LA STAMPA TEDESCA E IL PROCESSO FRANCOFORTE-AUSCHWITZ, 1963-1965

di Daniela Franceschi -

Nei primi mesi del 1959, Fritz Bauer, procuratore capo dell’Assia, ricevette materiale incriminante su più di 90 uomini delle SS presenti nel campo di sterminio. Ne scaturì un processo che ancora oggi è emblematico delle modalità adottate dalla società tedesca per elaborare il tema dell’Olocausto.

Solitamente si attribuisce ai processi per crimini di massa la capacità di narrare la verità storica, favorendo così la riconciliazione e la solidarietà sociale dopo il genocidio. Tuttavia, il procedimento giudiziario rende problematica ogni affermazione semplicistica riguardo ad una sua presupposta funzione pedagogica, dato che una perfetta ricostruzione storica processuale non ci fornisce alcuna indicazione sulla recezione di questa da parte dell’opinione pubblica, anche nel caso del processo di Francoforte su Auschwitz, il più grande procedimento giudiziario nella storia tedesca del dopoguerra apertosi il 20 dicembre del 1963 nella città di Francoforte sul Meno.
Di conseguenza la stampa diviene un ambito di ricerca prezioso, poiché offre la possibilità, riflettendo le dinamiche politiche e culturali coeve, di conoscere le modalità adottate dalla società contemporanea per elaborare il tema dell’Olocausto in un periodo storico in cui i giornali erano ancora importanti mezzi di informazione. Si è scelto di studiare principalmente la stampa tedesca, in modo da delineare approfonditamente il panorama dell’informazione nazionale negli anni Sessanta.

Nei primi mesi del 1959, Fritz Bauer, procuratore capo dell’Assia, ricevette materiale incriminante su più di 90 uomini delle SS presenti ad Auschwitz. In base a queste prove, Bauer si rivolse alla Corte Federale di Giustizia che assegnò alla Corte Distrettuale di Francoforte sul Meno la giurisdizione per perseguire tutti i crimini commessi nel più grande campo di concentramento e sterminio nazista. Bauer e il suo team ebbero la responsabilità di investigare su crimini che erano costati la vita a più di un milione di persone. È importante evidenziare che prima del 1959 i criminali di guerra nazisti erano giudicati dalle Corti Internazionali, le cui Leggi erano maggiormente idonee allo scopo, inoltre, la Germania Occidentale, ancora occupata dagli Alleati, non era in grado di istituire dei procedimenti legali di tale portata. Gli Alleati conservarono nei loro archivi numerose prove che furono poi utilizzate nei procedimenti tedeschi.
Nei quattro anni successivi l’accusa rintracciò i sospetti e raccolse elementi di prova sull’omicidio di massa organizzato ad Auschwitz con l’obiettivo, come Fritz Bauer affermò in un discorso alla stampa, “di aiutare la Corte ad indagare la verità oggettiva nell’udienza principale.”[1]. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, la forte continuità del personale della polizia e dell’apparato giudiziario con il passato nazionalsocialista rendeva molto difficile investigare sui crimini nazisti.
Bauer delegò le indagine ai giovani procuratori Joachim Kügler e Georg Friedrich Vogel, affiancati, durante le ultime fasi, da Gerhard Wiese. È probabile che Bauer abbia scelto deliberatamente dei procuratori molto giovani in modo da escludere ogni loro coinvolgimento con il nazionalsocialismo[2].
L’indagine era impopolare all’interno della stessa magistratura, tanto che spesso era sabotata e non dotata di adeguate risorse economiche. Secondo Kügler i mezzi finanziari a disposizione erano inadeguati per indagini di tale portata e il loro ufficio era scarsamente equipaggiato; per esempio, ogni qualvolta i procuratori dovevano inviare un fax utilizzavano l’apparecchio situato nel negozio del fruttivendolo locale.
Kügler ha ricordato che rimase a dormire nella locale stazione di polizia non potendosi permettere una camera di albergo quando si recò in un’altra parte della Germania per fare degli arresti. In realtà, il loro budget era così limitato che usarono frequentemente i propri stipendi per far quadrare il bilancio. Una volta, Kügler trascorse la notte su una panchina del Berlin Tiergarten[3]. Il magistrato per le indagini preliminari Heinz Düx ebbe notevoli difficoltà nel compiere il suo lavoro; nel suo libro di memorie, e in una intervista, dichiarò che poco dopo aver rilevato il procedimento era stato avvicinato separatamente da due autorevoli giudici con l’offerta di “consigli” su come gestire il caso. Düx concluse che l’obiettivo di questi suggerimenti non era fornire un aiuto, bensì dissuaderlo dal portare il caso in tribunale.
I tentativi di ostacolare le indagini continuarono, tra i quali basta citare il trattenimento di lettere urgenti presso il Ministero della Giustizia dello Stato dell’Assia e il rifiuto della concessione di finanziamenti adducendo futili giustificazioni[4]. Dopo aver atteso invano nove mesi l’autorizzazione per un viaggio ufficiale ad Auschwitz, Düx utilizzò il proprio periodo di vacanza per recarsi nel campo, dove scattò le fotografie usate come prova nel corso dell’udienza[5].

Alcuni colleghi e superiori erano apertamente ostili. In un caso vi era una motivazione specifica, poiché un rispettato e anziano collega era stato presente alla Conferenza di Wannsee nel 1942, riunione in cui fu deciso l’annientamento degli ebrei europei.
Un ulteriore ostacolo fu la non completa affidabilità della polizia: per esempio, un agente di polizia avvertì un sospettato prima dell’arresto.
Le sfide del procedimento, le circostanze difficili e l’atmosfera ostile all’interno del Foro di appartenenza portarono ad una sensazione di isolamento, aggravata dall’enorme mole di lavoro che i pubblici ministeri dovevano gestire.
I procuratori della Germania dell’Ovest trascorsero anni nel cercare di rintracciare i criminali di guerra, raccogliendo prove contro di essi. Incriminarono poi 22 ex amministratori e guardie con l’intenzione di mettere sotto processo l’intero complesso di Auschwitz, ma il Codice penale tedesco non aveva delle norme idonee per perseguire il reato di genocidio, infatti, la Legge tedesca era stata istituita per deferire alla giustizia crimini individuali commessi sulla base di motivazioni individuali, e, come nota Devin Pendas, “fondamentalmente mancava l’apparato teorico per comprendere ed emettere una sentenza su un genocidio supportato dallo Stato, organizzato in modo burocratico e sistematico”[6] [trad.it.a]. Per il Diritto tedesco l’intento alla base di un’azione criminale corrispondeva ad uno stato mentale soggettivo, per ciò, la forte attenzione sulla volontà dei singoli imputati, in quanto categoria centrale per determinarne la colpevolezza, rese estremamente difficile comprendere il sistema Auschwitz ed emettere una sentenza su di esso.
Il compito principale dei pubblici ministeri fu, dunque, l’incriminazione per omicidio o omicidio colposo. L’indagine fu condotta secondo i parametri del processo ordinario per omicidio, entro i principi del codice penale. La ricerca della verità fu effettuata con un obiettivo strettamente definito: determinare la colpa personale degli imputati. Per costruire il loro caso, i pubblici ministeri e il magistrato per le indagini preliminari dovettero fare affidamento, in larga misura, sulle deposizioni di testimoni oculari, in particolare dei sopravvissuti del campo. Proprio questo aspetto fu una delle caratteristiche più impegnative, poiché fu difficile per l’accusa entrare in contatto con i testimoni sopravvissuti dato che non possedevano i loro recapiti. Inoltre, molti vivevano in Polonia, Ungheria e Israele, Paesi con i quali i rapporti diplomatici della Repubblica Federale Tedesca erano molto problematici in questa fase. Fu, quindi, di fondamentale importanza la collaborazione con Hermann Langbein[7], rappresentante dell’Internationales Auschwitz-Komitee (IAK) e più tardi dell’Österreichische Lagergemeinschaft. Le migliaia di lettere di Langbein e i documenti dell’investigazione documentano la sua costante attività a sostegno dell’inchiesta; egli raccomandò gli esperti, evidenziò le prove incriminanti e fornì le informazioni su Auschwitz, di cui lui stesso era un sopravvissuto. Ma soprattutto, Hermann Langbein procurò i nomi della metà dei testimoni interrogati durante il corso delle indagini[8].

Nel portare sotto processo gli imputati, i pubblici ministeri si erano prefissati diversi obiettivi; il primo era naturalmente il riuscire a far comparire gli accusati davanti ad una Corte di giustizia, ma anche il desiderio di mostrare l’ingiustizia e l’orrore del sistema dei campi di sterminio. Inoltre, il procuratore Bauer intendeva farne una lezione oggettiva per il popolo tedesco.
Certamente il processo di Francoforte-Auschwitz può essere considerato un procedimento giudiziario notevole, a causa della lunghezza delle indagini preliminari, per il numero degli imputati e delle udienze.
Alla fine del dicembre del 1963, ventidue imputati, tra cui due ex aiutanti di campo, diversi membri della Gestapo, personale medico e un detenuto kapò, comparirono davanti al tribunale statale di Francoforte sul Meno per i crimini commessi ad Auschwitz. Al momento della sentenza nell’agosto del 1965[9], avevano deposto più di 350 testimoni, i documenti della Corte occupavano 124 volumi, e le arringhe finali furono redatte in più di tre mesi. Queste cifre rendono il processo di Auschwitz un evento storico e legale impressionante. Ancora più importante, riguardo alla storia della Repubblica Federale Tedesca, fu il fatto che il processo ricevette una grande attenzione da parte della stampa. Nei maggiori quotidiani dell’epoca, Die Welt, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Frankfurter Rundschau, e Süddeutsche Zeitung, tra il novembre del 1963 e il settembre del 1965 si contarono 993 articoli sul processo.
Tuttavia, è importante evidenziare che la monumentalità del processo, che conseguentemente attirò una grande copertura mediatica, non ci fornisce alcuna informazione sul carattere e sul significato di tale copertura. Quindi, non si può affermare che, dato il forte impatto mediatico dell’evento, necessariamente esso ebbe una corrispondente e significativa influenza sul pubblico. Ciò è particolarmente importante se si considera che negli ultimi anni è divenuto comune sostenere che il processo di Auschwitz abbia segnato un punto di svolta nel rapporto tra la Germania del dopoguerra e il suo passato nazista, che senza di esso la lezione di Norimberga non sarebbe mai stata appresa.

Fin dall’inizio, tuttavia, vi furono molti osservatori scettici riguardo all’efficacia morale e pedagogica del processo. Nel giornale Kursbuch di Hans Magnus Enzensbeger, il romanziere e drammaturgo Martin Walser criticò fortemente la reazione del pubblico al processo di Auschwitz; egli sostenne che il vero significato del processo non stava nello stesso procedimento giudiziario, ma “nell’educazione di una popolazione che non poteva essere portata a conoscere ciò che era accaduto in nessun altro modo”[10] [trad.it.a]. Il problema, secondo Walser, era che la natura di questa educazione, Aufklärung in tedesco, era insufficiente. Il dettagliato racconto, spesso quasi voyeuristico, di storie di atrocità nella stampa aveva permesso al pubblico di prendere le distanze da quello che era successo e, più significativamente, dagli autori di quei crimini. A parere di Walser, si era creata una dinamica psicologica per cui i tedeschi provavano, allo stesso tempo, una sorte di fascinazione e repulsione verso ciò che era mostrato. Il drammaturgo temeva che, isolata da qualsiasi contesto storico, questa fascinazione si sarebbe rivelata di breve durata nella migliore delle ipotesi: “E poiché nessun Höss, né Heydrich, né Himmler, né qualche ideologo della razza o direttore della IG-Farben siede nell’aula, sarebbe possibile per il processo di Auschwitz divenire un guazzabuglio mostruoso di omicidi; che potrebbe coinvolgerci soltanto come consumatori di titoli acuti. E questi sono dimenticati non appena vengono sostituiti da nuovi titoli”[11] [trad.it.a]. Se questo processo e altri simili non fossero andati oltre il risveglio di una fascinazione fugace, se non ci fossero state conseguenze politiche, i tedeschi avrebbero potuto mantenere una comoda distanza da quello che era accaduto, come se non fossero stati responsabili.
La preoccupazione di Walser per la reazione del pubblico al processo di Auschwitz non era affatto l’unica, infatti, all’inizio delle udienze l’autore Erich Kuby espresse l’apprensione per la nascita di una resistenza interna tra la popolazione in generale. “(…) Niente può essere modificato a suddetto proposito. La realtà sociale è tale per cui sarebbe utopico aspettarsi che il pubblico non avrebbe cercato di reprimere questo processo, come reprime tutto ciò che è scomodo”[12] [trad.it.a].
Walser e Kuby evidenziavano il disagio esistente tra gli osservatori tedeschi contemporanei per l’importanza extragiudiziale del processo di Auschwitz, in pratica per il suo status di evento pubblico.

In linea di massima, vi erano due preoccupazioni: da un lato, il timore espresso da Kuby riguardava la resistenza interna del pubblico tedesco che avrebbe ignorato il procedimento nonostante la sua grandiosità; dall’altra parte, la preoccupazione manifestata da Walser secondo la quale, benché il processo fosse stato seguito dall’opinione pubblica, essa non avrebbe imparato la “lezione giusta”.
Il processo di Auschwitz era chiaramente un evento mediatico per eccellenza, infatti, nessuna udienza del processo fu priva di copertura da parte della stampa. Complessivamente, vi furono 183 sessioni tra il 20 dicembre del 1963 e il 20 agosto del 1965. Come indicato precedentemente, nelle quattro testate giornalistiche menzionate furono pubblicati 933 articoli. È indicativo che anche la stampa regionale abbia dedicato al processo molti articoli, sebbene in questo periodo fosse concentrata soprattutto sulla cronaca locale.
Non vi è dubbio che la stampa tedesca abbia fatto tutto il possibile per focalizzare l’attenzione del pubblico sul processo di Auschwitz, ma ciò non significa che l’opinione pubblica abbia seguito il dibattimento con interesse e favore. Infatti, è stata riscontrata una divergenza tra la reazione dell’opinione pubblica al processo in sé e quanto era pubblicato nei giornali. Si può affermare che l’antipatia dell’opinione pubblica verso il processo è stata il risultato della peculiare disgiunzione tra la struttura giuridica del processo e il carattere storico della Shoah.
Nel seguire il processo, la stampa ha replicato la narrazione legale della colpa individuale, proponendo una varietà di racconti giornalistici morali e politicizzati, esacerbando le ambiguità e le inadeguatezze intrinseche alla narrazione legale. L’aggiunta di vari tropi politici ha fatto sì che la stampa spostasse involontariamente l’attenzione dal tema dell’Olocausto come processo storico, con continue implicazioni per la società tedesca, ad una visione di Auschwitz come un inferno terreno, in gran parte incomprensibile, popolato da “mostri”, “demoni”, e “diavoli”[13]. In questo modo, lo stesso procedimento legale, concentrandosi sui singoli autonomi imputati, e quindi su imputati-mostri, ha contribuito, tramite la mediazione della stampa, a generare una resistenza interna nell’opinione pubblica.

La copertura giornalistica del processo di Auschwitz può essere suddivisa in quattro diversi orientamenti politici: l’orientamento comunista, rappresentato dal giornale ufficiale della Repubblica Democratica Tedesca, il Neues Deutschland; alla parte opposta, un orientamento nazionalista, rappresentato dalla Deutsche National-Zeitung und Soldaten-Zeitung; il campo socialdemocratico che comprendeva la Frankfurter Rundschau, la Süddeutsche Zeitung, e Die Zeit; un campo conservatore e moderato rappresentato da testate come Die Welt, Bild, il giornale economico Handelsblatt e, più ambivalente, la Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Tra i quattro schieramenti politici, il campo che ha avuto più difficoltà nel trovare una strategia narrativa per rappresentare il processo di Auschwitz è stato quello comunista. Il processo ha rappresentato una sfida per i principi su cui la Repubblica Democratica Tedesca aveva riposto la sua legittimità; il fondamento politico della Germania comunista consisteva in un presunto solido consenso antifascista, che aveva redento l’incontaminata eredità della classe operaia tedesca dalle perversioni del Terzo Reich. La diffusione di questo mito fondante è stato un obiettivo significativo per la politica estera della Germania Orientale, costituendo un notevole sforzo propagandistico, di cui era parte integrante l’evidenziazione dei fallimenti della Repubblica Federale Tedesca nell’affrontare i crimini nazisti. Basti citare il cosiddetto Braunbuch, pubblicato nella Berlino Est, contenente una lista di tutti i giuristi nazisti ancora in carica nella Germania Ovest.
Il fatto stesso che i tedeschi occidentali processassero dei nazisti, ed in modo così visibile, metteva a repentaglio uno dei miti fondanti della DDR. In queste circostanze, non sorprende che i tedeschi orientali e i loro simpatizzanti abbiano reagito in modo critico al processo di Auschwitz. Tuttavia, dato che il successo di questo mito antifascista dipendeva dal suo status di asserzione indiscussa, il processo di Auschwitz non poteva essere attaccato direttamente. Dopo tutto, quale antifascista si sarebbe opposto alla messa sotto processo dei nazisti? La stampa comunista adottò una strategia retorica ispirata ad uno storicismo cinico. I comunisti sostennero che il processo non dava la giusta attenzione al contesto storico di Auschwitz, tuttavia, questa critica era altamente cinica, in quanto si basava su una lettura falsata e unilaterale della storia, secondo la quale soltanto la famosa azienda chimica IG Farben era l’unica responsabile dei crimini commessi nel campo di sterminio[14].

Le critiche al processo di Francoforte erano centrate quasi esclusivamente sull’assenza dei membri del Consiglio di Amministrazione della IG Farben sul banco degli imputati, evidenziando di conseguenza il fallimento delle prove incriminanti il capitalismo monopolista tedesco. Il giorno dopo l’apertura del processo si poteva leggere nella Neues Deutschland che la “IG Farben aveva visto nel giudice nazista Hofmeyer il proprio uomo, che durante il processo non avrebbe scavato per trovare i misfatti ancora sconosciuti delle personalità aziendali di spicco”[15] [trad.it.a]. L’avvocato e consulente per le parti civili Friedrich Kaul, il rappresentante quasi ufficiale del Politburo nel processo, si soffermò sovente su questo aspetto, ad uso e consumo dei media occidentali, dal momento che non vi era nessuna possibilità che ciò avesse un impatto sul verdetto.
Allo stesso tempo, il Comitato Antifascista dei Combattenti della Resistenza della Repubblica Democratica Tedesca pubblicò un documento molto dettagliato sui crimini commessi dalla IG Farben, documento che rispecchiava le conclusioni dello storico e testimone Jürgen Kuczynski (tale testimonianza fu resa il 19 marzo del 1964, per poi essere annullata il pomeriggio stesso su richiesta di un gruppo di avvocati della difesa)[16]. Più in generale, i comunisti raffiguravano il fallimento della messa sotto processo dei vertici dell’IG Farben come parte di un fallimento sistemico da parte dell’apparato giuridico occidentale per superare la propria natura fascista e imperialista. Alla fine del processo, Der Morgen, un giornale affiliato al Partito Socialdemocratico della Germania Orientale, commentò: “il processo di Auschwitz è finito. Ma la colpa di Auschwitz rimane inespiata. Il sistema che ha dato vita a questa colpa non è stato condannato. Le fondamenta di questo sistema rimangono intoccabili, poiché esse sono anche le fondamenta di Bonn”[17] [trad.it.a]. Ma soprattutto, secondo i comunisti, il processo di Auschwitz sottolineava la continuità tra la Repubblica Federale e il Terzo Reich, più che un serio e legittimo sforzo da parte della Germania Occidentale di confrontarsi con l’eredità del regime nazista.
È difficile giudicare l’efficacia sull’opinione pubblica dei tentativi comunisti per reindirizzare l’attenzione dal processo in corso a quello che avrebbe dovuto svolgersi. Certamente questi tentativi non ebbero alcun impatto sull’esito del procedimento; tuttavia, Kaul, “un vero maestro nell’oscurare le procedure per i propri scopi, divenne una sorta di bestia nera per la stampa tedesca occidentale”[18]. [trad.it.a].

Il processo di Auschwitz era una sfida ancora più decisa per i nazionalisti, che stavano emergendo nella nuova formazione politica Nationaldemokratischen Partei Deutschlands (NDP) e nel gruppo giornalistico del National-Zeitung. Per i nazionalisti il processo di Auschwitz era solo un altro esempio di ciò che definivano “masochismo nazionale”[19] [trad.it.a]. Inoltre, affermavano di parlare per la massa dei tedeschi demoralizzati da una storia del dopoguerra che li privava dei loro sentimenti nazionali, come affermò Otto Hess, leader del NDP ed ex funzionario del Partito Nazista, in un’intervista a Der Spiegel: “il nostro programma è orientato verso la condizione politico-psicologica attuale della popolazione, con il suo particolare desiderio di rispetto, equilibrio, buon senso, e consapevolezza di sé”[20]. [trad.it.a].
Un elemento cardine di questo sforzo della destra radicale di rigenerare sentimenti nazionalisti fu la relativizzazione e banalizzazione dei crimini nazisti. Per esempio, il National-Zeitung sponsorizzò la visita in Germania dello storico negazionista David Hogan, il cui libro Der erzwungene Krieg divenne una sorta di cause-célebrè tra i nazionalisti tedeschi[21].”.
Procedimenti giudiziari come quello di Auschwitz, che evidenziavano e riconoscevano giuridicamente i crimini nazisti, indubbiamente ponevano dei gravi problemi a questi tentativi. In un certo senso, i nazionalisti ebbero una maggiore libertà di critica verso questi processi rispetto ai comunisti, dato che non dovevano difenderli nemmeno in linea di principio. Un elemento fondamentale per ridimensionare i crimini nazisti fu quello di chiedere un’amnistia generale per tutti i crimini di guerra, tra cui quelli degli Alleati, sostenendo che si trattava di una tradizione di lunga data e l’unico modo per ristabilire una pace duratura[22]. Ovviamente era una forma non così sottile del cosiddetto tu quoque, tesi che si rifaceva all’assunto che i crimini commessi dagli Alleati non erano così diversi da quelli tedeschi. Per ciò, mentre fingevano di favorire i processi per tutti i crimini di guerra, tra cui quelli degli Alleati (il loro esempio preferito era la cosiddetta guerra alleata contro la Germania), in realtà cercavano solamente un pretesto per chiedere un’amnistia generale per i crimini di guerra tedeschi. Naturalmente, questa totale opposizione ai “processi per crimini di guerra” costituì un tema centrale nella copertura mediatica del processo di Auschwitz. La stampa nazionalista adoperò due strategie retoriche: banalizzazione, e in parallelo, cinismo legale.
La banalizzazione consisteva nel relativizzare o minimizzare i crimini commessi ad Auschwitz; uno dei metodi principali fu quello di esprimere dei dubbi sul numero delle vittime del nazismo. Così il National-Zeitung scrisse, in più di un’occasione, che “l’affermazione che più di sei milioni di ebrei furono uccisi dai tedeschi è falso”[23] [trad.it.a]. Tali tentativi di ridurre al minimo il numero delle vittime, negare l’esistenza di qualsiasi deliberata politica di sterminio, e in generale negare ogni responsabilità tedesca facevano parte di una strategia finalizzata ad eliminare la Shoah dalla memoria storica della Germania.

Un’altra strategia della stampa nazionalista fu mettere in dubbio le testimonianze rese al processo; infatti, seguendo l’esempio degli avvocati della difesa, il National-Zeitung sottolineò regolarmente le contraddizioni emerse nelle deposizioni, sostenendo che l’unico fine era quello di “gettare su tutti noi tedeschi la vergogna di crimini commessi da singoli individui”[24] [trad.it.a]. È interessante prendere in esame un articolo che riproponeva, a distanza di vent’anni dallo sterminio, tematiche prettamente antisemite. Nell’articolo, firmato solamente con le iniziali EK e pubblicato nel febbraio del 1964, il giornalista affermava che un certo “Herr Aranyi” lo aveva raggiunto nel suo ufficio di Monaco nel tentativo di estorcerli del denaro sulla base dei sentimenti di colpa per il passato nazista[25].
Il redattore colse l’occasione, dopo essersi soffermato su stereotipi antisemiti come la ricchezza e l’avidità degli ebrei, per dichiarare che “fintanto che il potere prevale sul Diritto, concetti come colpa collettiva o crimini di guerra non hanno alcun significato per me” [trad.it.a].
Allo stesso tempo, il National-Zeitung scusò ogni contraddizione o errore nelle deposizioni degli imputati, basandosi sul fatto che dopo tanto tempo la memoria di chiunque avrebbe potuto commettere degli errori[26].
La caratteristica saliente delle testate giornalistiche comuniste e nazionaliste nel trattare il processo di Auschwitz fu l’utilizzo di strategie retoriche prettamente politiche; per entrambi i gruppi il processo non era valutato nei suoi termini, o nei termini del Diritto stesso, ma attraverso il prisma di interessi politici extra-legali.
Un’altra proprietà di entrambe queste posizioni estreme fu il rifiutare la Legge, anche se dovevano confrontarsi con i crimini nazisti all’interno di un contesto giuridico.
La sfera comunista e quella nazionalista furono accumunate da uno storicismo cinico e da un legalismo cinico. Il primo sosteneva che la “Legge borghese”, in sé uno strumento del capitalismo monopolistico, non sarebbe mai stata in grado di arrivare alla realtà storica di Auschwitz, essendo necessaria una giustizia antifascista, la sola capace di superare il peso del passato nazista in quanto libera dal mero formalismo del dominio borghese del Diritto. La posizione comunista riconosceva che le motivazioni dei singoli imputati non erano la “causa” di Auschwitz, ma piuttosto che afferrare questo aspetto nella sua vera complessità, individuava nell’avidità della IG Farben il fattore responsabile del nazismo, e per estensione dell’Olocausto e dell’imperialismo occidentale della Repubblica Federale Tedesca. Si tracciava così una linea polemica, ma soprattutto palesemente antistorica, tra Auschwitz e il cancelliere tedesco Konrad Adenauer. L’unico modo adeguato per affrontare questo problema sarebbe stata la radicale trasformazione della società.
Il legalismo cinico rifiutava la Legge come mezzo per affrontare Auschwitz, paradossalmente in nome della Legge stessa; infatti, riconosceva la diversità dei moventi degli autori dei crimini, ma sottolineava, allo stesso tempo, la difficoltà di soppesare le prove e di valutare le deposizioni, giungendo alla paradossale conclusione che l’accusato non avrebbe dovuto essere processato. Questa posizione portava gli orientamenti giustificativi del Diritto oltre la loro estrema logica, al punto in cui gli esecutori del crimine erano ancora presunti innocenti di fronte all’evidenza di tutte le prove. In questo modo, la rivitalizzazione della Germania poteva andare avanti senza dover rispondere alle terribili questioni poste da Auschwitz. Il cinismo di questa posizione difficilmente può essere messo in dubbio, data la manifesta unilateralità del legalismo nazionalista.
Per entrambi questi due campi estremi, i limiti della Legge nel trattare con la realtà storica della Shoah fornivano una scusante per respingere totalmente la Legge, in nome di un obiettivo politico “superiore”.

Il processo di Auschwitz ha rappresentato una sfida anche per il contesto politico tedesco che sostenne il procedimento. Socialdemocratici e conservatori condividevano dei presupposti politici fondamentali che influenzarono profondamente la loro reazione di fronte al processo. In primo luogo, entrambi convennero che il Rechtsstaat, lo Stato di Diritto, fosse l’unico garante di una società libera.
In secondo luogo, questi due gruppi facevano parte di quel consenso antinazista alla base della Repubblica Federale Tedesca. È importante sottolineare che il termine antinazista non indicava l’opposizione al reinserimento sociale dei singoli nazisti, ma soltanto l’opposizione all’espressione pubblica di sentimenti nazisti.
Norbert Frei ha sostenuto che la storia iniziale della Repubblica Federale può essere compresa nei termini di due pratiche parallele; da un lato, una reintegrazione degli ex nazisti nella società, dall’altro un disegno politico e giudiziario capace di circoscrivere i crimini del nazionalsocialismo.
Identificando e perseguendo i “peggiori criminali nazisti”, la Repubblica Federale indicò i confini di ciò che era considerato politicamente e moralmente accettabile, senza compromettere la fedeltà politica di milioni di concittadini mettendoli a rischio di una condanna giudiziaria penale o simbolica. Nel loro insieme, la difesa dello Stato di Diritto e la delimitazione del consenso antinazista hanno definito l’agenda politica della Germania Occidentale di fronte ai processi contro i criminali nazisti.
Non vi è alcuna contraddizione tra questi due aspetti del contesto politico, la Rechtsstaatlichkeit e la limitazione del procedimento giuridico ad alcuni criminali nazisti; infatti, la richiesta di procedimenti giudiziari più numerosi contro i nazisti sarebbe stata politicamente inopportuna, dato l’impegno generale per il loro reinserimento. Nella pratica, la difesa dello Stato di Diritto tendeva a prendere la forma di un legalismo molto angusto rendendo più difficile il perseguimento di quei crimini.
La sfida per l’ampio campo antinazista è stato, quindi, quello di trovare un modo per conciliare due posizione fondamentali: la difesa dello Stato di Diritto e il perseguimento dei crimini commessi durante il Terzo Reich.
Le differenze tra i vari gruppi si incentravano sulla tipologia di consenso che intendevano conseguire nel dopoguerra. Il Partito Socialdemocratico tedesco era interessato a delimitare l’anti-nazismo, mentre l’Unione Democratica Cristiana e l’Unione Cristiano Sociale (CDU/CSU) sottolineavano l’inviolabilità del Rechtsstaat.

Nell’affrontare il tema del processo, i socialdemocratici adottarono una strategia critica che può essere definita “moralismo didattico”. Questo approccio tendeva ad enfatizzare le lezioni morali derivanti dall’esito del procedimento giudiziario, senza un approfondimento del processo stesso. Di conseguenza, si tendeva a condividere, in base all’impostazione di Legge, un’ossessione per le motivazioni degli imputati indagandole, tuttavia, ad un livello sociale più che individuale. Per esempio, il Tagessspiegel osservava che le motivazioni degli imputati non erano né sadiche né perverse, ma consistevano piuttosto in un eccessivo senso del dovere[27]. Conducendo le vittime nelle camere a gas, gli imputati avevano soppresso “coraggiosamente” quei sentimenti di colpa che non gli erano sconosciuti.
È interessante notare che nella stampa moderata era molto diffuso il tema del dovere come movente principale degli imputati, presentandolo come una caratteristica archetipicamente tedesca, senza fornire una spiegazione che andasse al di là degli stereotipi. L’enfasi sul senso del dovere appariva come un tentativo di sfuggire ai paradossi della motivazione soggettiva. Così l’Hamburger Abendecho commentava la fine del processo: “così come non ci può essere alcuna comprensione attenuante per i colpevoli di Auschwitz, non ci potrà mai essere una spiegazione definitiva sulla loro volontà di commettere crimini di tale grandezza. Niente di più che un ordine anonimo ha convertito degli innocenti in assassini di massa. E niente se non un’obbedienza compiacente ha dato l’impulso per i loro crimini senza precedenti”[28] [trad.it.a]. Questa argomentazione non stabilisce un nesso causale tra la motivazione e l’agire pratico, inoltre, non contempla il fatto che molti degli imputati non avevano necessariamente sviluppato un tale senso dell’obbedienza. Di fronte a questo dilemma, un’altra dimensione della strategia del moralismo didattico era quella di eludere i moventi dei criminali, meno significativi rispetto alle lezioni morali e storiche del processo. La Frankfurter Neue Presse osservava: “il significato più alto di questo processo non sarà quello di identificare gli eventi di Auschwitz con l’accusato, di accontentarsi del verdetto, di chiudere il capitolo, dopo mesi di tentativi (che non fanno certo ammenda) perché tutto il pensabile e possibile era stato fatto per soddisfare le richieste della giustizia”[29] [trad.it.a].
Il destino degli accusati aveva poca importanza rispetto allo scopo didattico del processo. Il procedimento giudiziario doveva essere una sorta di memoriale per le future generazioni, insegnando loro a rispettare gli altri e a resistere alla demagogia. Così il moralismo didattico ha cercato di evitare il problema della motivazione individuale, evidenziandone il carattere sociale e minimizzandone l’importanza alla luce di una più alta lezione politica. La lezione che un giornale come la Frankfurter Neue Presse traeva dal processo di Auschwitz era piuttosto vaga poiché annoverava, come si è potuto osservare, soltanto luoghi comuni.

I conservatori adottarono una strategia retorica convenzionale, adatta al loro orientamento politico improntato all’ordine, alla stabilità e alla tradizione, sostenendo la natura inviolata del Rechtsstaat. Questa linea politica assunse due forme principali. Innanzitutto, implicò una difesa esplicita delle esigenze dello Stato di Diritto contro le imposizioni della sfera pubblica. Per esempio, la Frankfurter Allgemeine Zeitung osservò, in un commento pubblicato prima dell’inizio del processo, che, mentre la portata e la durata del processo da sole avrebbero garantito che sarebbe stato molto di più che un normale processo penale, dovevano essere prese altre “precauzioni straordinarie” affinché il procedimento non si trasformasse in un “palcoscenico”, “perché ciò non sarebbe servito per riflettere sul passato nazionalsocialista”[30] [trad.it.a]. L’articolo elogiava la decisione della Corte di iniziare il procedimento prima di Natale, nonostante la Gallus Haus, che aveva più spazio per gli spettatori, non fosse ancora a disposizione. La decisione poteva essere svantaggiosa per il pubblico ma era giusta per gli imputati, molti dei quali era già da tempo in custodia cautelare e meritavano un processo rapido. “Questa decisione è da lodare (…) tutto deve puntare al rapido completamento del processo”[31] [trad.it.a]. I conservatori sostenevano che il processo doveva essere protetto da ogni contaminazione da parte di considerazioni “politiche”, come ad esempio quelle che avevano rovinato il processo di Norimberga[32]. Che tale forma apolitica fosse in sé, paradossalmente, politica non è mai stato riconosciuto.
La denuncia della politicizzazione del processo da parte dei rappresentanti dei due campi estremi, il comunista e il nazionalista, formavano l’altra difesa del Rechtsstaat nella stampa moderata. Ad esempio, il Ruhr-Nachrichten, vicino alla CDU, osservava il giorno dell’apertura del processo che: “i 120 giornalisti nazionali e stranieri percepiscono ciò che è nell’aria questa mattina, affollandosi nella sale del Consiglio Comunale di Francoforte con l’intenzione di strappare il velo del passato. È un uomo tarchiato quello che si trova al centro dei flash delle macchine fotografiche. Il primo obiettivo dei fotografi non sono le grandi fotografie che mostrano le mappe del campo o i modelli dei forni crematori. Invece si sono concentrati su questo piccolo uomo. Il suo nome? Prof. Dr. FK Kaul, avvocato principale per la zona orientale”[33] [trad.it.a]. L’articolo continuava notando come solo l’avvocato della difesa, Hans Laternser, sembrasse sorpreso dalla presenza di Kaul, stabilendo così un tema che sarebbe diventato un leitmotiv nella stampa: la battaglia legale tra Kaul e Laternser per appropriarsi dell’agenda pubblica del processo. La Ruhr-Nachrichten continuava descrivendo in dettaglio le schermaglie iniziali tra Kaul e Laternser, riguardanti la richiesta del primo di essere ammesso come consulente per alcune parti civili, “così il processo è stato travolto fin dall’inizio da una corrente altamente politica”[34] [trad.it.a]. L’articolo si concludeva affermando che Kaul era di nuovo, come nel processo Eichmann, più un rappresentante della DDR che dei sopravvissuti di Auschwitz. La stampa moderata dedicò molta attenzione alle deposizioni dei testimoni, evidenziandone gli aspetti di atrocità e crudeltà, dato che queste erano le loro caratteristiche salienti[35].

Possiamo conoscere l’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte al processo di Francoforte Auschwitz? I risultati di alcune indagini statistiche possono aiutarci nel dare una risposta a questo interrogativo.
Una ricerca effettuata nel giugno del 1964 dell’Istituto DIVO rilevò che il 40% degli intervistati non aveva seguito il processo di Auschwitz attraverso uno qualsiasi dei media (stampa, radio o televisione)[36]. Queste statistiche possono indicare un atteggiamento di indifferenza, soprattutto se confrontati con il 95% di tedeschi che aveva seguito il processo Eichmann pochi anni prima. Tuttavia, un sondaggio condotto un mese più tardi dall’Institut fur angewandte Sozialwissenschaft indicava nell’83% la percentuale di tedeschi che aveva sentito parlare del processo di Auschwitz e nel 42% coloro che erano in grado di specificare che si stava svolgendo a Francoforte[37]. Questi numeri si avvicinavano alla notorietà del processo Eichmann: l’87% dei tedeschi aveva sentito parlare del processo Eichmann e il 46% sapeva che si era svolto in Israele. Si rileva, tuttavia, che sebbene la risonanza pubblica del processo di Auschwitz si sia avvicinata a quella del processo Eichmann non l’ha superata, nonostante l’alto livello di copertura da parte della stampa.
Le persone tra i 35 e i 49 anni erano le più informate sul processo di Auschwitz, seguite in ordine decrescente da coloro che avevano tra i 25 e i 34 anni, tra i 50 e i 64, tra i 18 e i 24, e tra gli ultra sessantacinquenni.
Vi sono anche alcuni dati più generali sulla presa di posizione dell’opinione pubblica che meritano attenzione. All’inizio del 1965, un sondaggio condotto dall’AllensbachInstitut fur Demoskopie rilevò che il 57% della popolazione tedesca era contraria ad ulteriori procedimenti giudiziari contro i nazisti[38]. Questo rifiuto non significava necessariamente che i tedeschi fossero contrari al processo di Auschwitz in particolare, anche se potrebbe essere una deduzione plausibile. In ogni modo, non si deve amplificare questo aspetto, chiaramente vi era una parte della popolazione che si opponeva alle azioni legali contro i nazisti anche in precedenza; ad esempio, prima del riarmo (e come precondizione per esso) i tedeschi esercitarono una notevole pressione sugli americani affinché fosse concessa l’amnistia a tutti i nazisti ancora in custodia per i loro crimini. Nel 1958 il 34% dell’opinione pubblica si opponeva ai procedimenti, mentre nel 1966 la percentuale era del 44%. È possibile che l’impopolarità delle azioni legali derivasse dal grande dibattito che imperversava in quel periodo sui tempi di prescrizione dei crimini commessi durante l’ultimo conflitto[39]. Questo dibattito verteva esplicitamente sulla legittimità di continuare a svolgere tali processi, più che sulla validità dei procedimenti precedenti o in corso[40].
In ogni modo, nessuno in Germania poté ignorare del tutto il processo di Francoforte-Auschwitz.
Se c’è una lezione che possiamo imparare da questo processo è che la Legge è uno strumento limitato per rendere giustizia e dire la verità dopo un genocidio, ma non del tutto inutile.

Note

[1] Hessisches Hauptstaatsarchiv Wiesbaden (HHStAW), 4 Ks 2/63, Vol. 1a, p. 1, Lettera di Gnielka a Bauer 15 gennaio 1959, HHStAW, 4 Ks 2/63, Vol. 1a, p. 15–19.
[2] Fritz Bauer Institut, Sammlung Auschwitzprozess (FBI/AP), Intervista a Joachim Kügler, 5 maggio 1998.
[3] Fritz Bauer Institut, Sammlung Auschwitzprozess (FBI/AP), Intervista a Kügler, 5 maggio 1998.
[4] HHStAW, 4Ks 2/63, Vol. 52, p. 9441. Heinz Düx, Die Beschützer der willigen Vollstrecker. Persönliche Innenansichten der bundesdeutschen Justiz, ed. Friedrich-Martin Balzer (Bonn, 2004), p. 31; Heinz Düx, ’Der Auschwitz-Prozess. Ein unerwünschtes Strafverfahren in den Zeiten der Verbrechensleugnung und des kalten Krieges’, in Fritz-Bauer-Institut, Labyrinth, pp. 267–84, p. 273.
[5] Heinz Düx, Beschützer, p. 31; Heinz Düx, ‘Auschwitz-Prozess’, pp. 267–84, p. 273. Düx, ‘Auschwitz-Prozess’, p. 272 and Düx, Beschützer, pp. 38–39.
[6] Devin O. Pendas, The Frankfurt Auschwitz trial, 1963-1965: Genocide, History, and the Limits of the Law (New York: Cambridge University Press, 2006) p. 53.
[7] Österreichisches Staatsarchiv (ÖstA), E1797:101, Langbein a Kügler e Vogel, 31 marzo 1961. In questa lettera Langbein fornisce informazioni ricevute dai superstiti, oltre ai loro nomi e indirizzi. Egli allegò anche del materiale fotografico. Cfr. e.g. del 2 marzo 1961, 3 Aprile 1961, 26 Aprile 1961. Cfr. Erika Weinzierl, ‘Hermann Langbein—Zeitzeuge in Wort und Schrift’, in Claudia Fröhlich und Michael Kohlstruck (eds), Engagierte Demokraten. Vergangenheitspolitik in kritischer Absicht (Münster, 1999), pp. 224–36, p. 225.
[8] Irmtrud Wojak, Fritz Bauer 1903–1968: Eine Biographie (Munich, 2009), p. 323.
[9] Cfr. Il verdetto comminò sette ergastoli, dieci pene detentive che variavano dai tre anni e tre mesi ai quattordici anni, tre assoluzioni e due sospensioni per motivi di salute.
[10] Martin Walser, Unser Auschwitz, 1 KURSBUCH 189, 189 (1965).
[11] Id. p. 195.
[12] Erich Kuby, Auschwitz und die bundesdeutsche Gegenwart, in Auschwitz- Ein Prozess: Geschichte-Fragen-Wirkunngen, 7, Ulrich Schneider ed. 1994.
[13] L’uso di una terminologia religiosa manichea per descrivere gli imputati fu estremamente diffuso. Cfr. “Ich bin Capesius-der Teufel,” FRANKFURTER RUNDSCHAU, 25 agosto 1964; 1hr werdet den Teufel kennenlernen, NEUES DEUTSCHLAND, 26 agosto 1964; Bernd Naumann, “In mir werdet ihr den Teufel kennenlernen,” FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, 25 agosto 1964.
[14] Cfr. IG-Farben im Auschwitzprozefl erneut schwer belastet, NEUES DEUTSCHLAND, 31 ottobre 1964; Otto Frank, Und dennoch . . . Impressionen vom Auschwitzprozess (III), NEUES DEUTSCHLAND, 7 aprile 1964; Otto Frank, Verhandlungsalltag Impressionen vom Auschwitzprozess (XIII), NEUES DEUTSCHLAND, 8 agosto 1964; Friedrich Kaul, Keine Weste ist so rein…: Die IG-Farben im Auschwitzprozess, NEUES DEUTSCHLAND, 23 aprile 1965; Dr. K [probabilmente Friedrich Kaul], Das Urteil von Frankfurt, NEUES DEUTSCHLAND, 20 agosto 1965.
[15] Cfr. Prozess gegen SS-Henker von Auschwitz, NEUES DEUTSCHLAND, 21 dicembre 1963.
[16] Cfr. I.G. FARBEN, AUSCHWITZ, MASSENMORD: UBER DIE BLUTSCHULD DER I.G. FARBEN: DOKUMENTATION ZUM AUSCHWITZ PROZESS (Arbeitsgruppe der ehemaligen Haiftlinge des Konzentrationslagers Auschwitz beim Komitee der Antifaschistischen Widerstandskampfer in der Deutschen Demokratischen Republik und dem Nationalrat der Nationalen Front des demokratischen Deutschland ed. 1964).
[17] Cfr. Carlheinz v. Bruck, Schuld und SiIhne, DER MORGEN, 21 agosto 1965.
[18] Cfr. Dieter Strothmann, Das Tribunal der Advokaten. Die Starjuristen im Auschwitz-Prozess: Kaul und Laternser, DIE ZEITUNG, 8 maggio 1964.
[19] Cfr. Herbert Cysarz, National-’Masochismus’? DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 18 settembre 1964.
[20] Cfr. Christoph Klessmann, Zwei Staaten, Eine Nation: Deutsche Geschichte, 1955-1970, (1988), p.100.
[21] Cfr. Einfach Schon and Spiegel-Gesprach: David Hogan, DER SPIEGEL, 1964; H.E. Barnes, Deutsche Kriegsschuld-eine Lüge, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 27 novembre 1964.
[22] Cfr. Deutschland braucht eine Generalamnestie: Die ungesuihnten Kriegsverbrechen der Alliierten, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 11 ottobre 1963; Jetzt kommen die Alliierten dran, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 29 marzo1963; Hans-Joachim Göhring, Politische Justiz mit Rechtsstaatlichem Denken nicht vereinbar: Beobachtungen und Gedanken zu den NSVerbrecherprozessen, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 1 gennaio 1965.
[23] Cfr. Dr. Gerhard Frey, Die Wahrheit Ober die Judenmorde: Wie lange noch soll dasdeutsche Volk für Auschwitz büssen, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 13 marzo 1964.
[24] Cfr. Im Auschwitz-Prozess notiert: Die wiedersprechende Zeugenaussagen, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZETUNG, 24 aprile 1964.
[25] Cfr. E.K., Auschwitz-”Zeuge” auf Betteltour, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZE1TUNG, 7 febbraio 1964.
[26] Cfr. Hans-Joachim Göhring, Politische Justiz mit rechtsstaatlichem Denken nicht vereinbar, DEUTSCHE NATIONAL-ZEITUNG UND SOLDATEN-ZEITUNG, 11 dicembre 1964.
[27] Cfr. Der Auschwitzprozess, DER TAGESSPIEGEL, 20 dicembre 1963.
[28] Cfr. Erwin Fischer, Auschwitz, HAMBURGER ABENDECHO, 22 maggio 1965.
[29] Cfr. Friedrich Herzog, Vor Gericht, FRANKFURTER NEUE PRESSE, 20 dicembre 1963.
[30] Cfr. Der Auschwitz-Verfahren, FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, 16 ottobre 1963.
[31] Id.
[32] Cfr. Rainer Klose, Bestraft wird lediglich die Tat, MUNCHNER MERKUR, 20 agosto 1965.
[33] Cfr. Max Karl Freiden, Einer der 21 Angeklagten im Auschwitz Trial ist noch Stolz auf seine niedrige SS-Nummer, RUHR-NACHRICHTEN, 21 dicembre 1963.
[34] Id.
[35] Cfr. Bernd Naumann, “Er hat getotet aus Jagdleidenschaft”: Klehr der Teilnahme bei Vergasungen beschuldigt, FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, 19 settembre 1964; Kurt Ernenputsch, Versalzene Heringe als Dreingabe zur Folter, FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, 16 maggio 1964; Bernd Naumann, Uberraschendes Gestandnis im Auschwitz-Prozess. Dr. Lucas: Dreibis viermal an Selektionen teilgenommen-Der Angeklagte Baretzki: Er hat die ganze Ungarn-Aktion mitgemacht, FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, 12 marzo 1965.
[36] Cfr. REGINA SCHMIDT & EGON BECKER, REAKTIONEN AUF POLITISCHE VORGANGE: DREI MEINUNGSSTUDIEN AUS DER BUNDESREPUBLIK 111 (1967).
[37] Cfr. Wer weiss etwas iiber den Auschwitz-Prozess? Jugend nicht gut informiert, DIE WELT, 9 luglio 1964.
[38] Cfr. INSTITUT FOR DEMOSKOPIE, VERJAHRUNG VON NS-VERBRECHEN: ERGEBNISSE EINER SCHNELLUMFRAGE (1965), in Ulrich Kroger, Die Alndung von NS-Verbrechen vor Westdeutschen Gerichte und ihre Rezeption in der deutschen Offentlichkeit 1958 bis 1965 unter besonderer Berucksichtigung von “Spiegel”, “Stem”, “Zeit”, “SZ”, “FAZ”, “Welt”, “Bild”, “Hamburger Abendblatt”, “NZ” und “Neuem Deutschland” 276 (1973).
[39] Cfr. Martin Hirsch, Anlass, Verlauf und Ergebnis der Verjahrungsdebatten im Deutschen Bundestag, in VERGANGENHEITSBEWALTIGUNG DURCH STRAFVERFAHREN? NS-PROZESSE IN DER BUNDESREPUBLIK DEUTSCHLAND 40-50 (Jürgen Weber & Peter Steinbach eds., 1984); ZUR VERJÄHRUNG NATIONALSOZIALISTISCHER VERBRECHEN: DOKUMENTATION DER PARLAMENTARISCREN BEWALTIGUNG DES PROBLEMS, 1960-1979 (1980).
[40] Per l’ampio dibattito sulla stampa che si occupava di temi giuridici, Cfr. Adolf Arndt, Zum Problem der strafrechtlichen Verjahrung,20 JURISTENZEITUNG 145, 145-53 (1965); Ewald Bucher, Verlingerung der Verjahrungsfrist flir NS-Verbrechen: Die Freiheit wiedergewonnen, um nach Gesetz und Recht zu leben, 4 BULLETIN DES PRESSE- UND INFORMATIONSAMTES DER BUNDESREGIERUNG 27, 27-28 (1965).

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