L’ITALIA NON È UN PAESE PER MEZZI CORAZZATI

di Giuliano Da Frè –

Dalla Prima guerra mondiale a oggi il nostro Paese ha sempre scontato una notevole arretratezza nella produzione di mezzi corazzati cingolati. Privi di apparato radio, modestamente corazzati e dotati di un armamento poco efficace, nel secondo conflitto mondiale non si sono mai dimostrati all’altezza dei mezzi avversari. Con il dopoguerra il parco veicolo fu rimpinguato con mezzi di importazione o prodotti su licenza. Un discorso diverso meritano invece i veicoli blindati ruotati.  

Leopard 1, in servizio in Italia dal 1971 al 2008

Leopard 1, in servizio in Italia dal 1971 al 2008

Parafrasando il titolo di un famoso romanzo di Cormac McCarthy (Non è un paese per vecchi), spesso si è detto che l’Italia non è un paese per giovani. Sicuramente, non è un paese per… carri armati. Un problema tecnico e inizialmente anche dottrinale, che prima caratterizzò il Regio Esercito, e poi fu in parte trasmesso all’Esercito Italiano dopo il 1946, sebbene dagli anni ’50 per fronteggiare le esigenze della Guerra Fredda e della difesa della “soglia di Gorizia” – e in profondità della Pianura Padana – venissero schierati carri armati di qualità e numero crescenti, con la completa meccanizzazione delle forze terrestri nel 1965-1980; ma tutti cingolati di provenienza straniera, anche se in parte realizzati su licenza. Dopo la caduta del Muro di Berlino è seguito un drastico ridimensionamento, mentre gli interventi oltremare in conflitti asimmetrici e insurrezionali, dalla Somalia all’Afghanistan, favorivano gli assetti leggeri e medi supportati da veicoli blindati ruotati, la cui costruzione vede l’industria italiana (Iveco DV, OTO Melara) in una posizione di preminenza anche nell’export. E così, in poco più di un amen, dai 1.500 carri operativi del 1987 (più oltre 500 mezzi in versione speciale e di riserva) si è passati a 200: e come vedremo di discutibile qualità, affiancati però da 400 autoblindo da combattimento ottime, ma legate a una diversa filosofia d’impiego.
Infatti, già l’ipotesi di intervenire nella guerra civile libica nel 2015 aveva fatto suonare i campanelli d’allarme allo Stato Maggiore; dove, fatti i conti dei tank ex sovietici e delle armi controcarro in mano alle fazioni in lotta, si evidenziò che dopo i tagli imposti dalla crisi economica i carri nazionali effettivamente impiegabili erano poche decine, e non adeguatamente aggiornati. E quanto sta accadendo in Ucraina dallo scorso 24 febbraio non può che rilanciare una riflessione. Bivalente: perché relativa sia al ritorno all’impiego in massa di mezzi corazzati pesanti (oltre ai tank ci sono anche portatruppe tipo IFV e APC [1] e semoventi d’artiglieria), sia alla loro accresciuta vulnerabilità a una nuova generazione di armi anticarro sofisticate, ma al tempo stesso di facile impiego e “lancia e dimentica”; senza contare che – come già si era già visto in questi ultimi anni in Libia e nella guerra tra Armenia e Azerbaijan del 2020 – parte della minaccia verticale all’impiego dei carri armati, un tempo appannaggio dei costosi aerei ed elicotteri anticarro, è ora stata trasferita ad assai meno dispendiosi, ma di crescente efficacia e sofisticazione, droni tipo UCAV [2], e alle ancora più spendibili loitering munition, o “munizioni circuitanti”: sorta di mini-droni kamikaze capaci di sorvolare a lungo un campo di battaglia sino a scovare il bersaglio più adatto.
Un mix di attrito tradizionale e di minacce tecnologiche che sottolinea brutalmente l’inadeguatezza qualitativa e quantitativa del parco mezzi corazzati pesanti italiano, se comprendiamo anche IFV/APC [3]: 200 carri sono pochi – e troppo poco. A titolo di esempio citiamo la Polonia, che già stava sostituendo dagli anni 2000 i suoi tank di epoca sovietica con 250 Leopard-2 tedeschi di seconda mano ma validamente modernizzati, e nel 2020 aveva stretto accordi con Stati Uniti e Corea del Sud per acquistare rispettivamente carri M-1 Abrams e K-2 Black Panther di nuova generazione. Ebbene: con lo scoppio della guerra ucraina tale processo di potenziamento (peraltro esteso a tutti i comparti dell’apparato militare polacco) ha subito un’accelerazione spettacolare, e Varsavia riceverà nei prossimi anni, dopo una prima fornitura di emergenza di 116 Abrams di seconda mano, qualcosa come 1.250 tank fiammanti, tra M-1A2SEPv3 americani e K-2 sudcoreani, questi ultimi in buona parte da costruire su licenza.

Da una guerra all’altra

Carro medio M11 del 1939 e carro leggero L3

Carro medio M11 del 1939 e carro leggero L3

Durante la Prima guerra mondiale il fronte italiano si prestava poco all’impiego di mezzi motorizzati e poi meccanizzati su cingoli, con limitati spazi di manovra lungo il basso Isonzo, all’altezza della “soglia” tra Gorizia, Monfalcone e Trieste. L’esperienza recente del conflitto coloniale in Libia aveva per la verità portato allo sviluppo di autoblindo (mezzi corazzati leggeri su ruote), come la sgraziata e rustica Automitragliatrice Bianchi, la Fiat-15 di impiego coloniale, o la più riuscita Lancia-1Z, realizzata in 140 esemplari, gli ultimi dei quali impiegati sino al 1943. Ma il loro uso fu limitato e i pochi successi colti solo sfruttando lo sfondamento di Vittorio Veneto negli ultimi giorni di guerra, quando si era tornati alla manovra ad ampio raggio.
All’epoca i carri armati in servizio erano pochissimi: ossia 4 ottimi Renault FT (mezzi leggeri francesi diffusissimi, ancora impiegati nel 1939-1945), in due versioni e acquistati per test comparativi; e il Fiat-2000, tank di progettazione nazionale da ben 40 tonnellate, ma realizzato in soli 2 prototipi demoliti a fine anni ’30.
Tenendo conto della successiva mediocre vocazione italiana nella realizzazione autoctona di carri armati, in realtà l’esordio resta di tutto rispetto: perché il Fiat-2000 era un mezzo pesantemente protetto (anche grazie a un design pulito e azzeccato, e all’efficiente torretta girevole) e armato – un cannone da 65 mm e ben 7 mitragliatrici -, dalle caratteristiche valide e interessanti, come dimostra la copia realizzata fedelmente nel 2017-2020 grazie allo sforzo di varie realtà coordinate dall’ Associazione Nazionale Carristi d’Italia. Sebbene venisse preferito al carro pesante francese Schneider CA1, di cui era pure stato acquistato un esemplare da testare, il Fiat-2000 fu tuttavia giudicato troppo ingombrante. Nel dopoguerra si puntò invece sui carri leggeri, considerati assieme alle autoblindo come i più utili per l’impiego in Libia, dove dal 1919 al 1932 sarebbe stata combattuta una feroce campagna contro-insurrezionale, coda dell’invasione del 1911.
Sulla base delle esperienze effettuate nel 1918 coi riuscitissimi carri Renault, fu così sviluppato l’altrettanto valido Fiat-3000, derivante dal tank francese. Fu impiegato a partire dal 1921 in 2 varianti principali (Mod-21 e Mod-30, progettato nel 1929 e meglio armato), che però furono realizzate in appena 150 esemplari – per un 10 per cento venduti a paesi esteri – dei 1.400 previsti nel 1918. Inoltre, dopo essersi dimostrati validi in Libia e nella guerra d’Etiopia, risultavano già superati in Spagna, dove infatti non furono inviati, sebbene fossero ancora impiegati nei reparti territoriali tra 1940 e 1943, anno in cui una ventina di Fiat-3000 si fecero massacrare contrattaccando gli sbarchi alleati a Gela.
Va detto che i carri standard del Regio Esercito tra anni ’30 e ’40 non erano certo molto più avanzati del Fiat-3000 (riclassificato L5/21 durante la guerra). Dal 1930 fu sviluppato un carro leggero da un cingolato Vickers Carden-Lloyd Mk-VI inglese acquistato per test. La famosa “tankette”, largamente esportata o copiata in virtù delle sue ottime qualità di efficienza, mobilità e manutenzione, era tuttavia stata concepita per limitati compiti di supporto, ricognizione e operazioni a bassa intensità (come nella guerra del Chaco tra Bolivia e Paraguay del 1932-1935, o in scenari insurrezionali), non certo per il combattimento tra carri armati. Tuttavia la sua versione italiana, in servizio a partire dal 1933 in 2 varianti principali Fiat-Ansaldo L3/33 [4] e L3/35, armate con 2 mitragliatrici pesanti in casamatta (e il lanciafiamme nelle versioni speciali, che comprendevano anche la cacciacarri con fucilone antitank svizzero Solothurn da 20 mm), e prodotte in oltre 2.000 esemplari – denominati anche C.V. (carri veloci) 33 e 35 – in parte esportati, nel giugno 1940 equipaggiava i reparti carristi da combattimento veri e propri: come iscrivere un’utilitaria al campionato di F1. Frutto di inadeguatezza dottrinale ma anche, e forse soprattutto, tecnico-industriale.
Le esperienze della guerra civile spagnola (disastrose per i CV-33/35 alle prese col T-26 sovietico da 11 tonnellate e con cannone da 37 o 45 mm e corazzatura in piastre saldate e non rivettate) furono metabolizzate con fatica. Le scarse risorse disponibili, tra 1935 e 1939 dissipate nella velleitaria avventura imperiale in Africa Orientale e poi mal investite in Spagna, furono ulteriormente sprecate nel tentativo di potenziare un mezzo meccanicamente valido ma inadeguato alla bisogna, derivando dagli L3 il Fiat-Ansaldo L6/40: mezzo che, sebbene equipaggiato con motore più potente e torretta girevole, nasceva non solo vecchio ma anche del tutto inadatto quale carro di rottura, essendo armato ancora con un cannoncino da 20 mm. Si era già nel 1939 e alla prova del fuoco mancava poco: ai 200 L6/40 (prodotto complessivamente in non oltre 500 unità, comprese le varianti) nel 1940 si aggiungevano soltanto un centinaio di carri medi M11/39, per di più in parte distaccati in Etiopia, e con solo due battaglioni in Libia da schierare contro gli inglesi. All’epoca in realtà nemmeno i tank inglesi “Matilda” e “Cruiser” erano dei prodigi tecnici: ma dietro c’erano una organizzazione e una dottrina di impiego rodati da anni di studi ed esercitazioni, mentre la superiorità tecnica in materia di radio, qualità degli acciai e in parte anche dei cannoni addottati era innegabile. Infatti i carri italiani erano privi di mezzi di comunicazione, con l’eccezione di quelli dei comandanti di reparto, la corazzatura restava composta da piastre d’accio rivettate e non saldate – processo che le rendeva più solide rispetto a quelle imbullonate che sotto il fuoco tendevano a “sfaldarsi”, e con un risparmio sul peso complessivo -, e la qualità stessa del materiale era mediocre, essendo l’acciaio migliore e più costoso destinato alle corazzate della Marina. Solo sull’armamento, la motorizzazione e la struttura complessiva dei mezzi si fece qualche progresso, lento e quantitativamente limitato; e sempre rincorrendo l’avversario – per non parlare dell’alleato tedesco, che invece sfornava tank sempre più efficaci.
Fortunatamente il pessimo M11/39 (eppure frutto di ben 7 anni di studi) armato con un inadeguato cannone da 37 mm peraltro in casamatta, fu considerato solo un mezzo di transizione, spazzato via nei primi mesi di guerra, quando finalmente arrivò ai reparti il decisamente più efficace M13/40. Prodotto in 710 esemplari (più 200 scafi per il cannone semovente da 75 mm), e migliorato con le successive versioni M14/41 e M15/42 – pure base per degli ottimi semoventi d’artiglieria, compreso quello da 105 mm denominato “Bassotto” e considerato tra i migliori della guerra anche dai tedeschi -, il nuovo carro medio era comunque in ritardo di 2 o 3 anni. Ma si batté bene, col nuovo cannone da 47 mm derivato da un pezzo controcarro in torretta girevole, già nelle battaglie di El-Mechili e Beda Fomm del gennaio 1941, inquadrato assieme ai carri più mediocri nella Brigata corazzata speciale del generale Valentino Babini [5], per poi partecipare alle principali azioni del Regio Esercito nei Balcani e in Nordafrica. Fu affiancato dal similare ma migliorato – soprattutto nel propulsore – M14/41, prodotto in 752 esemplari e seguito dai 200 M15/42, punto d’arrivo del carro medio italiano, meglio protetti e con un cannone sempre da 47 mm ma di nuovo modello e a tiro rapido.
Fu inoltre sviluppato dal 1940 anche un carro pesante, il primo dai tempi del valido e dimenticato Fiat-2000: ma il P26/40, pur presentando caratteristiche interessanti e sulla carta ben armato e protetto, entrerà in servizio con pochissimi esemplari solo nella fatidica estate del 1943, stretta tra il 25 luglio e l’8 settembre, e peraltro afflitto da grossi problemi di dentizione soprattutto del motore, oltre che da molti dei vecchi difetti dei tank italiani in materia di radio e qualità delle corazzature. Di una versione migliorata denominata P30/43 furono poi prodotti solo dei modelli in legno.
Che con mezzi del genere, costantemente arretrati rispetto a paesi amici e nemici, e con un ritardato sviluppo dottrinale – il “padre” del carrismo italiano, il colonnello Alfredo Bennicelli (1879-1960), nel primo dopoguerra si era dato all’agricoltura e alla politica [6], mentre come accennato Babini fu costretto a rielaborare le esperienze del 1940-1941 in un campo di prigionia -, ha del miracoloso che i reparti corazzati italiani riuscissero a ottenere dei successi; soprattutto la divisione “Ariete” a Bir el Gobi e Ain-el Gazala, per poi sacrificarsi a El-Alamein, come riconobbe lo stesso Rommel (“Con l’Ariete perdemmo i nostri più vecchi camerati italiani, dai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre preteso più di quanto fossero in grado di fare con il loro cattivo armamento”). Anche i carristi delle divisioni “Centauro” e “Littorio” si batterono bene: ma appunto il valore troppo spesso dovette sopperire a carenze tecnico-industriali tipiche delle velleità guerriere del regime, e drammaticamente evidenti.
Alla fine della guerra, nell’estate 1945, e dopo che gli Alleati avevano volutamente privato di componenti corazzate i reparti italiani cobelligeranti del Sud (Cil, Gruppi di combattimento), alla specialità carrista restavano poche decine di carri leggeri e medi superstiti, spesso malconci, ormai impiegabili per meri compiti addestrativi o di ordine pubblico – assieme alle autoblindo furono impiegati sino agli anni ’50 da Carabinieri e Polizia o messi in deposito. C’erano però da studiare le esperienze di guerra pagate a carissimo prezzo, e giovani quadri intermedi in attesa di una rinascita.

Dalla ricostruzione alla meccanizzazione di massa

4-carro-armato-m60-a1-in-dotazione-alla-brigata-corazzata-ariete

M-60 A1 in-dotazione alla Brigata corazzata Ariete

E si ripartì nel 1947 da questa notevole expertise, e dai malconci residuati bellici disponibili, coi quali alimentare la componente corazzata autorizzata dal Trattato di pace di Parigi, che concedeva all’Italia solo 200 carri; per questi ultimi fu costituito a Bologna il Parco Veicoli Corazzati, con depositi e officine, mentre al Forte Tiburtino a Roma nasceva la Scuola Carristi, e nel 1948 veniva ricostituita la prima brigata corazzata postbellica “Ariete”, sul 132° Reggimento carri, dal 1952 elevata a divisione.
Nel 1951 i limiti del trattato del ’47 furono definitivamente annullati, dopo l’adesione italiana alla NATO: si arrivò così alla fusione della Scuola Carristi con quella della Cavalleria blindata, creando la Scuola Truppe Corazzate con sede a Caserta, mentre veniva costituita una seconda brigata corazzata, la “Centauro” (divisione dal 1959) [7].
Ad alimentare reparti addestrativi e prime grandi unità operative furono centinaia di mezzi corazzati, surplus abbandonati dagli Alleati in Italia (spesso in pessime condizioni), a migliaia nei cosiddetti campi ARAR [8]. Sin dal 1946 fu permesso un parziale ripristino di tali mezzi, che comprendevano autoblindo Humber inglesi, Staghound e Scout Car americane, e i semicingolati M-3/5: alle unità addestrative e ai reparti esploranti furono affidati i carri leggeri Stuart, per la verità già superati a causa della scarsa protezione e del mediocre cannone da 37 mm, ma pur sempre più avanzati rispetto ai tank tipo M e L ereditati dal Regio Esercito. Inoltre la vera novità furono i carri medi M-4 Sherman. Non il meglio su piazza: la prima versione del 1942 era poco protetta e il posizionamento delle munizioni e dei serbatoi del motore a benzina li rendevano facili a incendiarsi e a esplodere quando colpiti. Tuttavia per i carristi italiani questi tank dotati di motori affidabili, con una struttura modernamente concepita, equipaggiati con radio e intercom adeguati (sebbene i carri recuperati presentassero apparati in cattive condizioni) e un ottimo cannone da 75 mm a tiro rapido stabilizzato con giroscopio, rappresentavano a dispetto dei difetti e di una crescente obsolescenza – la produzione era cessata nel 1945 – un autentico salto generazionale: ai tank abbandonati in Italia si aggiunsero poi i primi lotti ceduti al rinascente Esercito italiano. Lo Sherman fu impiegato in varie versioni, compresa la più recente M-4A4 (con un ultimo lotto consegnato nel 1950) e la cacciacarri “Firefly” inglese, oltre alle varianti semovente d’artiglieria e lanciarazzi. Tuttavia si trattava di mezzi già superati e logorati, benché si comportassero ancora bene in Corea nel 1950 [9], e sin dal 1953 iniziarono a lasciare i reparti di prima linea passando in riserva o ad attività addestrativa sino ai primi anni ’60, mentre alcune decine di esemplari venivano interrati nelle postazioni fortificate della “soglia di Gorizia”. Altri esemplari modificati come bulldozer corazzati sarebbero stati impiegati a lungo, anche per smantellare le barricate durante i moti in Calabria del 1971.
Nel 1950 grazie ai primi aiuti MDAP (Mutual Defense Assistance Program) iniziarono a essere trasferiti – oltre ai citati Sherman M-4A4 – mezzi corazzati cingolati e ruotati destinati ai reparti esploranti, sempre di costruzione bellica, ma più recenti: le autoblinde erano le valide M-8 Greyhound (più le M-20 portatruppe), mentre su cingoli arrivarono 518 eccellenti carri leggeri M-24 Chaffee, forse il miglior tank della categoria “pesi leggeri” della guerra, con la sua affidabilità, una discreta protezione che si univa alla notevole manovrabilità, mentre l’armamento era incentrato su una variante dello stesso cannone da 75 mm degli Sherman [10].
Nel 1953 giunsero anche 100 carri pesanti sempre costruiti nel 1945, tipo M-26 Pershing armati con cannone da 90 mm, per poter affrontare i letali “Tigre” tedeschi. Tuttavia i primi impegni operativi dell’Esercito Italiano, come l’attivazione del Corpo di sicurezza destinato alla Somalia nel 1950 – circa 6.000 effettivi con 20 carri leggeri Stuart e 24 autoblindo -, e la guerra sfiorata con la Iugoslavia nel 1953 [11], e l’esperienza della guerra coreana combattuta lungo una penisola lunga e montagnosa simile all’Italia, che aveva visto in difficoltà Pershing e Chaffee mentre erano i più datati Sherman a cavarsela meglio, davano da riflettere. Occorreva un carro medio che equilibrasse al meglio potenza di fuoco, protezione e manovrabilità: e la risposta fu il primo tank americano di generazione postbellica M-47 Patton, in produzione dal 1950. Nel 1952 iniziarono le consegne all’Italia di questi nuovi tank armati con cannone da 90 mm, adeguate corazzatura e mobilità, sebbene il potente propulsore fosse un divoratore di benzina e l’armamento non fosse stabilizzato, ma solo dotato di ottiche avanzate per il tiro. In pochi anni ne giunsero 900, sostituendo gli Sherman. Dopo il 1960, mentre peraltro l’Esercito rinunciava – per un trentennio – alle autoblindo, passate a Carabinieri e Polizia, andava tuttavia affrontata una più radicale fase di modernizzazione della componente corazzata e la definitiva meccanizzazione dei reparti di cavalleria, fanteria e artiglieria. Per questi ultimi gli anni ’60 e ’70 videro l’adozione di oltre 4.000 veicoli corazzati della famiglia M-113 e di 300 semoventi da 155 e 203 mm, mentre per i tank si batterono due strade. La più rapida vide l’acquisto tra 1962 e 1970 di altri 1.500 M-47, questa volta usati e provenienti dai surplus tedesco-americani: in parte andarono in riserva per cannibalizzazione, ma il grosso (compresi 130 carri assegnati alla neonata – 1963 – XIª Brigata meccanizzata dei Carabinieri) sostituì entro il 1970 Chaffee e Pershing, questi ultimi privati del motore e interrati al posto degli Sherman lungo il confine fortificato orientale, dove sarebbero rimasti sino al 1993. Troppo costosi si rivelarono invece i progetti per modernizzare in quello stesso periodo gli M-47 con nuovi motori diesel che garantivano maggiore autonomia, e il cannone da 105 mm che stava diventando lo standard NATO degli anni ’60: le modifiche riguardarono pochi esemplari, e nel 1964 fu invece ordinato un primo lotto di carri M-60 Patton-2, evoluzione degli M-47 e M-48 adeguata alla seconda generazione di tank. Il nuovo carro era un eccellente mezzo da 50 tonnellate con corazzatura frontale equivalente a 260 mm, cui un potente turbodiesel garantiva la stessa velocità dell’M-47 da 44 t (48 kmh) ma con un’autonomia incrementata del 250%; in produzione dal 1959, era armato con un cannone M68 da 105/52 mm derivato dall’eccellente Royal Ordnance L7 inglese. I primi 100 carri dei mille pianificati dai generali italiani furono consegnati nel 1965-1966; ma accanto ai tanti pregi emersero limitazioni legate soprattutto a pesi e ingombri per questi carri, mentre anche il costo eccessivo portava a tagliarne il numero prima a 800 e poi a 200, assemblati da OTO-Melara nel 1968-1970 e consegnati solo alla divisione “Ariete” schierata in Friuli, per evitare i problemi legati ai trasporti ferroviari, mentre per quelli stradali fu necessario acquistare nuovi veicoli.
A questo punto restava la necessità di trovare un sostituto, almeno nei reparti corazzati di prima linea, per l’M-47. E nel 1970 il governo italiano decise di fare ricorso per la prima volta a un carro non a stelle e strisce. Fu infatti selezionato come MBT (Main battle tank) il Leopard-1 sviluppato dalla tedesca Krauss-Maffei e in produzione dal 1965. Il primo contratto portò alla consegna di 200 MBT nella versione Leopard-1A2 (più 81 carri nelle versioni genio pionieri e recupero), tutti consegnati nel 1971-1974 direttamente dall’azienda tedesca, mentre nel 1974 partivano le realizzazioni su licenza presso OTO-Melara: prima per altri 600 Leopard-1A2 completati nel 1979, mentre nel 1978 un ulteriore contratto riguardò 120 carri costruiti nel 1980-1983 nella più avanzata versione A3, equipaggiata con una torretta ridisegnata e corazzatura spaziata, che migliorava la protezione del 50%. Tra 1983 e 1988 furono infine prodotti sempre su licenza altri 96 carri pionieri e recupero, e 64 Leopard-Biber (“castoro”), la versione gettaponte, che andarono a sostituire gli ormai inadeguati veicoli derivati da Pershing e Patton. Il nuovo MBT da 42 tonnellate coniugava alla perfezione armamento (sempre incentrato sul cannone da 105/52 mm, stabilizzato e con più avanzati apparati per la condotta del tiro), manovrabilità – 600 km di autonomia e una velocità massima di 65 kmh su strada – e protezione. Quest’ultima in realtà era inferiore per spessore a quella del Patton-2, ma la sagoma meno visibile del tank tedesco, la sua agilità e l’elevata qualità balistica dell’acciaio impiegato ne riequilibravano le prestazioni.

Tra dismissioni e lezioni ucraine

L'Ariete, di produzione italiana, attualmente in aggiornamento

L’Ariete, di produzione italiana, attualmente in aggiornamento

Con la sua entrata in servizio iniziò pertanto la dismissione degli M-47, che sarebbe stata completata tra 1981 e 1992, sebbene all’inizio degli anni ’80 ne restassero in servizio o riserva almeno 600 tra Esercito e Carabinieri. Tuttavia negli anni ’70 si registrò una rapida evoluzione tecnologica, legata a fattori tecnici (l’introduzione di sistemi di puntamento laser, computer balistici, cannoni tedeschi ad anima liscia da 120/44 mm, propulsori diesel o a turbogas compatti, e nuove corazzature composite come la britannica Chobham che impiegava kevlar, titanio e strati di ceramica); e anche operativi, con le lezioni apprese nella guerra del Kippur del 1973, che vide un massiccio impiego di tank di seconda generazione e di missili anticarro sovietici di nuovo modello.
Evoluzione che avrebbe portato alla produzione di tank di terza generazione, rendendo in parte superati i pur recenti M-60 e in prospettiva anche i Leopard-1, senza interventi di radicale aggiornamento che per gli ingombranti Patton-2 furono esclusi, limitandosi a pochi upgrade minori.
Nel 1975 era inoltre partita una profonda riorganizzazione dell’Esercito tesa a completarne la meccanizzazione attraverso la creazione di 10 nuove brigate pluriarma abolendo i reggimenti, mentre nel 1986 sarebbero stati sciolti i comandi divisionali, compresi quelli di “Ariete” e “Centauro”. La riorganizzazione fu supportata dal varo di una “legge promozionale” speciale nel 1977, che rilanciava i programmi in essere e ne finanziava di nuovi, come il VCC-80, l’elicottero da combattimento, il rinnovamento dei sistemi anticarro e antiaerei.
Per la componente corazzata si arrivò nei primi anni ’80 a impostare 4 programmi: due miravano ad affiancare e in parte sostituire gli M-113 con un APC ruotato, reintroducendo le autoblindo dopo decenni di assenza, e l’impiego di alcune Fiat 6614 dei Carabinieri in Libano nel 1982-1984. Inoltre fu lanciato il citato programma per il VCC-80, destinato a operare coi tank [12]. Per questi ultimi, anche la sostituzione degli M-47 nelle brigate dei comandi centro-meridionali fu demandata a 450 blindo ruotate cacciacarri, le 8×8 Centauro B-1 armate con cannone da 105 mm, le più potenti dell’epoca.
Il programma centrale era però l’introduzione di un carro armato di terza generazione. Su piazza i più promettenti erano l’Abrams americano e il Leopard-2 tedesco. Se quest’ultimo era ben più della semplice evoluzione del carro in servizio anche in Italia, di cui riprendeva i concetti di mobilità e potenza di fuoco cari ai panzer-general germanici aggiornandoli con le nuove tecnologie e integrando il tutto su una piattaforma in produzione dal 1979, il tank americano [13] si stava sviluppando con maggiore fatica, e all’epoca risultava equipaggiato con un potente motore turbogas che garantiva si una grande mobilità ma con consumi enormi, e ancora col cannone da 105 mm, mentre solo dal 1985 apparvero le versioni definitive con motore più efficiente, la nuova – e controversa – corazzatura all’uranio impoverito e il cannone da 120 mm Rheinmetall Rh-120/L44 già ovviamente adottato sul tank tedesco. Nel 1984, scartato l’ancora problematico (e costoso) tank americano, lo Stato Maggiore sondò Krauss Maffei per una prima fornitura di 300 Leopard-2 destinati a sostituire gli M-60, che sarebbero passati in riserva al posto degli M-47 stoccati, mentre si guardava a un programma comune italo-tedesco per ammodernare i Leopard-1 non solo con le nuove direzioni di tiro con laser e computer ma almeno in parte anche col cannone da 120 mm. Contemporaneamente si fece avanti il consorzio formato da Fiat-Iveco e OTO-Melara, che già aveva realizzato su licenza M-60, Leopard-1 e M-113, ed era coinvolto nei programmi per i nuovi mezzi ruotati e su cingoli. Inoltre nel 1977 OTO-Melara aveva avviato lo sviluppo dell’OF-40, carro da 45 t derivato da una rielaborazione del Leopard-1 con telemetro laser e corazzatura spaziata [14]. Alla fine considerazioni economiche – anche il carro tedesco era costoso, ed erano anni di lira debole versus marco e dollaro forti – e industriali aprirono la strada al “carro tricolore”, indicazione iniziale di quello che sarebbe stato il C-1 Ariete, il cui prototipo fu realizzato nel 1986-1987 assieme a quelli del VCC-80, dell’APC ruotato Puma, e all’autoblindo cacciacarri Centauro-1. Se quest’ultima confermò le ottime premesse e finì ordinata in ben 400 esemplari in produzione dal 1991, la fine della Guerra Fredda calò come una mannaia sui programmi per i cingolati pesanti. Del VCC-80 si sarebbe riparlato solo nel 1998, mentre l’Ariete finiva sulla graticola anche per essere stato sviluppato 10 anni dopo i suoi rivali, sebbene ne presentasse le caratteristiche standard (corazzatura composita, cannone da 120/44 mm, propulsore diesel compatto di nuova generazione, apparati di tiro laser e computer balistico). La produzione iniziò soltanto nel 1995, con consegne effettuate entro il 2002, e per soli 200 esemplari dei 700 ipotizzati 15 anni prima, suddivisi in 2 lotti di 400 e 300, questi ultimi in versione migliorata Ariete C-2, cui avrebbero dovuto affiancarsi oltre alle previste 450 Centauro almeno 500 Leopard-1 aggiornati allo standard A5, ancora con cannone da 105 mm ma sofisticati apparati di tiro e telemetro-laser e corazzatura aggiuntiva/reattiva.
Ma negli anni ’90 il carro armato finì emarginato da eserciti occidentali sempre più impegnati in scenari asimmetrici: con quello italiano inviato in Kurdistan, Somalia e Mozambico tra 1991 e 1994. I rischieramenti in Bosnia nell’inverno 1995-1996 e Kosovo (estate 1999) certo videro accanto alle ormai iconiche Centauro un massiccio impiego di cingolati pesanti, compresi i carri Leopard-1A5 aggiornati nel 1993-1996 ma in soli 120 esemplari, VCC-1/2 e semoventi M-109L: ma in situazioni di peace-keeping e non di combattimento, mentre in Iraq e Afghanistan tra 2001 e 2021 furono più utili i blindati ruotati Freccia e Lince progettati per resistere a mine e trappole esplosive, che non i pochi Ariete e VCC Dardo schierati. Anzi gli equipaggi di questi mezzi furono costantemente impiegati nelle missioni operative su veicoli ruotati o in altri incarichi, mentre per lungo tempo non si svolsero esercitazioni con carri armati oltre il livello di squadrone. Contemporaneamente, gli M-60 (pure impiegati in Somalia nel 1993) venivano radiati nel 1995, mentre tra 1991 e 2002 anche gli 800 Leopard-1A2 non aggiornati vanivano ritirati dal servizio e stoccati nella grande area deposito di Lenta, nel Vercellese, soprattutto per cannibalizzazione. D’altra parte emergevano sempre più chiaramente i difetti di tank (e VCC), arrivati in servizio non solo 15 anni dopo Abrams e Leopard-2, ma anche frutto di quella inadeguatezza produttiva dell’industria italiana in materia di corazzati su cingoli, che come abbiamo visto affondava le sue radici nella prima metà del XX secolo, mentre dopo il 1990 si è semmai imposta nella produzione di blindo ruotati, come il popolarissimo 4×4 Lince, e la famiglia Centauro-Freccia, acquistata in massa anche da Stati Uniti e Brasile.
L’Ariete risultava meno protetto dei carri occidentali di terza generazione, e l’adozione di un propulsore meno potente ne ha limitato l’impiego dei kit di corazzatura aggiuntiva. Inoltre, sebbene il sistema digitale di condotta del tiro TURMS di Leonardo fosse sofisticato e ottenesse successi di export, l’Ariete poteva sparare con precisione in movimento a velocità inferiore rispetto agli altri tank.
Dal 2014, l’ipotesi di un intervento a guida italiana nella Libia sconvolta dalla nuova guerra civile, e il rinnovarsi della minaccia di un grande esercito convenzionale col ritorno dell’aggressività russa negli scacchieri baltico e ucraino [15], riaccesero dopo un quarto di secolo di crescente disinteresse i riflettori sul parco mezzi corazzati italiano, che risultava alquanto malconcio, con appena 50 Ariete su 200 considerati funzionanti, e comunque di problematico impiego in scenari saturi di nuovi sistemi anticarro. Ne va dimenticato che i 120 Leopard-1A5 erano stati passati in riserva nel 2008, mentre anche i restanti Leopard nelle versioni specializzate risultavano inadeguati senza aggiornamenti.
Da allora qualcosa si è mosso, con ulteriori accelerazioni dopo l’attacco russo all’Ucraina e le prime lezioni emerse, mentre comunque prosegue l’acquisizione di centinaia di blindo ruotati medi e pesanti, compresi dal 2020 i nuovi cacciacarri Centauro-2, radicale evoluzione degli ottimi mezzi degli anni ’90 e con cannone da 120 mm.
Per i VCC Dardo si è deciso di non procedere ad accanimenti terapeutici, e l’Esercito ha emesso un requisito per sostituirli già dal 2025 assieme ai residui cingolati della famiglia M-113 [16], con 680 nuovi mezzi del programma AICS (Armored Infantry Combat System).
Per i tank, il percorso sarà più lungo. Sin dal 2014 si è ragionato su come mitigare i difetti dell’Ariete senza spese eccessive, e nel 2019 è infine stato lanciato un programma-ponte in attesa della sua sostituzione. Se per quest’ultimo passaggio si guarda al 2035 e soprattutto al programma franco-tedesco Main Ground Combat System (MGCS), per un tank di nuova generazione che sia anche un “sistema di sistemi”, capace di controllare gruppi di sofisticati droni e interconnessa in tempo reale con altre piattaforme, per il controverso Ariete è arrivato il momento dell’Aggiornamento di Mezza Vita (AMV), con un primo contratto nel 2019 da 35 milioni di euro per modificare in via sperimentale 3 carri, prima di passare all’upgrade di altri 125, continuando ad alimentare così 3 soli battaglioni: ossia quelli inquadrati nei reggimenti 32° e 132° della brigata “Ariete”, e nel 4° assegnato alla brigata meccanizzata “Garibaldi”, oltre ai reparti addestrativi. Da vedere se le lezioni ucraine porteranno alla costituzione, come auspicabile, di almeno un altro battaglione per l’Ariete. Nel frattempo, il nuovo Documento programmatico pluriennale della difesa DPP-2022-2024, licenziato nel luglio 2022, conferma l’avvio del programma AMV con uno stanziamento di quasi 850 milioni di euro sui 980 previsti, dando così il via libera all’ammodernamento dopo i test condotti sui prototipi modificati, considerati soddisfacenti, sebbene alcuni analisti restino dubbiosi. Contemporaneamente è stato avviato il radicale aggiornamento per 58 Leopard nelle versioni specializzate (compresa quella gettaponte Biber modificata allo standard MLC-60), su un’esigenza di 100 espressa dallo Stato Maggiore.
Gli Ariete aggiornati saranno riconsegnati a partire dal 2023, innanzitutto rinnovati nel propulsore: la scarsa potenza del pur affidabile Iveco V12 MTCA, di appena 1.250 cavalli, aveva infatti limitato grandemente l’impiego dei kit di corazzatura aggiuntiva acquistati dopo i primi impeghi operativi nel 2004, che avevano evidenziato la non adeguata protezione del tank italiano di fronte alle nuove minacce anche asimmetriche. Kit coi quali il peso dell’Ariete saliva da 55 a 62,5 tonnellate, con gravi conseguenze su mobilità ed efficienza del mezzo. Con l’upgrade il motore viene non sostituito (operazione troppo lunga e costosa) ma radicalmente modificato per spremerne altri 250 cavalli di potenza, mentre vengono adottati nuovi cingoli, freni e sistemi elettronici, mutuati anche dalla Centauro-2. La nuova sofisticatissima cacciacarri ruotata ispirerà anche il rinnovamento dei sensori di bordo, come il sistema optronico multispettrale Attila-D, apparati di autoprotezione e computer balistico, mentre la direzione di tiro TURMS sarà aggiornata allo stato dell’arte al pari dei sistemi di comunicazione. Interventi che dovrebbero garantire l’operatività dell’Ariete a livelli soddisfacenti sino al 2035, quando saranno sostituiti da qualcosa di nuovo, ancora in fase di sviluppo: ma difficilmente “made in Italy”, che almeno a livello produttivo anche verso il 2000 ha confermato che l’Italia non un paese per carri armati, nonostante il salto di qualità operato sul piano dottrinale e operativo dopo la dura esperienza della guerra del 1940-1945.

Note

[1] Per Infantry Fighting Vehicles (IFV), veicolo da combattimento corazzato per la fanteria (VCC per l’Italia), e Armoured Personnel Carrier (APC), mezzo corazzato da trasporto truppe.

[2] Unmanned Combat Aerial Vehicle, drone da combattimento armato, differente dallo Unmanned Aerial Vehicle (UAV) destinato alla ricognizione.

[3] Criticità che non si estende sul piano qualitativo ai semoventi d’artiglieria, visto che l’Esercito Italiano impiega i lanciarazzi americani M-270 (degli anni ’90 ma aggiornati radicalmente nell’ultimo decennio allo standard GMLRS), e l’obice-semovente tedesco da 155/52 mm Panzerhaubitze PZH-2000, costruito su licenza nel 2004-2010, considerati entrambi tra i migliori del mondo: ma disponibili rispettivamente in soli 22 (dei 50 previsti nel 1988) e 68 esemplari, questi ultimi andati a sostituire i ben 280 obici semoventi M-109G/L degli anni ’70.

[4] La classificazione alfanumerica dei carri del Regio Esercito indicava con la lettera seguita dal primo numero la tipologia (L-leggero; M-medio; P-pesante) e il peso del mezzo in tonnellate; il secondo numero riguardava in genere – ma non sempre – l’anno della sua accettazione.

[5] Nato nel 1889 e morto in un incidente stradale nel 1952 mentre era Ispettore generale di Fanteria, ufficiale carrista dal 1925 e veterano della guerra civile spagnola dove aveva guidato con abilità un raggruppamento corazzato ottenendo la promozione a generale di brigata per merito, Babini si distinse – nei limiti delle possibilità materiali dei suoi carri – anche in Nordafrica, coprendo la ritirata delle truppe italiane nel gennaio 1941, prima di essere catturato ad Agedabia.

[6] Fu richiamato nel 1940 come generale di brigata, ma restando ai margini.

[7] Nel 1952 veniva creata una terza divisione corazzata, la “Pozzuolo del Friuli”, stanziata in Lazio ma sciolta già nel 1958 per rafforzare altre 3 divisioni meccanizzate, e convertita a sua volta nel 1959 in brigata di cavalleria corazzata.

[8] Azienda Rilievo Alienazione Residuati; tra questi uno era stato allestito nel 1945-1947 nell’autodromo di Monza, dove si poté tornare a correre solo nel 1948.

[9] Dopo averli ricostruiti come M-50 Super Sherman, Israele li impiegò validamente nelle guerre del 1967 e 1973, mentre gli ultimi 3 Sherman operativi sono stati ritirati dal Paraguay nel 2018.

[10] Lo Chaffee divenne popolare con l’esemplare impiegato nel film del 1955 “Don Camillo e l’onorevole Peppone”, anche se quello conservato a scopo museale a Brescello è il più pesante Pershing.

[11] E Tito dopo la rottura con l’URSS del 1948 aveva ottenuto aiuti MDAP americani, comprendenti un migliaio di carri armati Sherman ed M-47.

[12] Questi programmi non sono stati particolarmente felici, e hanno portato alla costruzione solo dopo il 2000, tre lustri dopo la presentazione dei prototipi, di 200 VCC Dardo e 580 VBL Puma, mezzi in parte già superati nei confronti delle nuove sfide.

[13] Abrams e Leopard-2 nacquero sulle ceneri proprio di un programma tedesco-americano, l’ambizioso MBT-70 varato nel 1963 e affossato nel 1970 dopo la costruzione di 14 prototipi.

[14] Realizzato per l’export, come carro andò male, con soli 39 esemplari per gli Emirati Arabi, mentre maggior successo ebbe la variante Palmaria, semovente con obice da 155/41 mm e venduto in circa 250 esemplari a Libia, Nigeria e Argentina, mentre alcune fonti ipotizzano il recupero di 10 mezzi da destinare all’Ucraina.

[15] Contemporaneamente Mosca presentava 2 nuovi mezzi pesanti concepiti all’interno della “famiglia” denominata Armata, ossia il carro T-14 e il super-IFV T-15, rimasti però sinora allo stato di prototipi.

[16] E’ comunque previsto un investimento di 200 milioni di euro dal 2022 al 2032 per mantenere operativi 135 Dardo e 159 M-113.