LA VIA APPIA, LA REGINA DELLE STRADE

di Alessandro Lomaglio –

 

In questo racconto liberamente ispirato a una satira del poeta Orazio Flacco (la V del Primo Libro dei Sermones), riviviamo l’avventuroso viaggio da Roma a Brindisi compiuto nel 37 a.C. dalla missione diplomatica di Mecenate per sciogliere i dissidi tra Ottaviano e Antonio.

Quinto Orazio Flacco nacque a Venosa, una colonia militare romana ai confini dell’Apulia e della Lucania, l’8 dicembre del 65 a.C. in una famiglia molto modesta. Il padre era stato affrancato e possedeva un appezzamento di terreno. Quando si trasferì a Roma dove esercitò il mestiere di esattore nelle vendite all’asta (coactor auctionarius), portò con sé il figlio per fargli continuare gli studi. A Roma Orazio fu allievo del grammatico beneventano Orbilio, che non lesinava nerbate ai discepoli, per cui Orazio lo definì Orbilius flagosus, cioè “colui che picchia”. Sui vent’anni, per approfondire gli studi si recò in Grecia, dove, ad Atene, frequentò diverse scuole di dottrine filosofiche. Nel 41 a.C. fece ritorno a Roma e cominciò a comporre i primi versi. Conobbe Virgilio, l’autore dell’Eneide, e i due si legarono di una leale e sincera amicizia, che durò tutta la vita. Nello stesso anno Virgilio e Vario, un altro poeta divenuto amico di Orazio, lo presentarono a Mecenate, ricco principe etrusco, noto per essere protettore dei letterati, che lo accolse nella cerchia dei suoi amici.
All’epoca il clima politico a Roma era agitato e non sgombro di nubi, perché il triumvirato, tra Ottaviano, Marco Antonio e Lepido, il meno influente dei tre, istituito per dividersi e amministrare i territori dell’impero, era in crisi, nonostante Ottaviano e Marco Antonio fossero cognati, avendo quest’ultimo sposato Ottavia, sorella di Ottaviano.
Fu proprio Ottavia che suggerì al fratello di dirimere la contesa con Ottaviano e a tal fine, propose a Mecenate, suo fidato consigliere, di recarsi a Brindisi per incontrare gli emissari di Marco Antonio e cercare di comporre diplomaticamente il dissidio tra i due. In questa occasione Mecenate chiese ad Orazio di accompagnarlo e così si misero in viaggio. Ad Orazio si unì Eliodoro, un dotto retore greco che insegnava a Roma.

Percorsi della Via Appia: in rosso l'Appia Antica, in blu l'Appia Traiana.

Percorsi della Via Appia: in rosso l’Appia Antica, in blu l’Appia Traiana.

L’itinerario prescelto fu il percorso della prestigiosa via Appia, definita la Regina delle strade romane, che era come un grande fiume, perché, come se fossero dei corsi d’acqua, in essa si immettevano tanti sentieri e ne uscivano molti altri. La pavimentazione era in lastre poligonali di basalto, una roccia scura che si era formata per solidificazione della lava, bene incastrate le une alle altre. La costruzione della grande arteria iniziò nel 312 a.C. per volontà del censore Appio Claudio il Cieco, appartenente alla influente e ricca gens Claudia, che volle realizzare l’opera, nonostante in senato non fossero tutti d’accordo.
Ma Appio Claudio non ebbe esitazioni e diede inizio ai lavori, rimettendoci parte del suo patrimonio. Era sicuro che quella strada avrebbe reso più rapide le marce delle legioni romane per raggiungere le regioni meridionali dell’Italia, perché Roma era diventata la più grande potenza militare. Infatti, dopo aver vinto i Sanniti in tre guerre, svoltesi tra il 343 e il 290 a.C., Roma non aveva altri nemici nel meridione e dominava un vastissimo territorio, per cui era necessario costruire strade per rendere più agevoli e rapidi i movimenti dell’esercito. Era un lavoro colossale, perché i tecnici romani dovevano studiare e valutare i percorsi, per escludere quelli con elevati dislivelli, le zone franose per evitare alluvioni e frane ed altri inconvenienti meteorologici. Il percorso dell’Appia rispondeva a questi requisiti per lo meno fino a Capua.
I viaggiatori partirono da Roma e dopo aver attraversato Porta Capena, adiacente alle terme di Caracalla, si trovarono su un ampio spiazzo, da cui iniziava la via Appia. A Terracina si sarebbero incontrati con Mecenate, Lucio Cocceio e Fonteio Capitone, un luogotenente di Marco Antonio, che spesso gli aveva affidato incarichi di fiducia. Orazio stimava molto Capitone e lo riteneva una persona squisita.
Dopo 5 miglia (circa 8 km) dalla partenza, oltrepassarono Bovillae, antica città latina e poi romana, oggi identificata con Frattocchie, frazione del Comune di Marino, si diressero ad Aricia (oggi Ariccia), distante da Roma 16 miglia (circa 24 km). Orazio ed Eliodoro, il dotto retore greco, vi fecero sosta, alloggiando presso una modesta locanda.

Il giorno successivo proseguirono per Foro Appio, oggi Borgo Faiti, che distava 27 miglia (circa 40 km) da Aricia e 43 miglia (circa 64 km) da Roma. Da questo borgo, fondato da Appio Claudio il Cieco, iniziavano le paludi pontine e un canale navigabile per 19 miglia (circa 28 km). Il posto era pieno di barcaioli e locandieri imbroglioni. Orazio e il suo compagno decisero di fermarsi, perché attraversare la palude di notte era un’impresa non facile e molto faticosa. Così divisero il viaggio in due tappe e l’indomani avrebbero ripreso la via Appia, molto più comoda. Solo i viaggiatori che avevano fretta affrontavano il percorso in una sola tappa e si avventuravano ad attraversare la palude di notte. Sollevavano la tunica fino ai fianchi per essere più liberi nei movimenti e quindi più spediti e partivano. L’acqua del posto era pestifera ed Orazio pensò bene di non mangiare e aspettò che gli altri terminassero la cena.
La notte intanto cominciò a stendere le sue ombre sulla terra, mentre in cielo spuntava una miriade di stelle. All’improvviso scoppiò una lite tra gli schiavi e i barcaioli, che si scambiarono reciproci insulti ed offese. I barcaioli dicevano agli schiavi di attraccare e questi rispondevano ironicamente: “Ma quanti ne volete caricare, forse trecento?”. Poco dopo, la lite rientrò e persero più di un’ora per riscuotere il nolo e attaccare pigramente ad un sasso la mula, che avrebbe trainato il natante lungo il canale, lasciandola per il momento libera di pascolare.
Zanzare malefiche non smisero un attimo di molestare i viaggiatori, desiderosi solo di dormire. Ad esse si aggiunsero le rane a turbarli col loro ininterrotto gracidio. La situazione peggiorò quando un barcaiolo e un ospite insonni si misero a cantare a squarciagola all’indirizzo della bella lontana. Finalmente, il viaggiatore smise di cantare e prese a dormire, imitato poco dopo dal barcaiolo che disteso sulla schiena e con la pancia in su cominciò a russare rumorosamente, causando un ulteriore disagio.
Era quasi giorno e i viaggiatori si accorsero che la chiatta era ancora ferma. Allora un viaggiatore, più irruento degli altri, si armò di un bastone di salice e cominciò a percuotere con violente nerbate il barcaiolo e la mula.

Il viaggio comunque riprese e poco dopo le dieci il natante attraccò a Feronia, dal nome della divinità italica, sedotta da Giove, che per sottrarla alla gelosia della moglie Giunone, la mutò in una dea delle acque sorgive e dei pozzi. Gli abitanti della zona costruirono una fontana e le diedero lo stesso nome della dea. Dopo una notte trascorsa quasi insonne i viaggiatori cercarono di riprendersi lavandosi il volto e le mani alla fontana. Con fatica si diressero fino alle pendici del Monte Giove, per i Romani Mons Neptunius, dove a 3 miglia (circa 4,5 km) da Feronia sorgeva Anxur, antica città dei Volsci, che, dopo la fine della monarchia romana nel 509 a.C. riuscirono a raggiungere il mare nel tratto tra Anxur ed Anzio. La città era stata costruita sulla sommità della bianca scogliera del Monte Giove, visibile per un lungo tratto anche da lontano. Poi in cima, sulla terrazza, era stato costruito un imponente tempio, dedicato al re degli dei, secondo i canoni dell’architettura romana dell’epoca tra il II e il I secolo a.C., che prevedevano la costruzione di templi maestosi sulle alture e in posizione scenografica. Nelle vicinanze di Anxur sorse poi Terracina, Rinunciarono a scalare l’altura, perché erano stanchi e avevano voglia di riposare.
A Feronia furono raggiunti da Mecenate, Cocceio Nerva e Capitone, i messi che avrebbero dovuto comporre con diplomazia la crisi tra i due triumviri. Era preannunciato anche l’arrivo di Marco Antonio con trecento navi, che però cambiò idea e fece rotta per Taranto, mandando a monte l’incontro.
Il viaggio, dopo la sosta ad Anxur, continuò per Fondi, che distava 13 miglia (circa 20 km), dove esercitava la carica di pretore municipale Aufidio Lusco, che si premurò di accogliere gli illustri ospiti, presentandosi vestito con la toga pretesta listata di porpora e col laticlavio ornato con una fascia rossa. Aveva fatto disporre anche un braciere con i carboni accesi per bruciare l’odoroso incenso e compiere i sacrifici rituali. In realtà, per i magistrati municipali non era previsto questo solenne apparato ornamentale, ma Aufidio Lusco se ne servì per incontrare pomposamente gli eminenti viaggiatori. Proseguirono poi per Formia distante 13 miglia (circa 19 km), che si specchia nel golfo di Gaeta. Era la città dei Mamurra e vi fecero sosta sentendosi sfiniti per la lunghezza del percorso effettuato. Licinio Varrone Murema offrì loro l’alloggio e Capitone la cena. Licinio Varrone era un fedele e devoto seguace di Cesare, ma si trovò coinvolto in una congiura contro Ottaviano, che lo fece giustiziare nel 22 a.C. Era anche fratello, per adozione, di Terenzia, la moglie di Mecenate. Probabilmente possedeva nella zona una villa come tanti altri cittadini romani, essendo un posto di piacevole villeggiatura.

Il giorno seguente si presentò sotto buoni auspici, perché si sarebbero incontrati a Sinuessa, l’odierna Mondragone, distante 28 miglia (circa 25 km) da Formia con i poeti Plozio Tucca, Vario Rufo e Virgilio, di cui erano molto amici, i quali provenivano probabilmente da Napoli, città molto cara all’autore dell’Eneide. Orazio descrive questi amici i più sinceri e leali che la terra abbia prodotto e confessa di essere attaccatissimo ad essi, ai quali nessuno si sentirà più legato. Appena giunti si abbracciarono con gioia e Orazio annota che, finché sarà sano di mente, niente potrà eguagliare il privilegio di avere amici tanto diletti. Furono ospitati in una piccola cascina vicino al Pons Campanus, che scavalca il torrente Savone a 9 miglia (circa 13 km) da Sinuessa, dove c’erano anche i funzionari che dovevano provvedere, a spese dello Stato, alle necessità dei magistrati romani in viaggio. In breve, dovevano fornire legna, sale, fieno e alloggio.
Da qui proseguirono per Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere, distante 17 miglia (circa 25 km), dove arrivarono in perfetto orario.

Mecenate si trattenne a giocare a palla, Orazio e Virgilio si ritirarono per dormire. Peraltro, quel gioco mal si addiceva a chi soffriva di infiammazione agli occhi, come Orazio. Furono ospiti di Cocceio nella sua villa, che era dotata di ogni bene, situata su un poggio, che si ergeva sopra le osterie di Caudium, un’antica città sannita, che distava 21 miglia (circa 31 km) da Capua, Durante la cena gli ospiti potettero godere del tenzone buffonesco sorto tra Sarmento, un etrusco emancipato da Mecenate, e Messio Cicirro, detto “Il Galletto”, di origine osca, il cui nome forse derivava da una maschera popolare di Atella, città della Campania, che impiegava personaggi fissi. Orazio descrive lo scontro abbastanza notevole e invoca la musa di non abbandonarlo e di aiutarlo a ricordare.
Sarmento si rivolse all’antagonista, paragonandolo ad un cavallo selvaggio. A sua volta Messio replicò chiedendo all’altro cosa avrebbe fatto se non gli avessero reciso il corno che aveva sulla fronte, visto che anche così mutilato continuava a minacciare. Quella brutta cicatrice, quasi al centro della fronte pelosa, leggermente verso il lato sinistro, gli deturpava il volto. Dopo avere scherzato sul morbo campano, come veniva definita quella escrescenza, Messio con malcelata ironia invitò l’avversario ad eseguire la danza pastorale del Ciclope. Non aveva bisogno della maschera, perché la ferita gli deturpava il volto e lo faceva sembrare il Ciclope Polifemo. Né aveva bisogno dei coturni, le calzature con i tacchi alti che usavano gli attori tragici per apparire più imponenti, perché aveva una corporatura gigantesca. La danza proposta avrebbe dovuto rappresentare Polifemo, che corteggiava goffamente la ninfa Galatea, senza ottenere però alcun risultato. Messio insisteva sull’origine servile del rivale, e gli chiedeva se avesse già donato agli dei Lari, per grazia ricevuta, la catena che teneva legati gli schiavi fuggitivi. Anche se era divenuto scrivano, doveva sempre aver presente che non sarebbe stato mai affrancato. Poteva acquisire la libertà solo fuggendo, ma sarebbe stato sempre esposto ai rigori della legge sugli schiavi e ai diritti della padrona. Lo spettacolo tra i due buffoni fece protrarre la cena.

Viandanti sull'Appia Antica, di Arthur John Strutt, 1858.

Viandanti sull’Appia Antica, di Arthur John Strutt, 1858.

Da Caudio proseguirono per la colonia romana di Benevento, distante 11 miglia (circa 16 km). Si fermarono in una locanda, dove un oste premuroso per poco non li arrostì, mentre girava sulla fiamma dei tordi nemmeno molto grassi. Vulcano, cioè il fuoco, guizzò fuori dal camino e in poco tempo arrivò a lambire il tetto della locanda. I convitati affamati e i servi tremanti, perché certamente sarebbero stati puniti dal padrone, cercarono di mettere in salvo la cena e si affaticarono a spegnere l’incendio.
Dopo l’incidente ripresero il viaggio. A poca distanza da Benevento lasciarono la via Appia e presero la via Minucia, che portava a Trevico e poi a Canosa. Il nuovo percorso avrebbe abbreviato di un giorno il viaggio, ma il tracciato della via era molto disagevole e risaliva all’epoca repubblicana, inerpicandosi sui monti dell’Apulia, che essi non avrebbero mai scalato. Del percorso della via Minucia si servì Traiano per la costruzione della via, alla quale diede il proprio nome. Orazio era contento, perché provò la sensazione di respirare l’aria della terra natia, dove l’Atabulus, lo scirocco, spirava continuamente da sud verso est. I viaggiatori si fermarono in una taverna a Trevico, o forse nelle sue vicinanze. Il borgo distava da Benevento 25 miglia (circa 37 km). Era arroccato sul cocuzzolo di un monte, come tanti altri in quella regione e per arrivarci si doveva affrontare una ripida salita. A Trevico l’acqua era a poco prezzo; il pane era ottimo e non temeva confronti. I viaggiatori accorti, quando vi passavano, ne facevano provvista. Tra l’altro era noto che a Canosa, dove erano diretti, l’acqua mancava e il pane sembrava di pietra. La locanda era così piena di fumo, che faceva abbondantemente lacrimare, come se uno piangesse, perché erano stati usati rami verdi ancora coperti di foglie. Orazio, come uno stolto, aspettò inutilmente una ragazza bugiarda, che aveva promesso di tenergli compagnia durante la notte. Alla fine il sonno prese il sopravvento e, dormendo supino, fu colto da voglie d’amore e fece sogni di visioni lascive. Che presso le locande ci fossero delle ragazze ben disposte nei confronti dei viaggiatori era noto e questa accoglienza veniva considerata una forma di ospitalità molto diffusa.

L’indomani lasciarono Trevico, consapevoli che la tappa successiva sarebbe stata dura e lunga (24 miglia, circa 36 km) e si diressero verso Ausculum, forse Ascoli Satriano. Oltrepassarono Aequum Tuticum, l’odierna Ariano Irpino, e continuarono per Canosa, città della Daunia sorta lungo il fiume Ofanto, presso il quale si accampò l’esercito romano prima della battaglia di Canne. Si tramanda che Canosa fosse stata fondata da Diomede, l’eroe greco, che dopo la guerra di Troia ritornò ad Argo, dove la moglie Egialea, divenuta impudica e lussuriosa per volere di Afrodite, lo cacciò, perché ormai era innamorata di Ippolito. Diomede allora si rifugiò nell’Apulia presso il re Dauno, di cui sposò la figlia Enippe. Qui, Varo con molta tristezza si separò dagli amici, che si diressero a Ruvo, distante 23 miglia (circa 34 km) da Canosa. Ruvo era una città dei Peucezi, antica popolazione italica. I viaggiatori, stanchi e quasi sfiniti, sia per la lunghezza del percorso sia per la pioggia, che non aveva mai smesso per tutta la durata della tappa, vi fecero sosta.

Il giorno seguente il tempo migliorò, ma non la strada piena di buche, fino alle mura della pescosa Bari, costruita quasi sul mare.
Da qui il viaggio proseguì per Egnatia, oggi Torre d’Agnazzo, distante 37 miglia (circa 55 km) da Bari, un’antica e importante città con un porto molto attivo, dotato di vaste horrae, grandi depositi, dove venivano immagazzinati il vino, il grano ed altri beni, che arrivavano via mare. A Egnatia s’imbarcavano coloro che intendevano raggiungere, soprattutto per affari commerciali, l’altra sponda dell’Adriatico, da dove la via Egnatia continuava per l’Illirico, l’odierna Albania, la Macedonia e la Tracia, la parte meridionale della penisola balcanica bagnata dal Mar Nero, dal Mar di Marmara e dall’Egeo, e arrivava fino a Costantinopoli.
Orazio tramanda che Egnatia fu eretta contro il volere delle ninfe delle sorgenti e dei pozzi, che adirate condannarono la città alla sete. I viaggiatori ebbero modo anche di divertirsi con la gente del posto, che tentava di convincerli che l’incenso del braciere, posto sulla soglia del tempio, si consumava senza fare la fiamma. Una frottola del genere potevano farla credere soltanto ad Apelle, un ebreo di Trastevere. I prodigi infatti, come sosteneva anche Epicuro, non provengono dagli dei, che hanno anch’essi i propri problemi.
Finalmente, stanchi e con le ossa doloranti per il percorso 370 miglia (circa 548 km) giunsero a Brindisi, dove il viaggio ebbe termine e così pure la satira di Quinto Orazio Flacco, che non si propone come maestro di vita, ma piuttosto come scrittore dotato per natura di uno stile affabile e socievole, lontano dalle raffinatezze e dalle volgarità.

 

 

 

Le tappe del viaggio

TAPPA CITTA’ MIGLIA KM
I ARICIA (l’odierna ARICCIA) 16 24
II FORUM APPII (oggi BORGO FAITI) 27 40
FERONIA (sosta per la notte) 16 24
III ANXUR (odierna TERRACINA) 3 5
IV FONDI 13 19
FORMIA (sosta) 13 19
V SINUESSA (oggi MONDRAGONE) 18 27
PONS CAMPANUS 9 13
VI CAPUA (oggi SANTA MARIA CAPUA VENTERE) 17 25
VII CAUDIUM (oggi CAUDIO) 21 31
VIII BENEVENTO 11 16
IX TREVICI (oggi TREVICO) 25 37
X AUSCULUM (ASCOLI SATRIANO?) 24 36
XI CANOSIUM (oggi CANOSA) 35 51
XII RUVO 23 34
XIII BARI 23 34
XIV EGNATIA (oggi TORRE D’AGNAZZO) 37 55
XV BRUNDISIUM (oggi BRINDISI) 38 58
TOTALE 370 548

L’indicazione complessiva della distanza tra Roma e Brindisi era di 370 miglia, pari a circa 548 km, grosso modo uguale a quella odierna, via autostrada. Le distanze tra le diverse tappe hanno carattere indicativo. Si è tenuto conto che un miglio romano corrisponde a 1480 metri.