LE SCORRERIE DELL’ABATE CESARE, BANDITO NELLA BASILICATA DEL XVII SECOLO

di Michele Strazza -

 

Fattosi bandito per un torto subito, l’abate Cesare, al secolo Cesare Riccardi, imperversò con la sua banda nella zona del Vulture grazie alla copertura offerta da frati e feudatari.

Nell’Italia meridionale, dopo il fallimento della rivoluzione antifeudale del 1647-48 ripresero, in misura ancora più accentuata, le angherie dei baroni, specialmente verso i tanti “sospettati” di essersi rivoltati, che finirono per pagare con la vita la propria scelta, come è testimoniato dall’elevato numero di morti violente annotate nei registri parrocchiali dei defunti dopo il 1648.
Lo spadroneggiare dei nobili era peraltro supportata dall’assenza delle autorità centrali. La difficilissima situazione economico-sociale, aggravata da carestie ed epidemie avevano poi indebolito ulteriormente il fragile tessuto sociale.
È dunque in questa cornice storica che esplode il fenomeno del brigantaggio secentesco. Il banditismo meridionale nel ’600 risulta caratterizzato, pur con le dovute differenze dal brigantaggio postunitario, non da episodi isolati, ma dall’imperversare di forti bande che, operando tra Campania, Basilicata e Puglia, non avevano timore di attaccare le più alte autorità provinciali, espugnando persino interi paesi.
È quanto avvenne alla cittadina lucana di San Mauro Forte, assalita da 80 “ladroni” che, dopo aver massacrato i Belmone, ricchi proprietari locali, si allontanarono con 12 muli carichi di bottino delle case derubate.

Scena di brigantaggio

Scena di brigantaggio

Anche per i briganti del ‘600, come sarà per quelli dell’800, vi erano reti di protezioni a vari livelli. Innanzitutto gli stessi esponenti della classe dominante, contro cui spesso era insorto il banditismo, offrivano rifugio ai vari capibanda, utilizzandoli per i propri interessi.
Poi vi è la protezione data da alcune comunità monastiche, che ebbe un rilievo non trascurabile, salvando dalla cattura significative figure di briganti, come nel 1665 secondo la narrazione di un cronista di Santa Maria di Banzi.
In Basilicata, infatti, nel bosco di Banzi, una comitiva di banditi venne sorpresa da una “numerosa squadra di birri”. Ma i briganti riuscirono a sfuggire alla inevitabile cattura proprio grazie all’asilo concesso loro dalla Badia dove “serrate le porte e col favore de’ frati fortificatisi, si misero in istato di difesa”.
Anche gli stessi frati, armatisi a loro volta di “schioppi”, si diedero da fare per respingere i militi della Regia Udienza i quali, dopo aver visto cadere sul campo un caporale e “altro birro”, si precipitarono nella vicina Genzano per ottenere rinforzi. E difatti, suonate le campane a martello, si radunarono “un buon numero di gente armata” che seguirono i “birri” per espugnare il monastero. Ma i briganti erano già fuggiti nel bosco circostante mentre nella Badia erano rimasti pochi frati ed alcuni contadini i quali, “chiusa e serrata la porta, si tenevano quivi ben guardati”.
I religiosi, che temevano i soldati di campagna più dei banditi, consentirono ai soldati di entrare per appurare l’assenza dei briganti dietro promessa della loro incolumità. Senonché, appena entrati, i “birri”, dimenticando il giuramento prestato, “si diedero a percuotere, ferire e insanguinare religiosi e contadini”, arrestando un frate, tal padre Alessandro di Matera, colpevole di aver colpito “a colpo di schioppo” il caporale e un altro soldato.

L’azione, seppur qualche volta molto efficace, delle autorità non riuscì a fermare del tutto la piaga del banditismo che imperversava anche per la forte presenza di briganti delle province campane e pugliesi. Così anche in Basilicata fa incursioni il bandito soprannominato “Centomila Diavoli” che, nel novembre del 1671, era arrivato a sequestrare i figli del feudatario di Capaccio nel Cilento. Saccheggiano, inoltre, i paesi lucani i banditi Nicola Rosato della Pia e quello soprannominato “Cent’anni”.
Infine si spinge in Basilicata un altro temibile bandito, l’abate Cesare, al secolo Cesare Riccardi. Divenuto bandito per un torto subito, questo famoso brigante, al comando di una banda di un centinaio di uomini, dalla zona di Eboli e dal Cilento attraversa l’Ofanto e raggiunge la zona del Vulture, scontrandosi con i soldati in agro di San Fele, dove viene ferito.
Ancora una volta sono i ricchi feudatari locali a intervenire per proteggere il brigante, onde conquistarsi un credito da mettere all’incasso successivamente per i propri interessi. Dopo essere stato curato, dunque, dagli agenti dei Caracciolo di Torella, raggiunge la Terra d’Otranto e Taranto per poi ritornare in Basilicata, risalendo la Valle del Bradano, riscuotendo le simpatie della povera gente. A lui si uniscono spesso nelle scorrerie le bande di “Centomila Diavoli” e di “Cent’anni”. Quest’ultimo assale il procaccia di Tursi prima di spostarsi nel Salernitano.

L'abate Cesare in una incisione del XVII secolo

L’abate Cesare in una incisione del XVII secolo

Ma è il 26 maggio del 1672 che l’abate Cesare mette a segno il suo colpo da maestro attaccando il nuovo Preside della Regia Udienza di Basilicata, il duca Pinelli di Tocco, che è in viaggio per Matera.
La banda del Cesare, rinforzata da quella dei “Marchetti” composta da 80 uomini, attacca la scorta del Preside che subisce 5 feriti, conquistando un ricco bottino ma perdendo 4 uomini della banda “Marchetti”. Dopo aver raggiunto la Puglia ed aver depredato, presso Barletta, il procaccia di Lecce, la comitiva dei banditi tocca Taranto per poi rientrare in Basilicata nella pianura ionica dove si scontra con i soldati della Regia Udienza.
Fuggito nella Valle del Basento, nell’estate del 1672 l’abate Cesare viene ferito in un nuovo conflitto a fuoco con i “birri” dell’Udienza ma riesce a salvarsi grazie ancora una volta all’intervento di religiosi. I padri francescani, infatti, lo accolgono nel convento di Pietrapertosa e lo curano. Nonostante ciò, però, a causa delle ferite riportate, dopo alcuni giorni il famoso brigante muore, costringendo la sua banda a eleggere un nuovo capo. Ma nessuno è in grado di prendere il posto del bandito scomparso, men che meno suo fratello, il notaio Felice Antonio, il quale abbandona la banda e con due compagni si dirige verso Venezia.

Anche Cent’Anni, intanto, cade sul campo in uno scontro presso Pisciotta, costringendo la comitiva dei briganti dell’abate Cesare, ridotta ormai a 43 elementi, a scegliere come capo il bandito Diluvio e a riparare nelle campagne di Eboli.
Tallonati dai soldati, costretti a dividersi in piccole bande, i briganti subiscono importanti defezioni al proprio interno. È infatti uno di loro, tal Pietro de Petrillo, a cui viene promessa l’impunità, a fornire alle autorità gli elementi necessari per colpire i protettori della banda e per dimezzarla considerevolmente. Dopo la cattura dello stesso Diluvio, i pochi superstiti rimasti si stringono intorno al brigante soprannominato “Caporale Serpente”, al secolo Antonio Campillo di Lioni, che dall’Irpinia raggiunge la zona del Vulture.

Per saperne di più

De Blasiis G., Frammento di un Diario inedito napoletano, in “Archivio Storico per le Prov. Napoletane”, a. XIV (1889).
Fortunato G., Badie feudi e baroni della valle di Vitalba, Lacaita Ed., 1964.
Pedio T., Banditi e ribelli dopo la rivolta antifeudale del 1647-1648, in “Radici” n.3/1989.
Pennetti G., Stigliano. Notizie storiche con 34 documenti inediti, Napoli, D’Auria Ed., 1899.
Racioppi G., Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, voll. 1-2, Roma 1902, ristampa a cura della Deputazione di Storia Patria Lucana, Potenza 1970.