LE GUERRE NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO (parte seconda 1974-2011)

di Daniela Franceschi -

Dalla dittatura di Mobutu a quella di Kabila, è il difficile rapporto tra il debole Stato centrale e le autorità tribali locali – complicato dalla mancanza di chiarezza sulla divisione dei poteri – a dare origine ai conflitti che insanguinano il Paese.

Il regime dittatoriale di Mobutu si caratterizzò per la sua natura autocratica, cleptocratica e clientelare. Il sistema capitalistico instaurato nel Congo/Zaire indipendente si mantenne a un livello embrionale, non garantendo né un miglioramento effettivo delle condizioni della popolazione né uno sviluppo economico saldo e duraturo; infatti, Mobutu utilizzò la “zairinizzazione” in ambito economico per distribuire benefici alle élite e agli apparati governativi. La nazionalizzazione delle industrie più importanti devastò il settore privato e distrusse le infrastrutture commerciali e industriali. Agli inizi del 1974, l’economia dello Zaire fu gravemente colpita dal crollo del prezzo del rame, che rappresentava il prodotto più esportato dal Paese, e da un inflazione galoppante causata dalle spese necessarie per mantenere un apparato statuale divenuto elefantiaco. Nel tentativo di evitare il collasso economico, le istituzioni monetarie internazionali costrinsero Mobutu ad attuare delle riforme drastiche, che consistettero nel taglio delle prestazioni del welfare, nella privatizzazione delle aziende nazionalizzate e nella svalutazione della moneta. Un altro disastro, sotto il profilo politico, si trasformò in un onere economico di lunga data.
Lo Zaire manteneva dei forti legami con i movimenti di liberazione in Angola fin dal 1960, ma questi legami cambiarono quando la rivoluzione del 1974 fece sì che l’indipendenza angolana fosse molto più probabile. Mobutu decise di inviare delle truppe nel luglio 1975, invadendo il distretto di Cabinda, mentre il Sudafrica invadeva l’Angola dal Sud. Il Movement Populaire Pour La Liberation d’Angola (MPLA), con l’aiuto dei “gendarmi del Katanga” (con tale espressione si fa riferimento ai soldati, legati formalmente a Moise Tshombe durante la secessione del Katanga, che non furono integrati nell’esercito nazionale),64 sconfisse l’esercito dello Zaire. L’area di Cabinda era al centro delle mire anche delle compagnie petrolifere occidentali, in primo luogo della GULF.

Oltre ai costi della guerra, lo Zaire dovette sopportare anche un impatto significativo sulle esportazioni, rese più costose dalla chiusura, nel 1975, della ferrovia Benguela, che attraversava l’Angola, nonché il sequestro del trasporto ferroviario verso i porti di Beira e Maputo in Mozambico l’anno successivo. Nel contempo, i “gendarmi Katangan” si erano ricostituiti, principalmente in Angola, organizzandosi in unità denominate “frecce nere” e instaurando un’alleanza di comodo con il MPLA. Nel 1968, le frecce nere adottarono la denominazione di Front pour la Liberation Nationale du Congo (FLNC). Nel 1977 e nel 1978, l’FLNC invase per due volte consecutive la provincia di Shaba, scontrandosi con l’esercito nazionale, le Forces Armée Zairoises (FAZ), che riuscì a domare la rivolta con l’aiuto della Francia, del Belgio e degli Stati Uniti. Queste due invasioni e la reazione zairese non solo mostrarono la tremenda debolezza delle forze armate, ma minacciarono il cuore economico dello Zaire, i ricavi derivanti dalle esportazioni minerarie, poiché senza il controllo sulla produzione mineraria non vi era alcuna speranza di rimborsare i debiti o venire ad accordi con qualsiasi creditore internazionale.
Le due crisi di Shaba convinsero i creditori esteri della necessità di un approccio a lungo termine, da attuarsi con rigorosi meccanismi di controllo. Nel giugno del 1978, si tenne a Bruxelles una Conferenza dei creditori, focalizzata sulla prevenzione di un terzo intervento nella zona di Shaba e sulla stabilizzazione dell’economia congolese. Per il medio termine, fu chiesto un programma di austerità, un miglior controllo delle risorse finanziarie e la pace con l’Angola.

Il regime dittatoriale di Mobutu dovette affrontare una seria opposizione interna, che provocò scioperi in tutti i settori produttivi e agitazioni studentesche represse dall’esercito. Mentre i creditori esteri avevano già imposto un ‘aggiustamento strutturale’ per l’economia, alla fine del 1970 iniziarono ad insistere per una ‘liberalizzazione politica’. In precedenza, Mobutu era stato visto come un politico forte, ma il suo dominio era quasi collassato due volte durante gli interventi a Shaba. Inoltre, le condizioni di vita erano si erano così massicciamente e rapidamente deteriorate che il suo supporto nelle città era quasi nullo, dovendo rivolgersi alle forze armate per sopprimere l’opposizione spontanea nella capitale.
La pressione esterna ed interna portò ad una serie di cambiamenti politici, noti con il nome di ‘liberalizzazione’. Nel luglio 1977 l’ufficio del Primo Ministro, carica abolita nel 1966, fu rintrodotto. Nel 1977, si tennero le elezioni per la Presidenza, il68 Politburo e il Parlamento. Questa liberalizzazione fu solo apparente, poiché Mobutu represse ogni forma di dissenso, non solo della società civile, ma anche dell’esercito, di cui temeva un colpo di Stato. Il regime passò da una crisi all’altra. Nel gennaio del 1980, un rimpasto di Governo portò alla sostituzione di 13 dei 22 Ministri. Ad aprile dello stesso anno, 4000 studenti che protestavano contro il regime furono costretti ad entrare nell’esercito, tale provvedimento fu accompagnato dalla chiusura di scuole e università.
Il periodo di transizione tra il 1990 e il 1997 si caratterizzò, inoltre, per una crescente etnicizzazione della politica. Nel 1990, Mobutu cercò di rispondere e aggirare la pressione nazionale e internazionale creando la Terza Repubblica, una nuova forma statuale, aperta al multipartismo politico, in cui il Partito e lo Stato avrebbero costituito due entità distinte. In meno di un anno si formarono almeno 200 Partiti, tra cui l’Unione pour la Démocratie et le Progrès Social (UDPS) di Etienne Tshisekedi, l’Union des Féderalistes et des Républicains Independentes (UFERI) di Nguza Karl-I-Bond, nipote di Moise Tshombe, e il Parti Démocrate et sociale Chrétien (PDSC) di Joseph Ileo. È interessante osservare come queste formazioni politiche si fondassero unicamente sull’appartenenza etnica e regionale, inoltre, avevano la caratteristica di essere guidate da leader già da molti anni attivi politicamente, molti dei quali aveva servito come Ministro o Premier per qualche tempo, e adesso stavano costruendo apertamente le loro reti patrimoniali.

L’opposizione organizzò una Conférence Nationale Souveraine nell’agosto del 1991 per decidere il futuro del Paese e formare un’opposizione unitaria contro il MPR di Mobutu, ma la nomina di Nguza Karl-I-Bond come Primo Ministro divise il movimento. La Conferenza Nazionale non solo era frammentata, ma aveva dovuto confrontarsi con i gravi disordini scoppiati nel settembre 1991, quando i soldati non pagati avevano iniziato a saccheggiare Kinshasa e altri centri urbani.
Questa situazione di caos proseguì nel 1992, allorquando violenti scontri etnici in molte parti della Nazione furono fermati solo con l’aiuto dei soldati belgi e francesi, che ufficialmente avevano il mandato di evacuare i loro rispettivi concittadini. In Shaba, gli scontri interetnici riguardarono principalmente due gruppi rivali, i Luba e i Lunda.  La Conferenza Nazionale e il regime di Mobutu iniziarono a lottare su chi fosse realmente al potere. Mentre la Conferenza Nazionale formò un Governo di coalizione, l’esercito e molti Ministeri erano, formalmente, ancora sotto il controllo di Mobutu.  Nel contempo, si svilupparono dei conflitti sul possesso della terra nel Congo orientale, che spinsero 200.000 persone a rifugiarsi nel Kivu per sfuggire alle violenze della Divisione Spéciale Présidentielle (DSP) e della Garde civile, inviate da Mobutu per sedare la rivolta. I Kinyarwanda erano stati privati della cittadinanza e dell’accesso alla terra da una Commissione Governativa, in quanto ritenuti rifugiati e quindi passibili di espulsione dal Paese.

Il contesto geopolitico regionale stava divenendo sempre più complesso dal punto di vista etnico; infatti, dall’ottobre del 1990 il Rwandan Patriotic Front (RPF) aveva avviato delle operazioni militari contro l’Uganda. Il regime di Mobutu intraprese, quindi, una puntuale verifica dei requisiti per la cittadinanza dei Banyarwanda, che appoggiavano espressamente il RPF, negandola a coloro i cui antenati erano immigrati nel Paese dopo la Conferenza di Berlino del 1885. Di conseguenza, molte persone che parlavano lingue ruandesi furono private della cittadinanza.   Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, l’aspetto etnico dei conflitti interni al Congo fu aggravato dall’arrivo nel Nord e nel Sud Kivu di circa 50.000 rifugiati del Burundi, in fuga dal Paese dopo l’assassinio del Presidente Melchior Ndadaye. Nel 1994, un altro importante fattore di destabilizzazione fu l’afflusso nel Congo orientale di più di un milione di rifugiati Hutu dal Ruanda, in conseguenza del genocidio e della vittoria del Rwandan Patriotic Front. L’arrivo di un numero così elevato di Hutu ruppe il delicato equilibrio etnico dell’area, aumentando la marginalizzazione dei Banyamulenge, associati al gruppo etnico ruandese dei Tutsi. Mobutu cercò di sfruttare la situazione esacerbando l’antagonismo etnico, specialmente etichettando i residenti che parlavano lingue ruandesi come stranieri, al servizio di un Paese estero, il Ruanda. Il 28 aprile del 1995, il Parlamento adottò una risoluzione che privava della cittadinanza congolese i Banyarwanda e i Banyamulenge. Nell’ottobre del 1996, il Governatore del Sud Kivu decise di espellere dalla Regione entrambi i gruppi etnici in ottemperanza alla risoluzione del Parlamento.

La palese incapacità del regime dittatoriale di Mobutu di risolvere, senza l’uso della violenza, i conflitti interni era dovuta al disimpegno dei suoi alleati occidentali nel contesto della fine della guerra fredda. Mobutu non era più considerato un alleato strategico nella lotta al comunismo in Africa, bensì, un compagno scomodo, anche alla luce della violazione dei diritti umani, per esempio il massacro degli studenti universitari a Lubumbashi nel 1990, e della repressione di ogni richiesta di Istituzioni democratiche.
Nel biennio 1996-1997 ebbe luogo la Prima Guerra del Congo, che vide insorgere l’area orientale del Paese sotto la guida di Laurent Kabila, leader dell’Alliance des Forces Démocratiques de La Liberation (AFDL), che aveva raccolto intorno a sé i gruppi etnici avversi al regime, tra cui i Mai-Mai e i Banyamulenge. La vittoria di Kabila non sarebbe stata possibile senza l’aiuto finanziario e militare dell’Uganda, del Burundi e del Ruanda, infatti, questi tre Paesi decisero nel 1996 di rovesciare Mobutu e instaurare un nuovo Governo a Kinshasa.
Le motivazioni di questo supporto da parte dei vicini del Congo non sono ancora del tutto chiare. Presumibilmente, l’obiettivo primario del Ruanda era quello di sbarazzarsi della minaccia rappresentata dalla milizia Interahamwe (“Coloro che combattono insieme”, gruppo armato ruandese Hutu responsabile del genocidio del 1994) nel Congo orientale e sostenere la popolazione kinyarwanda nel Kivu. L’Uganda e l’Angola erano interessate alla propria sicurezza interna. È molto diffusa la convinzione che il Ruanda e l’Uganda avessero l’intenzione di saccheggiare le ricchezze della RDC, utilizzando come pretesto la minaccia per il gruppo etnico dei kinyarwanda nel Kivu. Nel 1996 il lungo regno dittatoriale di Mobutu cadde. I conflitti interetnici, che hanno avuto un ruolo così preponderante nella storia della maggior parte dei Paesi africani, presero il sopravvento subito dopo l’insediamento di Kabila.

Al momento della presa del potere, era evidente che molti dei suoi sostenitori, detentori di alte cariche politiche e militari, non parlavano né il francese né il lingala, una delle quattro lingue nazionali. La legittimità di Kabila fu messa sotto accusa dagli oppositori interni, infatti, era considerato un fantoccio nelle mani dell’Uganda e del Ruanda. La situazione interna del Congo divenne ancora più precaria quando le pressioni internazionali e nazionali per investigare sui massacri etnici, specialmente di Hutu, avvenuti durante la sua marcia verso Kinshasa, divennero più forti; nel momento in cui i tentativi di Kabila di impedire un’indagine delle Nazioni Unite si dimostrarono infruttuosi, egli si allontanò dai precedenti alleati. Nel contempo, assicuratosi il sostegno della milizia Interahamwe, aveva iniziato una campagna genocidaria contro i tutsi.
Alla fine del luglio del 1998, Kabila ordinò l’allontanamento di tutti i consiglieri ruandesi e ugandesi da Kinshasa. Questo atto fu considerato un attacco dai suoi ex alleati, che immediatamente si rivolsero contro di lui. Dopo pochi giorni, i Banyamulunge a Goma, con l’aiuto di una parte dell’esercito che aveva sostenuto Mobutu, insorsero, appoggiati dal Ruanda, nel Nord Kivu. Mentre i gruppi armati ribelli avevano iniziato ad agire, l’ala politica di questa nuova rivolta doveva ancora costituirsi, evento che avvenneThis happened dieci giorni dopo, il 12 agosto, quando si formò il Congolese Rally for Democracy (RCD)th. Entro due settimane, l’RCD – dopo il dirottamento di un aereo con l’aiuto delle forze armate ugandesi e ruandesi- aveva stabilito le sue truppe nel Congo occidentale e controllava la centrale idroelettrica di Inga e il porto di Matadi. Solo una settimana più tardi, conquistava la città di Kisangani e minacciava Kinshasa.  Nel mese di settembre, fu fondato un altro gruppo ribelle: il Mouvement de Libération du Congo (MLC) sotto la guida di Jean-Pierre Bemba, sostenuto dall’ Uganda. L’alleanza tra Uganda e Ruanda non impedì che l’RCD e il MLC si scontrassero più volte, in particolare durante la battaglia di Kisangani.  Le ragioni della scissione tra Uganda e Ruanda, e di conseguenza dei movimenti da loro sostenuti, sono ancora fonte di discussione, ma la spiegazione più logica sembra essere la mancanza di un accordo sul leader più idoneo e sulla loro quota di saccheggi nella RDC. Il governo di Kabila era seriamente in pericolo, mentre le sue truppe- o almeno quelle che non avevano disertato o si erano rivoltate contro di lui alleandosi con i militanti hutu- stavano combattendo in tutto il Paese. Kabila chiese, quindi, l’aiuto di altri Paesi africani, assicurandosi il sostegno della Southern African Development Community (SADC) e l’invio di truppe da parte di Angola, Zimbabwe, Namibia, Ciad, Libia e Sudan.

Dal settembre del 1998, si instaurò una guerra multiforme, la Seconda guerra del Congo o, come spesso è indicata, la “prima guerra mondiale africana”,93 contrassegnata da diversi accordi e cessate il fuoco non rispettati, nonostante il grande impegno della diplomazia internazionale. La guerra è continuata ufficialmente fino al 2002.
I tentativi di pacificazione avevano portato alla stipula di tre accordi: nel gennaio del 1999, il cessate il fuoco di Windhoek; nel luglio del 1999, l’accordo di Lusaka, firmato da Angola, Namibia, Zimbabwe, Ruanda, Uganda, Congo e successivamente dal MLC, ma non dall’RCD; nell’aprile del 2002, l’Accordo di Sun City. Le Nazioni Unite furono coinvolte nell’agosto del 1999, dopo l’Accordo di Lusaka. Il primo intervento si concretizzò nell’invio di 90 unità di personale di collegamento per sostenere il cessate il fuoco, ma dal febbraio 2000 la MONUC, Mission des Nations Unies en République Démocratique du Congo, fu composta da 5.537 soldati. I combattimenti proseguirono con numerosi scontri e offensive in tutto il Paese.
Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila fu assassinato e suo figlio Joseph96 prestò giuramento come Presidente. In questo periodo, il Congo era de facto diviso in tre aree: il territorio schierato con l’Uganda; il territorio schierato con il Ruanda; il territorio controllato dal Governo. In ogni area, erano operative autorità native e milizie etniche e i molti tentativi per mettere fine alla violenza furono vani fino all’Accordo di Sun City, dopo diciannove mesi di dialogo inter-congolese. Anche se questo Trattato non fermò completamente la guerra, la violenza fu significativamente ridotta. It Esso fornì un quadro di riferimento per un Governo unificato, multi-partitico e un calendario per le elezioni. It L’accordo non fu in grado di portare alla formazione di un Governo o alla redazione di una Costituzione, poiché i principali responsabili della guerra non erano concordi sulle condizioni proposte, di conseguenza, l’RCD e diversi Partiti dell’opposizione non armata, incluso l’ex Primo Ministro Etienne Tshisekedi, rifiutarono di firmare.

Bambini salutano due soldati dell'ONU in Congo - MONUSCO Photos

Bambini salutano due soldati dell’ONU in Congo – MONUSCO Photos

Ulteriori passi furono necessari per porre fine alla guerra: vale a dire un accordo di pace tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, siglato a Pretoria in Sud Africa il 30 luglio del 2002,98 e un trattato di pace tra la RDC e l’Uganda, firmato il 6 settembre del 2002 a Luanda in Angola. Il primo accordo aveva due obiettivi principali: il ritiro dei soldati ruandesi dalla RDC; il disarmo della milizia Interahamwe e delle ex truppe governative ancora operanti nella RDC orientale. Nell’ottobre del 2002, il Ruanda confermò il ritiro delle sue truppe, circostanza convalidata dalla missione ONU. Il secondo Accordo, che prevedeva il ritiro dei soldati ugandesi da Buni, nella Provincia di Ituri, ha incontrato molte difficoltà per la sua applicazione pratica. Soltanto il 17 dicembre del 2002th i belligeranti furono pronti a firmare il “Global and All-Inclusive Agreement” che ha indicato il percorso verso un nuovo Governo e ha ufficialmente messo fine alla guerra. I firmatari furono il G​​overno nazionale, l’MLC; l’RCD; l’RCD-ML; l’RCD-N, l’opposizione politica interna, la società civile, i Mai-Mai.  L’Accordo conteneva un piano per unificare il paese, disarmare e integrare i belligeranti, redigere una Costituzione e tenere elezioni nazionali.
Le conseguenze economiche e sociali della guerra furono devastanti per il Congo, sia in termini umani, milioni di morti, sia in termini materiali, con la distruzione di infrastrutture e la caduta del PIL del 20%. Dal 2002 al 2006 la Repubblica Democratica del Congo dovette affrontare molteplici sfide, soprattutto in ambito politico, per avviare un vero processo di democratizzazione, che, purtroppo, non stato è completato. Si insediava un Governo di transizione sotto la presidenza di Joseph Kabila, con quattro Vice Presidenti, in attesa delle elezioni programmate per il 2005.

È di particolare importanza analizzare, fra i vari atti compiuti dal Governo provvisorio, la Legge sulla nazionalità, il Global and Inclusive Act of The Transition del 2002, modificato nel 2004, che avrebbe dovuto porre fine alla disputa sulla nazionalità degli immigrati ruandesi. L’art. 6 della Legge stabiliva “che ogni persona appartenente ad un gruppo etnico o ad una nazionalità la cui popolazione fosse stata parte del territorio poi divenuto il Congo indipendente, era di origine congolese”. Di conseguenza, gli immigrati ruandesi entrati in Congo dopo il 1960 acquisivano la cittadinanza congolese.
La Legge non faceva alcun riferimento ai rifugiati tutsi, più di 190.000, che erano immigrati in Congo dopo il 1960 e ai loro figli nati nel Paese. L’art. 21 della Legge cercava di sanare, almeno in parte, questo vulnus stabilendo che una persona, discendente da immigrati ruandesi, potesse scegliere la nazionalità congolese una volta raggiunta la maggiore età. La Costituzione del 2006 ristabilì un impianto rappresentativo proporzionale basato su una struttura semi-parlamentare, con l’intento di coniugare il sistema presidenziale e quello parlamentare, apportando una maggiore stabilità politica. Nella prospettiva di evitare ulteriori conflitti fra il Governo centrale e gli apparati provinciali, si optava per un sistema federale, con la creazione di 25 province, oltre alla capitale. La nuova Costituzione fu approvata dal Senato e dal Parlamento e confermata, successivamente, da un referendum nel febbraio del 2006.

Il processo elettorale del 2006 rappresentava il più rilevante evento storico in una Nazione che non aveva avuto libere elezioni da quarant’anni. Le elezioni sembrarono portare una ventata di aria fresca nel dibattito istituzionale, creando la speranza che le Istituzioni dello Stato e il Governo centrale potessero usufruire di una maggiore legittimità. Il primo turno delle elezioni presidenziali si tenne nel luglio del 2006. Dato il risultato delle votazioni, Kabila ottenne il 45% e lo sfidante Bemba il 20%, fu necessario un secondo turno. Il clima nel Paese era molto instabile e turbolento, infatti, si verificarono dei disordini nella capitale, che furono tenuti sotto controllo dalle truppe della Missione ONU. Entrambi i candidati costruirono delle alleanze con dei Partiti i cui candidati Presidenti non avevano ottenuto un grande risultato elettorale; Kabila formò l’Alliance de la Majorité Présidentielle (AMP), che comprendeva 31 partiti politici, mentre Bemba fondò il Regroupement des Nationalistes Congolais (RENACO), composto da 23 formazioni politiche. Il secondo turno si tenne nell’ottobre del 2006, consegnando la vittoria a Joseph Kabila, che divenne Presidente, mettendo così fine al periodo di transizione. Kabila scelse come Primo Ministro Antoine Gizenga, un anziano uomo politico che nel 1960 era stato Vice Primo Ministro.
Sotto il profilo economico, il nuovo Governo iniziò subito a lavorare con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale per risolvere i problemi legati alle entrate dello Stato. La creazione di nuove regole economiche comportò conseguentemente la realizzazione di un nuovo quadro giuridico che indirizzasse le diverse sfere dell’economia nazionale. L’insediamento del Governo di Kabila non risolse le difficoltà legate alla progressiva etnicizzazione della sfera politica, infatti, la maggior parte delle formazioni politiche si basavano sull’appartenenza etnica. Inoltre, durante la campagna per le elezioni presidenziali, l’appartenenza etnica dei candidati fu al centro della discussione pubblica, tanto che lo stesso Kabila era stato accusato dall’avversario Jean-Pierre Bemba di non essere congolese, bensì ruandese, poiché parlava malamente il francese e per niente il lingala.

La situazione interna del Paese si mostrava ancora molto instabile e complessa, dal momento che molte delle milizie presenti durante la guerra non erano state ancora smantellate, costituendo un ulteriore elemento di insicurezza. Il contesto era reso ancora più difficile dalle continue diatribe in merito alla cittadinanza congolese degli immigrati ruandesi, specialmente di etnia tutsi, che erano effettivamente discriminati anche a livello politico, infatti, nelle elezioni del 2006, soltanto un tutsi era stato eletto all’Assemblea Provinciale di Masisi. L’area del Paese che più mostrava i segni premonitori di una esplosione di violenza era il Kivu, in cui si concentravano le milizie di etnia tutsi, che non avevano alcuna intenzione di entrare a far parte dell’esercito nazionale. Dal 2004, dopo aver dichiaro illegittimo il Governo, il generale Laurent Nkunda Batware, di etnia tutsi, si ritirò nel Nord Kivu, iniziando un duro conflitto con lo Stato centrale.
Le elezioni presidenziali del 2011, sulla cui regolarità persistono molti dubbi, riconfermarono Kabila alla Presidenza. Il Presidente uscente si impose con il 48,95% dei voti contro il 32,33% ottenuto da Etienne Tshisekedi, leader dell’Union pour la Democratie et le Progress Social, UDSP. Il Governo e il Congrès National pour la Défense du Peuple, la formazione militare creata dal generale Laurent Nkunda e successivamente guidata dal suo luogotenente Bosco Ndaganda, firmarono un Accordo di cessate il fuoco nel 2009, Accordo che si è rivelato, nondimeno, molto fragile. Nel novembre del 2008, si riaccese la guerriglia nel distretto dell’Haut Uélé, con l’attacco a diverse città da parte del Lord’s Resistance Army, un gruppo ribelle ugandese guidato da Joseph Kony.

L’analisi storica delle guerre civili congolesi ha permesso di comprendere come uno dei fattori determinanti per la nascita dei conflitti nella RDC sia il difficile rapporto tra il debole Stato centrale e le autorità locali, rapporto complicato dalla mancanza di chiarezza sulla divisione dei poteri, soprattutto per quanto concerne la giurisprudenza sulla terra. Tale carenza legislativa ha generato un vuoto di potere foriero di ribellioni e scontri. Infine, la manipolazione delle leggi sulla nazionalità ha emarginato gli immigrati del Ruanda e del Burundi, perpetuando, altresì, l’antagonismo tra gli altri gruppi etnici. Le politiche dell’esclusione sono alla base dei conflitti nella Repubblica Democratica del Congo e, di conseguenza, dell’estensione di questi stessi conflitti negli Stati vicini. In particolare, il coinvolgimento delle Nazioni confinanti, durante la Prima guerra del Congo, fu dovuto alla richiesta di aiuto da parte di quei gruppi etnici considerati stranieri. Il Congo appare affetto, secondo la definizione di Huntington, dalla “sindrome della discendenza nazionale”, elemento fondamentale dell’internazionalizzazione della guerra civile nel Paese.
Attualmente, la Repubblica Democratica del Congo continua a vivere un clima molto instabile: il Governo centrale controlla solo la parte occidentale del territorio nazionale, poiché, nelle province orientali, milizie, bande armate e gruppi ribelli di altri Stati compiono razzie e violenze ai danni della popolazione civile.

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