L’AUSTERITÀ DEL 1973 E DEL 2011: DIFFERENZE E ANALOGIE

di Giuseppe Medau -

Le politiche di austerità messe in atto dal governo italiano nella prima metà degli anni Settanta in seguito alla crisi petrolifera hanno diversi punti di contatto con le scelte degli ultimi governi dopo la crisi iniziata nel 2008. E le soluzioni, oggi come ieri, sembrano lontane dal fornire i risultati sperati.

Corso Buenos Aires, a Milano, nel 1973, nei giorni dell'Austerity

Corso Buenos Aires, a Milano, nei giorni dell’Austerity del 1973.

Se si pensa alle politiche di austerità vengono subito in mente politiche volte al contenimento dell’inflazione e della spesa pubblica. Nel 1973 la quarta guerra arabo-israeliana (Guerra del Kippur), prese tutti alla sprovvista, e con il raddoppiamento dei prezzi nel mercato del greggio e la politica di riduzione dello stesso sui mercati, i Paesi occidentali dovettero ridurre i consumi. Ciò comportò una crisi energetica e di conseguenza anche economica. Per far fronte a questa emergenza in Italia si applicarono delle misure di austerità perlopiù fini a se stesse, come mero segnale di rigore. Nel nostro Paese la crisi petrolifera determinò un forte deficit dei conti con l’estero e aggravò le pressioni inflazionistiche già in atto per l’aumento dei prezzi delle materie prime.
Le politiche messe in atto dal governo Rumor sembrarono funzionare nell’immediato, ma in breve tempo le cose peggiorarono. Si pensava che tagli indiscriminati alla spesa pubblica fossero la giusta soluzione, mentre il punto cardine del problema era l’allocazione delle risorse. Prima della crisi si era proceduto con un sostegno indifferenziato della domanda, e adesso si pensava a un taglio indifferenziato della stessa. Le teorie keynesiane assunsero nei vari Paesi etichette a volte di destra, a volte di centro, e a volte di sinistra. Esse si concretizzavano in spese militari, in erogazioni clientelari o in opere pubbliche. Le politiche di sostegno indifferenziato della domanda venivano fatte su lunghi periodi, e nel momento in cui si scontravano con un mercato oligopolistico, non concorrenziale, davano adito ad una inflazione crescente.

L’opposizione di estrema destra, con l’onorevole Franco Servello, in una discussione parlamentare del 19 dicembre del 1973, rivolgendosi al governo, faceva notare che: «Avete detto concordemente: austerità, ma solo per la povera gente, per chi lavora, per chi produce, per gli agricoltori, per i commercianti per gli artigiani […]. Avete inventato, imitando gli altri paesi, il divieto di circolare la domenica; ma noi non riteniamo che tale divieto possa essere risolutivo della situazione: non è solo questione di avere benzina sufficiente, ma della crisi generale di carattere economico che investe tutto il nostro paese. Forse avete risolto altri problemi, al vertice? Non mi risulta che per la RAI-TV […], sia intervenuto alcun accordo. Non esiste nemmeno un accordo sulla politica nucleare ed energetica in alcun senso».
Le opposizioni di destra e di sinistra convergevano nel vedere nell’azione di governo una sostanziale immobilità e l’incapacità di assumere misure efficaci volte a contenere lo spreco energetico. L’onorevole del Pci Luciano Barca, sempre nella stessa seduta offriva un quadro generale dello spreco, auspicando che il trasporto pubblico venisse sovvenzionato e ampliato. Nonostante i buoni propostiti delle opposizioni, le soluzioni viste con gli occhi di oggi ci appaiano poco efficaci e anche un po’ ingenue.

La crisi celava questioni molto più importanti di una semplice riduzione delle scorte di greggio. Il conseguente aumento di tutte le materie prime, faceva sentire il peso di un enorme problema fino ad allora poco considerato: quello dell’insufficiente produzione alimentare.
Come faceva notare Alfredo Todisco sul Corriere della Sera (14 gennaio 1974): «Il vecchio adagio “il sazio non crede al digiuno” forse spiega perché, in generale, i popoli dei Paesi sviluppati o ignorano lo spettro della fame nel mondo, o se ne preoccupano in termini puramente astratti, quasi si tratti di un fenomeno che non li riguardi direttamente».
Non si può che essere d’accordo con questa analisi. La popolazione mondiale, infatti, aumentava a dismisura e con essa anche il bisogno di energia e di materie prime, e ovviamente questi dilemmi toccavano anche il mondo occidentale. Occorreva trovare soluzioni sia nell’immediato sia nel lungo periodo. Innanzi tutto si sarebbe dovuto sensibilizzare l’opinione pubblica sullo spreco energetico e la limitatezza delle materie prime. I fatti erano noti da tempo: già nel 1962 Rachel Carson con il suo libro La primavera silenziosa e poi, dieci anni dopo, il rapporto del MIT (Massachussets Institute of Technology) sui Limiti dello sviluppo, avevano informato l’opinione pubblica degli effetti della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana.

centrale-nucleare-001Negli anni Settanta si provò a sondare il terreno per individuare fonti di energie alternative al petrolio. La scelta nucleare sembrò a molti la soluzione migliore. Basti leggere questo articolo pubblicato il 23 marzo 1974 sul Corriere della Sera: «Ecco perché oggi più di ieri, e domani ancor più di oggi – pur prescindendo dalle difficoltà e dai costi crescenti degli approvvigionamenti di petrolio – il soddisfacimento della fame di energia potrà in massima parte essere soddisfatta dall’entrata in funzione delle centrali nucleari di tipo avanzato. La elettricità di tipo nucleare divenuta competitiva negli scorsi anni nei confronti di quella termica tradizionale si mostra oggi e ancor più per il futuro indiscutibilmente preferibile. A sostegno di ciò vi sono motivi tecnico-economici di maggior rendimento e affidabilità nonché ragioni di carattere ecologico. Le centrali atomiche infatti, una volta stabilite le modalità di smaltimento delle poche scorie radioattive (sic) che si formano in anni di produzione […], sono le più pulite per l’ambiente: non danno emissioni di gas venefici nella atmosfera; non producono inquinamento delle acque salvo un leggero riscaldamento di qualche decimo di grado facilmente smaltibile […]. In questo campo fortunatamente c’è da rilevare che anche per parte italiana non si sta fermi come dimostrano gli accordi internazionali recentemente stabiliti con Germania e Francia per una centrale in comune e in particolare per gli studi e le sperimentazioni attuate dagli specialisti del CNEN […]. Si può rilevare in sintesi che nel settore nucleare esistono le migliori prospettive per risolvere in modo efficace e duraturo i problemi della crisi energetica che ci travaglia. I tecnici lo dimostrano senza ombra di dubbi e occorre che chi di dovere ne prenda atto e agisca di conseguenza».

Nonostante possano sembrare sorprendenti al giorno d’oggi, queste affermazioni erano riportate su gran parte dei principali organi d’informazione. Ma la realtà era ben diversa. Come faceva notare Giorgio Nebbia, docente di merceologia all’università di Bari sul Corriere della Sera il 18 ottobre 1979: «Se l’Italia ha di fronte il problema di energia a costi – monetari-ambientali – accettabili e di liberarsi al più presto dalla dipendenza del petrolio (sempre più scarso e sempre più costoso), la soluzione non è offerta dall’energia nucleare. Tanto per cominciare vi è il problema di come acquistare, e a quale prezzo, per l’intera vita utile delle centrali (circa 25 anni), l’uranio necessario per “alimentare” i reattori di acqua leggera. Il costo dell’uranio, degli impianti dei servizi aumenta continuamente e, di conseguenza, il costo di produzione dell’elettricità nucleare, se correttamente contabilizzato, continuerà ad essere superiore o uguale a quello dell’energia delle centrali termoelettriche […]. Bisogna anche considerare che non esiste ancora alcuna ragionevole proposta di sistemazione del combustibile nucleare esausto. Se il combustibile nucleare esausto viene sepolto come tale, si evitano i problemi della sistemazione dei prodotti di fissione radioattivi e del plutonio, ma si ha un enorme spreco di uranio naturale (circa 200 tonnellate per far funzionare per un anno un reattore da 100 MegaWatt). Le riserve di uranio naturale recuperabile nel mondo sono sufficienti appena a far funzionare per 25 anni i reattori ad acqua leggere esistenti e in costruzione […]. Secondo me la prima fonte di energia è il contenimento degli sprechi. Nonostante gli avvertimenti, dal 1973 al 1979 non abbiamo fatto niente per contenere tali sprechi in tutti i settori. Senza “alcuna mortificazione del livello di vita” con un “aumento” dell’occupazione e delle occasioni di lavoro è possibile attuare una diminuzione, da oggi al 1985, dei consumi elettrici da 5-10 miliardi di KWh all’anno».

L’uomo aveva da poco cominciato ad occuparsi delle conseguenze che le proprie attività avrebbero avuto sull’ambiente. Di conseguenza non si era in grado di ricavare alcuna conclusione sicura sulla capacità di assorbimento dell’inquinamento da parte della Terra. Si potevano però stabilire alcuni punti fermi, come ad esempio la crescita esponenziale dell’inquinamento, che aumentava più della crescita della popolazione. E come è noto, di conseguenza, più aumenta la popolazione più aumenta l’inquinamento. In sostanza, dunque, sia in passato che oggi, nessuno può tracciare un valore limite di sopportazione dell’ambiente terrestre: non si sa fino a che punto si può continuare a perturbare il naturale equilibrio ecologico della Terra senza provocare conseguenze irreparabili. Proprio questa ignoranza di fondo avrebbe dovuto guidare le scelte politiche in modo più cauto sulle sostanze inquinanti: purtroppo venne presa la direzione opposta.
Ma non solo, venne fatto poco in ambito internazionale e i Paesi del terzo mondo rimasero sotto la stretta morsa dell’economia occidentale. Nell’aprile del 1974 il ministro degli esteri dell’Unione Sovietica, Gromiko, durante un discorso all’assemblea generale dell’ONU sul tema delle materie prime, diceva: «In questa sede come forse nessun’altra è evidente la necessità di ristrutturare la attuali relazioni economiche internazionali. Noi non siamo favorevoli a un embargo fine a se stesso del petrolio e dei suoi prodotti». Aggiunse quindi che far risalire la responsabilità di tutti i problemi energetici agli Arabi era sbagliato perché la situazione petrolifera occidentale derivava dallo sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi produttori e dal fatto che Israele non volesse ritirarsi dai territori occupati.
Sull’esistenza di una sorta di colonizzazione economica e delle materie prime, petrolio in primis, nei confronti del Terzo Mondo si può essere d’accordo, come sul fatto che esistesse un problema di spreco energetico in tutto l’Occidente. Ma c’era anche una chiara strategia araba per favorire il rialzo dei prezzi, sia per meri motivi speculativi sia per colpire i Paesi alleati di Israele.

Nello stesso consesso il segretario di Stato americano Kissinger sostenne che le nazioni del Terzo Mondo dovevano respingere l’idea di usare le materie prime come arma contro i Paesi occidentali, e che un tentativo del genere avrebbe finito per danneggiare tutti, generando blocchi e fazioni. A questo tema Kissinger ne aggiunse un altro, quello del dovere dei Paesi industrializzati di venire incontro agli interessi dei Paesi in via di sviluppo, con progetti concreti di cooperazione. Purtroppo le parole di Kissinger rimarranno lettera morta, la cooperazione tra Paesi ricchi e poveri non cambiò significativamente e il divario, soprattutto in termini economici, aumentò notevolmente.
Comunque, a prescindere dalle questioni globali, la sensazione generale in Italia era che a livello strettamente politico nulla di concreto si stesse realizzando. Indicativo ci appare in questo senso un discorso del Presidente del Consiglio Rumor tenuto a Sirmione nell’ottobre 1973: «L’azione di governo entra in una fase ulteriore, più impegnativa. D’ora in avanti siamo impegnati in un’azione che deve puntare, pur nel fermo mantenimento di una rigorosa guardia nei confronti delle spinte inflazionistiche, a sollecitare e favorire al massimo una sana ripresa produttiva e l’avvio di riforme che abbiano il loro punto di riferimento nel Mezzogiorno e nei grandi consumi sociali». Come fece notare giustamente L’Unità riportando questo brano, le parole di Rumor erano «un’enunciazione generale, una specie di involucro che tuttavia attende di essere riempito di scelte politiche».
In realtà i problemi del Mezzogiorno aumentarono. Se a livello teorico i problemi dell’agricoltura, dell’occupazione e dell’industria meridionali erano punti cardine dell’azione di governo, nei fatti la situazione non solo non mutò ma peggiorò sensibilmente. Un sintomo di queste difficoltà furono gli scioperi che diedero il via a un’ondata di proteste in tutto il Mezzogiorno d’Italia. Non solo, il Pci aumentava il suo consenso nelle fabbriche e i sindacati chiedevano a gran voce prezzi popolari per i più larghi beni di consumo alimentari.
Il problema, più in generale, era sapere in che modo queste restrizioni e questi sacrifici dovessero essere distribuiti tra le diverse classi sociali. In sostanza si poneva una nuovi sfida nella programmazione economica. Sfida che però venne disattesa.

Nelle politiche governative per far fronte alla crisi cominciata nel 2008, troviamo purtroppo molte similitudini con i governi democristiani di centrosinistra. In questa crisi, tuttora in atto, si deve decidere quanto conservare dello Stato sociale. Invece ancora una volta si sono dati segnali di mero rigore volti a contenere l’inflazione. La crisi è sicuramente una crisi mondiale, ma l’Italia ne ha anche una interna, quella fiscale, quella su cui si giocano spesso la sorte dei governi. Il governo Monti scelse la strada delle tasse e delle tariffe. Non solo. Introdusse tagli di spesa alle Regioni e ai Comuni, ma non alle Provincie.
Da qui una la protesta trasversale di molti sindaci contro l’Imu (Imposta municipale unica), con il sindaco di Milano Pisapia che diede una sponda alla Lega, pur non condividendone i modi della rivolta fiscale. Il sindaco di Genova Marta Vincenzi disse nel 2012: «Bisogna far capire alle persone che si chiama Imposta municipale ma la incassa lo Stato. È ora della disobbedienza civile».
Certo, non siamo a livelli di conflittualità sociale come negli anni Settanta, ma comunque tracce di malcontento sociale si sono manifestate anche dopo le riforme del governo tecnico. La crescita, sia negli anni Settanta che negli anni Duemila, è stata messa da parte.
Si continua a ripetere che la crisi del 2008 è una crisi globale, paragonabile a quella del 1929. E allora, perché se abbiamo già incontrato crisi simili si continuano a commettere gli stessi errori? Forse una risposta potrebbe essere la paura della speculazione. Come insegna Paul Krugman bisogna distinguere tra transazioni internazionali “buone” e “cattive”. Però, sfortunatamente, ci sono moltissimi modi per raggirare i controlli sulla speculazione, leciti e non. I governi possono solo limitare la speculazione imponendo onerosi vincoli alle transazioni ordinarie. Cosa che non fanno quasi mai. Tutto ciò conduce ai tassi di cambio liberi di fluttuare. E questo può generare attacchi speculativi che si autoalimentano. E governi in difficoltà applicano misure di austerity per ottenere la fiducia dei mercati, come l’Italia in tempi recenti. Siamo di fronte a una politica economica dove è la “psicologia” dei mercati a farla da padrona.
Sembra comunque che la crisi abbia fatto cambiare idea a molti, soprattutto in materia di politiche di austerità e rigore. Il presidente francese François Hollande, tracciando un bilancio all’Eliseo, ha detto nel maggio 2013: «I prossimi dodici mesi saranno di battaglia. L’austerity ha trascinato l’Europa nel baratro della recessione». Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha fatto mea culpa e rimproverato troppa austerity: «Abbiamo sbagliato le proiezioni economiche. Troppa austerity strangola l’economia». Dito viene puntato anche contro gli Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, due tra gli economisti più citati degli ultimi anni, secondo i quali esisterebbe una correlazione tra un alto rapporto debito/PIL e la bassa crescita: pare che il loro studio fosse falsato da un errore della formula Excel che mostrava come i tagli portassero crescita.
Trovare soluzioni a questi problemi è estremamente difficile. Però ci sono alcune modifiche che si potrebbero fare nell’immediato, come rispolverare la vecchia formula keynesiana di stimolare la domanda, mirando a scelte precise. Si potrebbero anche tagliare i tassi di interesse e realizzare un welfare orientato soprattutto verso le classi più deboli.

Per saperne di più

P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008 – Milano, Garzanti, 2009.
AA. VV, Storia d’Italia. L’industria – Torino, Einaudi Editori, 1999.
AA. VV, Austerità, per che cosa? – Milano, Feltrinelli, 1974.
D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens, I limiti dello sviluppo – Milano, Mondadori, 1972.
F. Amatori, E. Colli, Impresa e industria in Italia, dall’Unità a oggi – Venezia, Marsilio, 1999.
V. Castronovo (a cura di), Storia dell’economia mondiale – Roma, Laterza, 2000.
V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri – Torino, Einaudi, 2006.
V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia – Bologna, Il Mulino, 2005.
M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi – Milano, Garzanti, 1984.
A. Toninelli, Lo sviluppo economico moderno. Dalla rivoluzione industriale alla crisi energetica – Venezia, Marsilio, 2006.