avvalorare questa affermazione. Una volta catturato, de Gaulle avrebbe dovuto essere processato, con l’assistenza di un legale, e, se ritenuto colpevole, giustiziato. Della celebrazione del processo si sarebbero incaricati i vertici del CNR, che già avevano raccolto a tal fine una imponente massa di documenti.
Gli altri imputati, seppur con accenti diversi, sostennero la stessa linea. Incalzato dal generale Gardet a proposito della sua ritrattazione, Bougrenet dovette riconoscere il suo scetticismo circa la reale possibilità di risparmiare la vita del presidente. Troppe erano le incognite: la velocità del convoglio, l’imprevedibilità delle reazioni dei conducenti, l’incertezza sulla precisione dei tiratori del furgone giallo. L’ungherese Varga, conducente del furgone Estafette, disse di non sapere se lo scopo dell’operazione fosse uccidere o rapire il generale de Gaulle, si affrettò però a precisare che il compito assegnato al suo gruppo si limitava all’arresto dell’auto presidenziale.

La testimonianza in aula del commissario Bouvier, secondo cui il presidente e sua moglie erano scampati alla morte grazie ad una fortunata serie di circostanze straordinarie, indebolì la tesi del rapimento. Fu invece lo stesso Bastien-Thiry a toglierle ogni credibilità, dilungandosi sulla giustificazione politica e morale dell’operazione “Charlotte Corday”, un nome che già di per sé evocava un assassinio e non un rapimento. De Gaulle era un traditore e uno spergiuro, aveva promesso che la bandiera dell’FLN non avrebbe mai sventolato ad Algeri, mentre in segreto trattava con dei terroristi sanguinari per consegnare loro un lembo di Francia. Aveva usato metodi degni della Gestapo per reprimere la resistenza e piegare la volontà dei francesi d’Algeria. I suoi discorsi radiotelevisivi erano paragonabili alle farneticanti arringhe hitleriane. Attraverso il tradimento e la fellonia, il “più illustre dei francesi” si era trasformato in un tiranno che esercitava un potere di fatto, privo ormai di ogni legittimità morale e costituzionale. Un potere tirannico contro cui, secondo l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, era lecito insorgere con la forza, ricorrendo anche all’assassinio. Dando libero sfogo alle sue più profonde convinzioni, Bastien-Thiry dichiarò: “E’ il tiranno a essere sedizioso. Sono degni di lodi coloro che liberano il popolo da un potere tirannico. Noi crediamo dunque che gli ecclesiastici eminenti che sono stati consultati e che non hanno disapprovato la nostra azione, non abbiano fatto altro che ricordare i comandamenti di Dio, il principio e il diritto di legittima difesa e la morale tradizionale insegnata dalla Chiesa nella persona dei suoi più grandi filosofi”.
Non chiarì chi fossero gli “ecclesiastici eminenti”, preferì fingere di ignorare che all’indomani degli accordi di Evian un’assemblea di vescovi e cardinali francesi aveva assunto una posizione di netta condanna contro ogni ricorso alla violenza, anche per l’affermazione di una buona causa.

I riferimenti alla liceità del tirannicidio nel pensiero di San Tommaso e gli accostamenti tra de Gaulle e Hitler non predisposero certo la corte alla clemenza, anzi la convinsero che su tali premesse filosofiche, politiche e morali la tesi del rapimento si configurasse come una fantasiosa invenzione. Perché Bastien-Thiry e i suoi complici avrebbero dovuto prendersi il disturbo di catturare e processare un uomo che consideravano tanto odioso e malvagio, il cui assassinio era benedetto persino dalla dottrina della Chiesa?
Per tracciare un quadro delle motivazioni che avevano spinto gli attentatori ad agire, gli avvocati della difesa fecero deporre novantasette testimoni, alcuni comprovarono la dirittura morale e l’alto senso del dovere degli imputati, altri raccontarono un frammento dell’immensa tragedia algerina: pieds-noirs appena rimpatriati dopo aver perso tutto, musulmani braccati dall’FLN per la sola colpa di aver servito con lealtà la Francia, testimoni di atti di violenza così atroci da giustificare il rancore più profondo verso le scelte politiche di de Gaulle.
Terminato il lungo corteo di toccanti testimonianze, il procuratore generale Gerthoffer fece la sua requisitoria. Respinse sbrigativamente la tesi del rapimento, smentita dalla dinamica stessa dei fatti. Si fece poi carico di assolvere il presidente della repubblica dall’accusa di tradimento, ricordando che il popolo francese in più occasioni referendarie aveva espresso il proprio consenso alla politica algerina del governo. Passò quindi all’analisi delle responsabilità individuali dei vari membri del commando. Ignorando deliberatamente il precedente del verdetto sull’attentato di Pont sur Seine, in cui gli imputati erano stati condannati a pene che andavano da dieci anni all’ergastolo, richiese grande severità.
Alla fine di febbraio, due fatti imprevisti illusero la difesa di poter ancora dare battaglia: l’arresto del latitante Gyula Sari e quello del colonnello Argoud, uno dei capi del CNR, rapito dai servizi segreti francesi, beffando la sovranità della repubblica federale tedesca. Gli avvocati della difesa chiesero che l’ungherese fosse ascoltato, il procuratore, che aveva già pronunciato la sua requisitoria, si oppose, ottenendo che la sua posizione fosse stralciata. Un altro tribunale si sarebbe incaricato di giudicarlo e di condannarlo. Quanto ad Argoud, fu sbrigativamente interrogato da uno dei giudici a proposito del suo eventuale coinvolgimento nell’attentato. Il colonnello dichiarò la propria totale estraneità, precisando, contro ogni verosimiglianza, di non aver mai sentito pronunciare dai vertici del CNR una condanna a morte nei confronti del generale de Gaulle: tanto bastò per convincere la corte a desistere da ogni ulteriore approfondimento.

La tomba di Bastien-Thiry a Bourg-la-Reine

La tomba di Bastien-Thiry a Bourg-la-Reine

Le arringhe degli avvocati della difesa non poterono sovvertire un verdetto già scritto, che esigeva condanne esemplari. Anche l’abilità e l’esperienza di Tixier-Vignancour si rivelarono inefficaci. I suoi appelli all’umanità e alla clemenza, verso uomini che avevano il solo torto di essersi lasciati trasportare dalla compartecipazione al dolore di tante vittime innocenti del dramma algerino, caddero nel vuoto.
Il 4 marzo 1963, la corte accolse quasi tutte le richieste avanzate dal procuratore Gerthoffer. Condannò a morte Bastien-Thiry, Bougrenet de la Tocnaye e Prévost, all’ergastolo Busines, a quindici anni di carcere Magade e Bertin, a dieci Varga, a sette Constantin, a tre Ducasse, che aveva avuto un ruolo puramente logistico.
Non essendo ammessi ricorsi contro le sentenze della corte militare di giustizia, i condannati non poterono fare altro che rivolgere le loro speranze alla grazia presidenziale. Bastien-Thiry non si fece comunque troppe illusioni, la sera della sua condanna confidò al suocero di essere convinto che de Gaulle non gli avrebbe perdonato il suo atto di accusa. Non fu smentito.
De Gaulle concesse infatti la grazia a Bougrenet e a Prévost, ma non a Bastien-Thiry che all’alba dell’11 marzo 1963, affrontò stringendo il rosario il plotone di esecuzione schierato nel cortile del forte di Ivry. Rifiutò di essere bendato, morì come era vissuto, con la dignità e la compostezza di un ufficiale.
Ai suoi più stretti collaboratori il generale confessò di aver negato la grazia a Bastien-Thiry non per le parole che aveva pronunciato in aula, ma per la minaccia che aveva portato alla vita di sua moglie Yvonne. Aggiunse inoltre: ”I francesi hanno bisogno di martiri. Bisogna che li scelgano bene. Avrei potuto dare loro uno di quei generali cretini che giocano a palla nel cortile della prigione di Tulle. Io ho dato loro Bastien-Thiry. Se vorranno potranno farne un martire. Lo merita”.
Ai capi del CNR e dell’OAS non spettò l’aureola del martirio. Bidault dopo essere stato espulso prima dall’Italia e poi dalla Germania federale, trovò asilo in Brasile e in Belgio, da cui rientrò in Francia come libero cittadino, grazie all’amnistia approvata dal parlamento nel 1968. Non rinunciò alla vita pubblica, fondando il movimento per la Giustizia e la Libertà. Si presentò senza successo alle elezioni politiche del 1973. Nel 1981 sostenne la candidatura di Jacques Chirac all’Eliseo. Alla sua morte, nel 1983, la stampa ne celebrò la vita avventurosa e il patriottismo.
L’amnistia del 1968 restituì la libertà tra gli altri anche al generale Raoul Salan, che nel 1982 fu addirittura reintegrato nei ranghi degli ufficiali della riserva. Ai suoi funerali, nel luglio del 1984, parteciparono, oltre a una folla di reduci e militanti, picchetti d’onore in rappresentanza dell’esercito, dell’aeronautica e della marina.

Per saperne di più

B. Stora, La guerra d’Algeria, Bologna – Il Mulino, 2009.
R. Kauffer, OAS Historie d’une organisation secrete – Paris, Fayard, 1986.
A. M. Duranton-Crabol, L’OAS la peur et la violence – Paris, André Versailles Editeur, 1995.
E. Roussel, Charles de Gaulle – Paris, Gallimard, 2002.
M. Gallo, De Gaulle. 3. Le premier des français – Paris, Laffon, 1998.
Y. F. Jaffrè, Le procés du Petit-Clamart – Paris Nouvelles Editions Latines, 1963.
P. Guillemot, Les attentats contre de Gaulle, in www.armand-belvisi.com
C. Guillamin, Le Petit-Clamart, in www.armand-belvisi.com
A. Belvisi, L’attentat: objectif de gaulle Pont sur Seine/Petit Clamart – Editions Publibook, 1972.
J. Delaure, L’OAS contre de Gaulle – Paris, Fayard, 1994.
A. Bastien-Thiry, Mon père le dernier des fusillés – Paris, Michalon, 2005.