LA TURCHIA, LA LIBIA E LE PORTE DELL’AFRICA

di Massimo Iacopi -

 

La decisione delle autorità turche di intervenire in Libia insegue sfide strategiche e geo-economiche più rilevanti di un mero disegno imperialistico. Seppur al momento vincente, questa mossa sembra aver ridestato l’auspicata attenzione delle nostre autorità politiche nei riguardi dell’area, scuotendo l’apatia europea.

Il conflitto in Libia coinvolge un vasto ventaglio di attori non propriamente libici. Si scontrano due grandi fronti: da un lato il governo di Fayez el Sarraji, basato a Tripoli e riconosciuto dall’ONU, e dall’altro quello del maresciallo Khalifa Haftar, vecchio generale dell’esercito di Muammar al Ghaddafi, di stanza a Tobruk e Bengasi, sostenuto da un insieme di forze riunite sotto la bandiera dell’autoproclamato “Esercito Nazionale Libico”. Il primo governo, contiguo ai Fratelli Musulmani, può contare essenzialmente sul sostegno della Turchia e del Qatar; il secondo, che si presenta come l’alfiere dell’islam politico e dell’antiterrorismo, suscita l’appoggio della Francia, della Russia, dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita.
La Libia non è un teatro di operazione senza alcun interesse per la Turchia: era infatti un antico dominio della Sublime Porta fino a quando l’Italia la conquistò nel 1911-1912. La Libia, di fatto, riveste per Ankara indubbi ricordi di passata grandezza e nasconde malcelate velleità di espansione in Africa. Tuttavia, l’investimento militare e politico turco in Libia appare motivato da primarie considerazioni geo-economiche – in primo luogo lo sfruttamento di importanti giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale – ma anche da considerazioni geopolitiche, in quanto la presidenza turca si sforza di rinforzare e promuovere i partiti islamisti nella regione di fronte all’opposizione dei paesi arabi che osteggiano la comparsa di un islam politico minaccioso per la loro stabilità.

Una posta in gioco economica colossale per Ankara

Un “mare di gas”: questa è l’espressione usata dal gigante petrolifero italiano ENI in un comunicato emesso all’inizio del 2020 per definire il Mar Mediterraneo. Di fatto, pur risalendo l’attuale guerra civile in Libia al maggio 2014 (con conseguente appoggio di Ankara al governo di El Sarraji dal dicembre 2015) è solo a partire dal 2019 che l’investimento turco nei confronti del suo alleato assume una certa rilevanza.
In effetti, preoccupati dai discorsi del primato turco annunciato nel 2018 in occasione delle missioni di prospezione mineraria nel Mediterraneo Orientale, i governi cipriota, egiziano, israeliano, italiano, greco, giordano e palestinese decidono, il 16 gennaio 2019 di organizzare un “Forum del gas nel Mediterraneo orientale (EMFG)” al fine di sovraintendere, nel dialogo e nella cooperazione, la nascita di un promettente mercato del gas nelle acque dell’est del Mediterraneo, il cui valore sarebbe stimato in 700 miliardi di dollari.
Nonostante le assicurazioni di Atene circa la possibilità di Ankara di entrare a far parte dell’EMFG a condizione del rispetto della carta, questo accordo esclude chiaramente la Turchia, e di fatto crea un fronte di opposizione unito che potrebbe intralciare le pretese economiche di Ankara della zona. EMFG si riunisce di nuovo nel luglio 2019, quando ottiene anche il sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
Come risposta alla creazione dell’EMFG e alla nascita di questa coalizione ritenuta “antiturca” da Ankara, Erdogan firma con Tripoli nel novembre 2019 un trattato di cooperazione militare e di sicurezza, associato a un accordo di cooperazione economica: quest’ultimo prevede l’estensione della piattaforma continentale turca e libica a partire dalle rispettive ZEE (Zone Economiche Esclusive). Il trattato, senza fondamenti giuridici, stabilisce la creazione di un corridoio marittimo economico che collega la Libia alla Turchia, concedendo ad entrambi il libero sfruttamento delle eventuali risorse nell’area (naturalmente ricche di idrocarburi).
Questo accordo, denunciato dalle nazioni dell’EMFG, consente alla Turchia di liberarsi della strozzatura marittima nella quale i suoi concorrenti mediterranei l’hanno posta, appoggiandosi a un nuovo alleato nella regione. Se in tal modo la sfida geo-economica sembra indubbia (disponendo la Turchia appena di una ZEE ridotta a causa della costellazione di isole greche nell’immediata prossimità del suo litorale), la posta politica dell’intervento turco in Libia assume una dimensione particolarmente significativa. Se il governo di Tripoli dovesse crollare sotto i colpi del maresciallo Khakifa Haftar, la Turchia non perderebbe solamente l’accordo economico ma, soprattutto, un prezioso alleato nella regione.

I Fratelli di Ankara

Il governo El Sarraji si è dimostrato molto vicino al movimento dei Fratelli Musulmani e per questo motivo si è guadagnato l’anatema del Cairo. La confraternita islamista conta su un atteggiamento favorevole del presidente turco Erdogan, dimostrato nell’agosto 2020 dall’accoglienza a Istanbul dei responsabili di Hamas, seguita all’organizzazione della Conferenza internazionale dei Fratelli Musulmani nella stessa città nel settembre 2019.
La presidenza turca esercita una chiara azione di promozione dell’islam politico all’estero, sostenendo sempre più apertamente i partiti e i movimenti islamisti nel mondo. Tuttavia, Erdogan in questo caso non dimostra un allineamento sulle tesi dei Fratelli Musulmani, né promette alcuna forma di panislamismo: il suo sostegno alla fratellanza è principalmente motivato dal fatto che, tatticamente, tale movimento può aiutare a rinforzare la situazione regionale della Turchia grazie alla sua rete internazionale di militanti.
Lo scontro fra i partigiani dei Fratelli Musulmani e i loro oppositori in Libia non spiega da solo il conflitto. Permette però di chiarirne uno degli elementi primari e, a tutti gli effetti, uno dei principali vettori dell’offensiva turca.
I sostenitori del maresciallo Haftar – in prima linea Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Egitto – si dimostrano, nella pratica, i più feroci avversari dei Fratelli Musulmani. In effetti, una profonda separazione ideologica e politica divide i fautori e gli oppositori della fratellanza islamica: laddove i Fratelli Musulmani aspirano a creare delle vere repubbliche islamiche in paesi a maggioranza musulmana, i Sauditi o gli Emirati passano immediatamente a sponsorizzare e patrocinare i regimi in pericolo. Un programma teocratico repubblicano come quella della fratellanza islamica rappresenta, pertanto, una minaccia evidente per le monarchie che si oppongono al suo sviluppo. Queste tensioni, peraltro, hanno ampiamente superato il semplice aspetto ideologico per trasformarsi in conflitto politico durante la fallita cosiddetta “Primavera araba” del 2011, nel corso della quale i Fratelli Musulmani erano riusciti a imporsi, come prima forza politica, in alcuni paesi strategici, basti pensare all’Egitto, con grave danno per le monarchie del Golfo.
Se gli interessi economici e politici hanno rappresentato le fondamentali motivazioni dell’investimento turco in Libia, l’aumento delle tensioni diplomatiche nel Mediterraneo orientale è coinciso, peraltro, con quello degli scontri in Tripolitania e, più in particolare, con le operazioni condotte dal maresciallo Haftar nella regione. Dall’inizio di aprile 2019 l’uomo forte di Tobruk, galvanizzato dall’invio di diverse migliaia di mercenari della società russa Gruppo Wagner [1], lancia una vasta offensiva contro il suo avversario tripolino; quest’ultimo accusa rapidamente sostanziali perdite territoriali e nel giro di pochi giorni gli scontri si allargano alla periferia di Tripoli.

Il determinante intervento militare turco

Prendendo atto di una quasi imminente vittoria di Haftar, la Turchia entra in scena militarmente e procede all’invio, il 9 maggio 2020, di materiale da guerra: 30 blindati di fanteria (VBCI) di produzione turca (Kirpi 2) sbarcano nel porto di Tripoli. I giorni seguenti vedono l’arrivo di veicoli blindati pesanti e di droni [2]. Nella più completa violazione dell’embargo sulle armi emesso dall’ONU nei confronti della Libia, Ankara consegna notevoli quantità di materiale militare e rinforzo di ex mercenari dell’ISIS. Forte del sostegno turco, El Sarraji riprende rapidamente il controllo della situazione militare, infliggendo seri rovesci all’Esercito Nazionale Libico (ANL) di fronte a Tripoli nel giugno 2019, e costringendo al ritiro di una parte del contingente russo Wagner.
E’ in questo contesto che si inserisce la firma, il 27 novembre 2019, dei due accordi fra la Turchia e il governo di El Sarraji: il trattato di sicurezza prevede l’insediamento di basi turche in Libia e l’invio di istruttori e consiglieri per le forze tripoline. L’implicazione militare diretta in Libia viene sancita e definitivamente siglata il 2 gennaio 2020, quando la Grande Assemblea Nazionale ad Ankara dà l’approvazione formale all’invio di truppe turche in Libia. Tuttavia, a parte l’invio di numerosi consiglieri militari e piloti di droni, Erdogan ha deciso, per il momento, di non impegnare direttamente soldati turchi nell’area, mobilitando al loro posto i mercenari siriani islamici della famigerata “Armata Nazionale siriana” (ANS).
L’ANS, composta essenzialmente da Arabi e Turkmeni, schiera nelle sue file numerosi ex combattenti dello defunto stato islamico o di altri gruppi jihadisti e islamisti. Motivati dal miraggio del guadagno, questi uomini, che pur hanno subito severe perdite, hanno fatto parte di tutte le operazioni turche in Siria, dallo “Scudo dell’Eufrate” del 2016 alla “Fonte della Pace” nel 2019, passando all’operazione ”Ramo d’olivo” del 2019. Oggi gli effettivi dell’ANS schierati in Libia ammontano a poco più di 6 mila unità: generosamente pagati (alcune fonti riportano la corresponsione di salari che vanno dai 2 mila ai 3 mila dollari mensili), questi mercenari sono stati persino costretti da Ankara, sotto la minaccia del ricatto, a partecipare alle operazioni in Libia.
Se il pragmatismo delle motivazioni economiche e politiche dell’intervento turco in Tripolitania appare ormai incontestabile, anche un motore ideologico, o piuttosto dottrinale, sembra essere in azione, sebbene in minore misura. La Turchia sembra voler implicarsi nei paesi e nelle regioni a suo tempo appartenute all’Impero ottomano, rinforzando la teoria di una politica neottomana condotta da Erdogan (e altresì annunciata in discorsi e scritti sin da 2002), una politica che non manca di glorificare il passato imperiale della Turchia.
Di fatto l’intervento turco è stato giustificato – numerose volte e da esponenti politici turchi – come necessario alla protezione del “popolo fratello libico” (formato in realtà nella stragrande maggioranza da arabi e da tribù autoctone), dei Turchi libici (una modestissima minoranza a Misurata), entrambi considerati “nipoti degli Ottomani” (sic). Tuttavia, se il passato ottomano della Libia costituisce di fatto un pretesto per Ankara, il suo peso nel processo decisionale a favore di un intervento in Tripolitania è decisamente minore di fronte alla rilevanza delle sfide geo-economiche in gioco nel Mediterraneo orientale.
L’intervento turco in Libia appare, in tal modo, un atto profondamente pragmatico, istigato da due fatti di maggiore rilievo: da una parte un accesso alle ricchezze sottomarine del Mediterraneo e dall’altra un rinforzo della posizione regionale della Turchia attraverso il sostegno ai movimenti islamisti. L’aspetto dottrinale occupa, al momento, un ruolo minore, ma consente al presidente turco di giocare sulla scena politica interna al fine di lusingare gli indispensabili alleati dell’ultra-nazionalista partito MHP. L’impegno turco ha nondimeno cristallizzato le tensioni con i suoi vicini regionali, fra i quali in prima fila l’Egitto, che il 21 luglio dello scorso anno ha minacciato la Turchia con una operazione a sostegno del maresciallo Haftar. Nonostante queste forti tensioni diplomatiche, l’intervento turco in Libia rimane un momento di incontestabile successo per Ankara sui piani militare e diplomatico: questo intervento, audace e con un alto coefficiente di rischio, ha permesso di accrescere l’influenza della Turchia ponendola al rango di attore ineludibile a livello regionale.
L’intervento di Ankara in Libia crea nuovi e più seri problemi agli equilibri del Mediterraneo: in particolare tocca indirettamente l’Europa e, direttamente, gli interessi dell’Italia nell’area, peraltro già pesantemente insidiati dall’appoggio francese ad Haftar e al governo di Bengasi.
Sebbene ancora una volta l’Unione Europea, nel suo complesso, sia rimasta alla finestra, la recente missione del primo ministro italiano a Tripoli e la precedente missione del ministro degli esteri a Bengasi appaiono come una prima evidente e articolata reazione alla mossa turca che, in nome di un neottomanismo di facciata dai contorni poco chiari, ripropone di fatto un ulteriore fattore di divisione ideologica nel Mediterraneo. L’Italia e l’Europa hanno tutto l’interesse a mantenere un rapporto privilegiato e di buon vicinato con una Libia “riunificata e più o meno federata”, libera da interferenze turche e dai Fratelli Musulmani. Si ha ragione di pensare che il successivo messaggio, non troppo criptico, nei confronti di Erdogan, sia estremamente indicativo di un risveglio della nostra politica estera e dell’atteggiamento dell’Italia sulla questione.

Note

[1] Il Gruppo Wagner è un’organizzazione paramilitare russa. Nasce nel 2014 per mano di Dmitriy Valeryevich Utkin, ex colonnello delle forze speciali russe nato nel 1970 in Ucraina. Alcuni l’hanno descritta come una compagnia militare privata (o un’agenzia di appalto militare privata), i cui appaltatori avrebbero preso parte a vari conflitti, comprese le operazioni nella guerra civile siriana a fianco del governo di Damasco, nonché, dal 2014 al 2015, nella guerra del Donbass in Ucraina, aiutando le forze separatiste delle auto-dichiarate repubbliche popolari di Donesck e di Lugansk. Molti ritengono che il Gruppo sia, di fatto, un’unità a disposizione del Ministero della Difesa russo e/o del GRU (Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie, il Servizio Segreto Militare russo). Si ritiene che il Gruppo sia di proprietà di Evgenij Prigožin, un uomo d’affari con stretti legami con il presidente russo Vladimir Putin.

[2] I Turchi hanno impiegato in Tripolitania un drone denominato Bayraktar TB2 e alcuni Anka-S della ditta TAI (Turkish Aerospace Industries), utilizzati, non solo come apparecchi di osservazione o armi di eliminazione guidate, ma anche come elementi principali di manovra per gli attacchi aerei. Sono in definitiva aerei leggeri dal basso carico esplosivo, ideali per assicurare una presenza permanente in teatri d’operazione “permissivi”, ma che risultano altamente vulnerabili di fronte all’aviazione e ai mezzi di guerra elettronica. Il TB2 ha una durata di impiego di circa 25 ore, con una portata di 150 km e un carico utile inferiore ai 60 kg; possiede una velocità massima di 130 km/h e presenta un sistema di controllo che dipende da un collegamento radio diretto. Esiste peraltro una versione per l’osservazione e l’attacco con sistema autoguidato GPS. Sebbene Ankara sia in condizioni di compensare le perdite subite, dalla loro apparizione in combattimento i turchi hanno perso 15 apparecchi nel corso del 2019 e 8 nel solo conflitto tripolino. Secondo gli osservatori, il TB2 dovrebbe essere sostituito con una versione più evoluta, il Bayraktar Akinci (sviluppato con un motore ucraino), che porterebbe la sua portata a più di 500 km e a un carico utile di oltre 1000 kg, senza peraltro un effettivo guadagno di velocità. Si ritiene che in un conflitto ad alta intensità, la mancanza furtività di questi droni ne limiterà fortemente il potenziale di combattimento.