MIRABEAU, UN LIBERTINO AL SERVIZIO DELLA FRANCIA

di Giancarlo Ferraris -

 

Il gioco di Mirabeau fu un gioco aperto, condotto su due fronti: quello dell’Assemblea Nazionale Costituente, come rivoluzionario deciso ma al tempo stesso fautore della monarchia costituzionale, e quello della corte, dove cercò di convincere il re ad abbracciare la tesi della monarchia costituzionale e a non inimicarsi la Rivoluzione.

Un corpo deforme, un animo dissoluto, una mente illuminata

La Rivoluzione francese è piena di paradossi. Uno tra i tanti: il primo, grande, autorevole difensore del Terzo Stato cioè della borghesia e del popolo fu un nobile, un aristocratico, insomma un appartenente alla classe sociale più detestata e più odiata nella Francia di fine Settecento. Si chiamava Honoré Gabriel Riqueti conte di Mirabeau ed era un personaggio singolarissimo. Venne alla luce il 9 marzo 1749 a Le Bignon, un piccolo centro della regione della Loiret, nella Francia centrale, dal marchese Victor Riqueti, noto economista sostenitore della fisiocrazia, e da Marie-Geneviève de Vassan. I genitori trasalirono quando videro il loro neonato: aveva un piede storto, due grandi denti e una testa enorme. Come se non bastasse all’età di tre anni il piccolo Mirabeau fu colpito dal vaiolo, cosa molto comune all’epoca, che lo lasciò ampiamente sfigurato. Nonostante queste sventure il giovanissimo Honoré Gabriel Riqueti di Mirabeau nel 1767, anche per volontà del padre che voleva porre fine alla vita già dissoluta del figlio, entrò nell’Esercito francese dal quale fu però espulso a causa della sua passione per le donne. Riuscì tuttavia a rientrare nei ranghi militari e a prendere parte, come volontario, nel 1769, alla spedizione in Corsica. L’anno dopo lasciò la professione militare e sposò la ricca ereditiera Èmilie De Marignane dalla quale ebbe un figlio, che morì ancora piccolo, e da cui successivamente si separò riprendendo a condurre la sua esistenza libertina nel corso della quale contrasse moltissimi debiti tanto che il padre, per salvarlo dalle ire dei creditori, lo fece rinchiudere diverse volte nel castello di Vincennes, vicino a Parigi, e infine esiliare presso il castello di Joux, nella Borgogna. Durante questi soggiorni obbligati Mirabeau scrisse il Saggio sul dispotismo, primo abbozzo della sua concezione dello Stato costituzionale. Nel 1775 fuggì dal castello di Joux insieme a Marie Thérèse Sophie De Ruffey, moglie del marchese De Monnier che era presidente della Camera dei Conti della Borgogna e che aveva quasi cinquant’anni in più rispetto alla consorte. I due amanti, dopo un breve soggiorno in Svizzera, si rifugiarono nei Paesi Bassi. Qui vissero due anni fino a quando, dopo la denuncia del marchese De Monnier, nel 1777 furono arrestati. Marie Thérèse Sophie era incinta e venne ricoverata in una casa di cura a Parigi mentre Mirabeau, che era malato, fu rinchiuso nella torre più alta del castello di Vincennes. Risalgono a questo periodo le lettere d’amore che i due amanti si scambiarono e che furono pubblicate molti anni dopo con il titolo di Lettere a Sophie e il libello Sulle lettere di chachet e le prigioni dello Stato, nel quale Mirabeau si scaglia contro il sistema giudiziario francese dell’epoca, esalta le libertà individuali, condanna l’assolutismo del suo paese e afferma che il diritto di sovranità risiede in maniera unica e inalienabile nel popolo. Mirabeau rimase nel castello di Vinceness per tre anni e mezzo durante i quali venne a conoscenza della nascita e della successiva morte della figlia che Marie Thérèse Sophie aveva avuto da un altro uomo. Con la sua ex-amante non volle più avere nessun contatto, anzi le intentò anche un processo accusandola d’infedeltà, processo che tuttavia si risolse a favore della donna, la quale nel 1783 riuscì a ottenere la separazione legale. Mirabeau reagì violentemente attaccando un’altra volta le leggi francesi, tanto che fu costretto a riparare dapprima nei Paesi Bassi, insieme alla sua nuova amante Henriette-Amélie De Nehra, e poi in Inghilterra, di cui studiò a fondo la costituzione che rappresentò sempre un punto di riferimento nelle sue opere e nei sui progetti di riforma dello Stato francese. Nel 1785 fece ritorno in Francia, dove scrisse contro alcuni istituti bancari, e tra il 1786 e il 1787 svolse una missione segreta a Berlino in seguito alla quale redasse il libello Della monarchia prussiana sotto Federico il Grande e la Storia segreta della corte di Berlino, una raccolta, quest’ultima, di note originali e sconcertanti sui sovrani tedeschi che furono pubblicate anonime poco prima dello scoppio della Rivoluzione.
Nel 1789 Mirabeau, subito dopo la convocazione degli Stati Generali resasi necessaria per far fronte alla grave situazione economica, finanziaria e sociale in cui versava la Francia, cercò di ottenere un mandato come rappresentante della nobiltà in Provenza, ma ne venne impedito dagli stessi appartenenti alla classe nobiliare che non amavano affatto i suoi libelli polemici. Si schierò, allora, con il Terzo Stato che lo elesse deputato in Provenza, a Marsiglia e Aix-en-Provence. Nei mesi precedenti la convocazione degli Stati Generali Mirabeau aveva, invano, presentato al ministro degli esteri Armand Marc de Montmorin Saint-Hérem il piano di una nuova costituzione finalizzata a salvare la Francia dai complotti dell’aristocrazia e da un’eventuale – l’aveva intuita! – violenta rivoluzione popolare e aveva anche redatto un opuscolo contenente alcune osservazioni che sarebbero poi state alla base della sua azione politica: porre fine agli abusi della monarchia e delle classi sociali privilegiate; riformare l’istituto monarchico; eliminare le disuguaglianze civili e le ingiustizie sociali.

Il potere dell’immagine e della parola

Honoré Mirabeau

Honoré Mirabeau

La presenza originale e potente di Honoré Gabriel Riqueti conte di Mirabeau non poté passare inosservata all’assemblea degli Stati Generali nel maggio 1789. Così lo ritrasse a parole Madame de Staël, figlia di Jacques Necker, il ministro delle finanze di Luigi XVI, vedendolo sfilare a Versailles insieme agli altri deputati della nobiltà, del clero e del Terzo Stato: «Si notava soprattutto il conte Mirabeau. Nessun nome, eccetto il suo, era ancora celebre tra i seicento deputati del Terzo Stato. L’opinione sul suo valore era rafforzata dalla paura che ispirava la sua immoralità. Era difficile non osservarlo a lungo, una volta che lo si era visto: la sua immensa capigliatura lo distingueva tra tutti; si diceva che da lì dipendeva la sua forza, come quella di Sansone; il suo viso era caratterizzato dalla bruttezza e tutta la sua persona dava l’idea di una forza irregolare, una forza che si immaginava in un tribuno del popolo».
Un altro eloquente ritratto di Mirabeau lo tracciò François-René de Chateaubriand nelle sue Memorie d’oltretomba: «La bruttezza di Mirabeau, sovrapposta sul fondo della bellezza tipica della sua razza, produceva una sorta di possente figura da Giudizio Universale di Michelangelo […]. La natura sembrava aver modellato la sua testa o per l’impero o per la forca e scolpito le sue braccia o per stringere una nazione o per rapire una donna. Quando scuoteva la criniera e guardava il popolo ne arrestava lo slancio; quando levava la zampa mostrando le unghie, la plebe correva furiosa. In mezzo allo spaventoso disordine di una seduta l’ho visto alla tribuna cupo, brutto, immobile: faceva venire in mente il caos di John Milton, impassibile e senza forma al centro della sua confusione […]. Traeva la sua energia dai suoi vizi; quei vizi non nascevano da un temperamento frigido, poggiavano su passioni profonde, brucianti, tempestose.
Jules Michelet, autore di una poderosa Storia della Rivoluzione francese, così descrisse questo libertino intriso di “spiritualità” tutta illuministica: «Mirabeau attirava tutti gli sguardi, la sua immensa capigliatura, la sua testa leonina segnata da una possente bruttezza, suscitavano stupore, quasi spavento; non si riusciva a staccarne gli occhi. Tutti presentivano in lui la grande voce della Francia».
E dopo la presenza, la voce: una voce potente, che emerse in tutto il suo splendore il 23 giugno 1789 presso la sede della nuova Assemblea Nazionale, la quale era stata creata dai deputati del Terzo Stato e dai deputati del basso clero per dare alla Francia un nuovo ordinamento costituzionale dal momento che la monarchia, la nobiltà e l’alto clero avevano manifestato, più o meno palesemente, la volontà di non attuare nessuna riforma dello Stato francese. Quel giorno a Henri-Édvard de Dreux-Brézé, gran maestro di cerimonie di Luigi XVI, che era stato inviato proprio dal sovrano a consegnare ai deputati del Terzo Stato e del basso clero l’ordine di scioglimento dell’Assemblea Nazionale, il conte Mirabeau rispose, quasi aggredendolo: «Sì, signore, noi abbiamo sentito i propositi che sono stati suggeriti al re; e voi che sareste in grado di essere il suo emissario presso gli Stati Generali, voi che non avete qui né posto né voce, né diritto di parlare, voi non siete adatto a riportarci le sue parole. Tuttavia, per evitare ogni equivoco e ogni ritardo, io vi dichiaro che se siete stato incaricato di farci uscire di qui, voi dovete chiedere degli ordini per usare la forza; perché noi lasceremo i nostri posti soltanto con la forza delle baionette».
Da quel momento il re non fu più il sovrano che aveva nelle sue mani il potere divino e assoluto, ma soltanto un padrone, un estraneo, un avversario del popolo francese il quale iniziò ad onorare, amare e difendere Mirabeau. Il dado della Rivoluzione era stato tratto.

Il giocatore

Luigi XVI

Luigi XVI

Fin qui abbiamo detto molte cose pittoresche – se così possiamo esprimerci – su Honoré Gabriel Riqueti conte di Mirabeau: che era nato con un corpo deforme, che aveva un animo dissoluto, che era dotato di una mente illuminata, che era una presenza potente, che aveva una voce stentorea. A ciò dobbiamo aggiungere un altro aspetto, molto meno pittoresco ma molto più realistico: che in politica era un grande giocatore, un giocatore che nulla improvvisava o affidava alla sorte, ma che aveva invece ben chiaro qual era il gioco in corso e come si doveva giocare. Mirabeau pensava a un programma politico ben preciso, cosa apparsa già evidente, come abbiamo visto, nel piano costituzionale proposto invano al ministro Montmorin Saint-Hérem e nel successivo opuscolo redatto prima della convocazione degli Stati Generali. In sostanza il programma politico di Mirabeau prevedeva l’abbattimento del sistema feudale e la creazione di una monarchia costituzionale capace di garantire la libertà e l’uguaglianza civile attraverso la suddivisione dei poteri: all’Assemblea Nazionale sarebbe spettato il potere legislativo, al sovrano quello esecutivo, a una magistratura autonoma dalla politica quello giudiziario. In questo modo la monarchia si sarebbe messa alla testa della Rivoluzione, che Mirabeau intuiva essere un processo irreversibile, e l’avrebbe, almeno in parte, gestita e non subita, cosa che invece non accadde a causa sia di alcuni gravi errori commessi dalla monarchia medesima, sia per l’escalation terribilmente violenta a cui andò incontro la Rivoluzione stessa.
Nell’ottobre del 1789, dopo la presa della Bastiglia, l’abolizione dell’assolutismo e dei diritti feudali, la promulgazione della celeberrima Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e il trasferimento forzato della corte reale dalla reggia di Versailles a Parigi, Mirabeau iniziò a diventare il “referente rivoluzionario” del re Luigi XVI. Il nobile, che aveva aderito alla causa del Terzo Stato per il bene della Francia e della monarchia, suggerì al sovrano, ormai non più libero a Parigi, di riconoscere apertamente i provvedimenti adottati dall’Assemblea Nazionale Costituente (il nuovo nome assunto dall’Assemblea Nazionale), vale a dire l’abolizione dell’assolutismo e dei diritti feudali, al fine di generare un nuovo rapporto tra la monarchia e il popolo francese. Mirabeau era convinto che questa fosse l’unica via di salvezza per la monarchia e l’unico modo per la Francia di non piombare in un caos profondo: la Francia, infatti, era fermamente decisa a difendere le sue conquiste, ma al tempo stesso era ancora fedele al sovrano al quale spettava ora il delicato compito di non incrinare questo nuovo e delicato rapporto. Il progetto politico di Mirabeau si configurava, lo abbiamo già detto, come una vera e propria lezione di monarchia costituzionale. Nonostante le sue posizioni moderate, Mirabeau all’Assemblea Nazionale Costituente si dimostrò sempre un fervido sostenitore di principi rivoluzionari soprattutto per quanto concerne la riforma dell’amministrazione, il riconoscimento della libertà di stampa, la creazione degli assegnati, la nuova moneta della Francia rivoluzionaria, oltre a caldeggiare la decisione di procedere alla nazionalizzazione dei beni della Chiesa avvenuta effettivamente nel novembre 1789.
A partire dalla primavera del 1790 i rapporti di Mirabeau con la monarchia divennero molto più stretti. Risale al maggio di quell’anno una sua nota inviata a Luigi XVI nella quale, confermando, ancora una volta, il suo progetto politico, si legge: «M’impegno a servire con tutta la mia influenza i veri interessi del re: e perché questa affermazione non sembri troppo vaga, dichiaro di ritenere una controrivoluzione tanto pericolosa quanto criminale; trovo anche chimerica, in Francia, la speranza di un progetto di governo senza un capo rivestito dei poteri necessari per applicare la forza pubblica all’esecuzione della legge».
Quello di Mirabeau non fu un doppio gioco come si potrebbe facilmente pensare, da un lato deputato del Terzo Stato dall’altro lato politico al servizio “segreto” della monarchia. Il gioco di Mirabeau fu un gioco aperto, condotto per il bene della Francia su due fronti: quello dell’Assemblea Nazionale Costituente, dove fu un rivoluzionario deciso ma al tempo stesso fautore della monarchia costituzionale e quello della corte, dove cercò in tutti i modi di convincere il re ad abbracciare la tesi della monarchia costituzionale e a non inimicarsi la Rivoluzione. Il rafforzarsi del rapporto con Luigi XVI, che gli pagò tutti i grossissimi debiti che aveva contratto e stava ancora contraendo nella sua vita di libertino e gli permise anche di avere uno stipendio dignitoso, lo pose ancora di più nelle condizioni di professare le sue idee rivoluzionarie e al tempo stesso di lavorare per abbattere il vecchio mondo e costruirne uno nuovo capace però di ospitare al suo interno la monarchia, ovviamente non più assoluta, ma, come egli desiderava, costituzionale. Se il rapporto con Luigi XVI nel complesso funzionò, più difficile fu quello con la regina Maria Antonietta che rimproverava a Mirabeau di aver difeso all’Assemblea Nazionale Costituente soltanto il re e non gli altri membri della famiglia reale e di averla esclusa nell’eventualità di una reggenza.
Le grandi doti di Mirabeau – la sua intelligenza, la sua aggressività, la sua oratoria, la sua popolarità – suscitarono alla fine l’invidia dei compagni di lotta del Terzo Stato: furono proprio costoro a volere una legge che impediva ad un membro dell’Assemblea Nazionale Costituente di diventare ministro del re, carica che Mirabeau desiderava invece fortemente. I suoi rapporti con gli altri deputati del Terzo Stato iniziarono allora a incrinarsi anche perché, nonostante la sua elezione nel febbraio 1791 a presidente della stessa Assemblea Nazionale Costituente, egli si oppose invano a una legge tesa a colpire i nobili che erano fuggiti all’estero, i cosiddetti emigranti, e difese il diritto di veto assoluto del re mentre l’Assemblea votò e approvò solo il diritto di veto sospensivo.

La scomparsa

Il 2 aprile 1791 Honoré Gabriel Riqueti conte di Mirabeau moriva a Parigi, dopo aver impedito per quasi due anni che la Rivoluzione piombasse nel precipizio dove poi, effettivamente, sarebbe piombata. Lo storico François Furet lo definisce forse l’uomo più grande della Rivoluzione francese, perché ha saputo incarnarla senza perdersi in essa. In piena attività politica, durante la quale aveva espresso al meglio le sue doti di trascinatore di folle e la sua fede per un mondo migliore, aveva ripreso a vivere da libertino, da dissoluto. La sua agonia durò alcuni giorni, mentre la folla trepidava nell’attesa dei bollettini medici. Mirabeau fu cosciente fino all’ultimo, dando disposizioni e facendo testamento; soprattutto provvide affinché i documenti relativi al suo rapporto con la monarchia venissero conservati e non distrutti. Il suo funerale fu seguito da alcune centinaia di migliaia di persone. Venne sepolto al Pantheon, tra la tomba di Voltaire e il cenotafio di Rousseau. Madame de Staël scrisse: «Era la prima volta che un uomo celebre per i suoi scritti e per la sua eloquenza riceveva onori accordati sino allora ai grandi signori e ai guerrieri».
Il rispetto e l’amore del popolo per Mirabeau finirono improvvisamente più di due anni e mezzo dopo, quando nel novembre 1792 tra i documenti segreti di Luigi XVI, ormai destituito, furono rinvenute le carte di questo libertino che si era messo al servizio del suo paese. Le spoglie di Mirabeau furono allora ritenute indegne di restare nel Pantheon e vennero traslate in un piccolo cimitero. Successivamente furono riesumate di nuovo e, sembra, gettate con odio e disprezzo nelle fogne di Parigi.

Per saperne di più
L. Barthou, Mirabeau, Milano, 1964
J. Bénétruy, L’Atelier de Mirabeau, Paris, 1962
F.-R. de Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, Torino, 1995, vol. I
P. Dominque, Mirabeau, Paris, 1947
F. Furet – D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. it., Bari, 1974
J. Michelet, Storia della Rivoluzione francese, trad. it., Milano, 1989, vol. I
A. Vallentin, Mirabeau dans la Révolution, Paris, 1947