LA GUERRA SILENZIOSA PER SALVARE GLI EBREI

di Massimiliano Tenconi -

Uomini, luoghi ed episodi dell’assistenza fornita da cittadini italiani ad altri cittadini italiani  perseguitati durante il periodo dell’occupazione tedesca e della repubblica fascista di Salò.

(Da Storia in Network n. 89, marzo 2004) Nel 1963 l’Istituto israeliano Yed Vashem, autorità creata 10 anni prima per il ricordo degli eroi e delle vittime dell’Olocausto, ha avviato un progetto mondiale finalizzato a riconoscere e a concedere il titolo di “Giusto fra le nazioni” a quanti misero a repentaglio la propria vita per soccorrere gli ebrei durante il periodo dell’Olocausto. Alla data del 1° gennaio 2004 gli italiani insigniti di tale titolo risultano essere 341 su un totale di 20.205 “Giusti”[1].
Il numero di coloro che prestarono il loro disinteressato aiuto agli ebrei nel travagliato periodo di Salò e dell’occupazione tedesca, ad ogni modo, è certamente maggiore. Le loro storie sono rimaste fino ad oggi sconosciute ai più e, i numerosi atti di coraggio e d’eroismo che permisero la salvezza di tante vite umane che giacciono ancora nell’oblio, potranno riemergere solo grazie ad un profondo quanto minuzioso sforzo degli studiosi. Il soccorso disinteressato in favore dei perseguitati razziali prestato da così tanti uomini comuni, appare tanto più significativo se si pensa sia al degrado morale cui il paese era stato ridotto dopo un ventennio di dittatura[2], sia al clima d’odio crescente creato attorno alla figura degli ebrei che, colpiti prima dalle leggi razziali promulgate nel 1938, furono giudicati, nel corso della prima assemblea nazionale del Partito fascista repubblicano tenutasi a Verona il 14 novembre, come stranieri appartenenti a nazionalità nemica.
L’ordine di polizia numero cinque emanato quindici giorni più tardi, inoltre, sancì il completo spoglio dei beni mobili ed immobili degli ebrei e stabilì che tutti i cittadini di razza ebraica presenti sul territorio italiano dovevano essere arrestati e internati in appositi campi di prigionia. A dicembre, infine, le autorità di Salò fissarono anche una taglia, variante dalle tremila alle novemila lire, per ogni ebreo che fosse stato loro consegnato. Con questi ultimi interventi la Repubblica di Mussolini si allineava inequivocabilmente alla politica razziale della Germania nazista avviando così una collaborazione fondata su una chiara divisione dei compiti. In linea di massima agli italiani spettò l’incarico di rintracciare e arrestare gli ebrei, ai tedeschi quello di deportarli e di sterminarli nei campi disseminati nell’Europa centro-orientale.

La caccia all’uomo si era del resto subito palesata già all’indomani dell’occupazione tedesca del territorio italiano. Il 15 settembre, a Merano, furono arrestati e deportati 25 ebrei; il 16 prese il via il rastrellamento sul lago Maggiore che si concluse con l’assassinio di 49 israeliti; il 18 il comandante Muller emanò, a Borgo San Dalmazzo, il proclama contro gli stranieri chiaramente finalizzato all’arresto degli ebrei non italiani. Il 9 ottobre successivo, a Trieste, vi fu la prima massiccia retata contro gli ebrei cui seguì quella del giorno 16 nel ghetto di Roma, dove furono catturate e deportate 1007 persone, accompagnata da un’azione simultanea a Milano conclusasi con altri 200 arresti. Di fronte a tale furia agli ebrei rimanevano poche soluzioni: darsi alla lotta clandestina aggregandosi alle formazioni partigiane, tentare la fuga verso la Svizzera, oppure ricorrere alla clandestinità cercando ogni sorta di rifugio. Quanti presero la strada della lotta clandestina trovarono un ambiente pronto ad accogliere e valorizzare il loro apporto senza alcuna discriminazione di sorta tanto che, a differenza di ciò che avvenne negli altri paesi europei, in Italia non sorse alcuna formazione partigiana connotata in senso esclusivamente ebraico. Il popolo italiano, in pratica, “permise agli ebrei, italiani o meno, di sentirsi parte integrante della Resistenza nella sua lotta contro le forze del male”[3]. In tal modo, nella Resistenza, trovò la sua ricomposizione quella frattura del corpo nazionale provocata con il varo delle leggi razziali. Gli ebrei tornarono a sentirsi membri della nazione italiana e, in quanto tali, legarono nuovamente la propria sorte e le proprie speranze, com’era sempre avvenuto nel passato, ai destini del paese e dell’intera comunità nazionale. La Resistenza, oltre che affermare con vigore il principio dell’eguaglianza degli ebrei, invitò contemporaneamente la popolazione ad intervenire in loro favore e in loro aiuto. Di fronte ai terribili avvenimenti del ghetto di Roma, “L’Italia Libera”, giornale del Partito d’azione, si espresse nei seguenti termini:

“I tedeschi vorrebbero convincerci che costoro ci sono estranei, che sono d’un’altra razza; ma noi le sentiamo come carne nostra e sangue nostro: con noi hanno sempre vissuto, lottato e sofferto. Non solo gli uomini validi, ma vecchi, bimbi, donne, lattanti, tutti sono stati stipati in carrettoni coperti ed avviati così al loro destino. Non c’è cuore che non frema al pensiero di quel destino”.
Al giornale azionista fece eco l’appello lanciato dall’ “Unità”:
“Non si deve tollerare che si ripeta in Roma l’orrendo misfatto di intere famiglie innocenti smembrate e deportate a morire di freddo e fame chi sa dove. C’è un senso di solidarietà umana che non si può offendere impunemente. Queste vittime infelici della bestiale rabbia nazifascista debbono essere non solo soccorse perché si sottraggano alle ricerche e alla cattura, ma anche attivamente e coraggiosamente difese”[4].
Tenendo fede a queste prese di posizione, durante tutto il periodo dell’occupazione tedesca, la Resistenza fu per gli ebrei d’Italia “un sostegno unico e insostituibile”[5]. Questo giudizio ha valore sia per ciò che riguarda il ruolo che essa assolse in forma indiretta, sia nel caso venga valutata la sua azione direttamente finalizzata all’aiuto e al soccorso della popolazione d’origine ebraica. Per ciò che riguarda il primo aspetto è facile intuire a quale scopo sarebbero state destinate quelle forze che invece furono impiegate nel contrastare la lotta partigiana.
In secondo luogo, ponendosi come mete la definitiva sconfitta del nazifascismo e la liberazione dell’intero territorio nazionale, la Resistenza aveva in sé l’obiettivo della fine della persecuzione. Una posizione, quest’ultima, che ebbe il suo logico epilogo nel decreto del 24 settembre del 1944 in cui il Clnai stabiliva l’abolizione delle leggi razziali e prevedeva la restituzione agli ebrei dei beni loro sequestrati[6]. Sotto il piano dell’azione diretta, pur manifestando limiti e difficoltà dettate dalle operazioni belliche e dal rapporto con gli Alleati, l’azione della Resistenza fu altrettanto provvidenziale.

Ogni banda fra quelle dislocate lungo la frontiera settentrionale diede il suo apporto nel favorire la fuga degli ebrei. Fra tutte merita particolare segnalazione la formazione comandata da Giacinto Lazzarini, sul cui capo le autorità repubblichine posero la taglia di 500 mila lire con l’ordine di ucciderlo a vista, la quale riuscì a far espatriare 1.168 ebrei e 817 ricercati politici e renitenti alla leva fascista. La formazione, che operava nella zona circostante a Varese, si distinse per la grande decisione, la perizia, le ramificazioni profonde nella zona immediatamente retrostante al confine, che permisero di accompagnare i fuggitivi proteggendoli con vere e proprie scorte armate che arrivarono a comprendere fino a cinquanta uomini. Un impegno che fu pagato con un alto tributo di sangue. La formazione contò infatti ben 44 caduti[7].
Un certo peso ebbero anche i Garal (Gruppi d’azione Repubblicani Antifascisti Lombardi), primo nucleo delle future Brigate “Mameli” e “Mazzini”, che costituitisi a Milano fin dal settembre 1943 inizialmente si erano posti come primo loro obiettivo l’aiuto agli ebrei e agli ex prigionieri di guerra in fuga[8]. L’attività maggiore in tale senso fu però svolta dall’Oscar (Organizzazione Soccorsi Cattolici agli Antifascisti Ricercati) additata dalle forze di Salò, assieme all’Azione cattolica, fra i peggiori nemici del regime.
Nata il 12 settembre sul nucleo dell’organizzazione scoutista delle cosiddette “Aquile Randagie”, raggruppava una quarantina di componenti, sacerdoti e laici, ed era composta da tre distaccamenti: Milano Crescenzago, Varese città e Varese zona. Gli animatori principali furono don Andrea Ghetti, definito dai fascisti “traditore da capestro”[9], don Enrico Bigatti, don Aurelio Giussani e don Natale Motta.

I principali centri di raccolta erano la parrocchia di Crescenzago e il Collegio San Carlo dove venivano preparati tutti i documenti falsi necessari alla sopravvivenza dei ricercati. In genere i perseguitati erano condotti alla stazione Nord e a quella di Porta Nuova per essere poi accompagnati da incaricati sicuri a Varese; con mezzi pubblici, infine, erano raggiunte le zone di confine dove si poteva espatriare. Saltrio, Clivio, Ligurno, Rodero, il fiume Tresa, le Alpi Retiche, il lago d’Emet e la Val di Lei erano i luoghi solitamente usati per i passaggi in Svizzera. Oltre a questa attività, che doveva contare su una rete nei pressi del confine di persone fidate disposte ad ospitare i fuggiaschi in transito, l’Oscar possedeva anche un’efficiente servizio informazioni all’interno della polizia che consentiva di prevenire gli arresti e di sviare le ricerche. A volte l’organizzazione tentò pure di liberare i prigionieri nel trasporto da San Vittore ai treni convoglio diretti in Germania, tentativi che però furono sempre destinati dall’insuccesso.
Più efficaci si rivelarono invece i “rapimenti” di ebrei ricoverati negli ospedali aggredendo la custodia o cercando di aggirarla con astuzia. Emblematico a riguardo fu il salvataggio di un bambino di quattro anni, Gabriele Balcone, che, ricoverato presso la casa S.Giuseppe di Varese, avrebbe dovuto seguire la madre deportata in Germania. L’Oscar riuscì prima a farlo ricoverare presso l’Ospedale di Varese con la scusa di un intervento operatorio e poi, dopo tre tentativi andati a vuoto, ad introdursi nella struttura e ad impossessarsi del bambino per portarlo in salvo e affidarlo a una famiglia della provincia. L’impegno dell’Oscar permise ben due mila espatri mentre tre mila furono i documenti falsi rilasciati; un lavoro arduo che costrinse le persone più in vista dell’organizzazione come don Ghetti e don Motta a darsi alla latitanza o, nel caso di don Giussani, a prendere la strada della montagna per unirsi ai partigiani in Romagna.

L’assistenza operata da questi uomini spesso si scontrava contro la paura e la prudenza degli stessi vertici ecclesiastici tanto da portare don Enrico Bigatti, anch’egli arrestato per la sua attività, a scrivere nel suo diario: “Ne ho piene le tasche della prudenza! Chi non ha paura?! Datemi aiuto e carità”[10].
L’impegno assunto dalla Resistenza in favore degli ebrei trova conferma anche in una serie di azioni militari condotte contro alcuni campi di internamento provinciali. Il 3 maggio del 1944, dietro sollecitazione della Resistenza marchigiana, gli Alleati bombardarono il campo di Servigliano permettendo così la fuga di numerosi prigionieri fra cui una cinquantina di ebrei. L’8 giugno successivo il campo fu nuovamente attaccato dai nuclei partigiani della zona che riuscirono a liberare tutti gli internati. In questo secondo attacco furono sottratti alla deportazione 44 ebrei. Un’altra decina furono liberati in conseguenza delle azioni condotte contro i campi di Scipione, Salsomaggiore e Pollenza[11].
Sul finire del mese di novembre dello stesso anno il Clnai, su iniziativa del Partito d’azione della Svizzera, comunicava inoltre a tutti i Cln provinciali l’istituzione di un fondo per l’assistenza agli ebrei invitando ogni struttura a nominare un proprio fiduciario con il compito di raccogliere informazioni sullo stato degli ebrei bisognosi e di trasmettere al Comitato centrale le richieste di assistenza.[12] All’impegno delle strutture organizzate, sia militari sia politiche, bisogna poi aggiungere il lavoro che fu svolto, di loro spontanea iniziativa, dai singoli partigiani. Lorenzo Spada, un giovane ventiquattrenne che svolgeva la professione di macellaio a Demonte, paese nei pressi di Cuneo, nascose presso di sé e sfamò più a lungo possibile la famiglia di Ermanno Tedeschi, in fuga da Ferrara, composta da cinque persone. L’8 febbraio del 1944 accompagnò personalmente l’intera famiglia al confine svizzero pagando lui stesso la guida che accompagnò i Tedeschi in terra elvetica. Successivamente ferito nel corso di un’azione partigiana e ricoverato in ospedale, fu prelevato dai militi delle Brigate nere che, dopo averlo torturato, lo impiccarono sulla piazza di Demonte il 21 agosto 1944[13].

A Meolo il partigiano Leo Valori, membro del Battaglione Azzurro della Brigata Garibaldina del luogo, tenne i contatti con i componenti della comunità ebraica di Venezia e assieme alla madre, che diventò presto conosciuta da tutti come “mamma Emilia”, nascosero numerosi ebrei in fuga nel magazzino della loro tabaccheria procurando loro cibo e un riparo temporaneo che permetteva di riprendere le forze prima di proseguire lungo la strada dell’espatrio[14]. A Milano fu invece la partigiana Alda Panichi Lombroso ad esporsi a tutti i pericoli connessi a tale attività, nascondendo nella propria abitazione milanese numerosi profughi ed esponenti della comunità ebraica e provvedendo a procurar loro sia i documenti falsi, sia le tessere annonarie necessarie per garantirsi il cibo[15].
Tutti gli ebrei che cercarono un qualsiasi rifugio, o che tentarono di riparare in Svizzera, si trovarono di fronte a un insieme di enormi difficoltà che a volte non riuscirono ad essere superate se non dopo numerosi tentativi. La situazione descritta dall’ebreo fiorentino Nedo Fiano è valida per centinaia di altri casi:
“Lasciammo la nostra casa nel quartiere di Santa Croce, per andare nel quartiere di via dei Bardi, vicino a Ponte Vecchio, ma prima di trovare quel nascondiglio, mamma aveva bussato invano a tante porte rimaste chiuse”[16].
Anche riuscire ad arrivare in Svizzera non era certo impresa agevole. In primo luogo perché le guardie di frontiera, in conseguenza delle contraddittorie disposizioni emanate dalle autorità elvetiche, assunsero una posizione oscillante accettando o rifiutando i profughi in modo intermittente. In seconda istanza perché per superare i confini spesso i fuggitivi erano costretti ad affidarsi a contrabbandieri a loro sconosciuti che, in moltissimi casi, si rivelarono essere persone prive di ogni scrupolo, pronte non solo a farsi pagare ingenti somme per i loro servizi, ma anche a derubare e a tradire i profughi abbandonandoli al loro destino o consegnandoli alle autorità fasciste per riscuotere un ulteriore premio in denaro.

Le fughe verso la Svizzera si trasformavano così da “viaggi della speranza” in veri e propri “viaggi del tradimento”[17]. Per tutti coloro che cercarono di fuggire o di nascondersi, le istituzioni ecclesiastiche furono un naturale punto di riferimento. Se tutte le Chiese si impegnarono nell’opera di soccorso, l’opera assolta da quella cattolica, sia per il numero dei suoi uomini che si impegnarono in prima persona, sia per i risultati ottenuti, non ha paragoni. Basti pensare che dei 341 “Giusti” riconosciuti, almeno il 10% appartengono al mondo religioso oppure che a Roma, durante tutto il periodo dell’occupazione, le case religiose, le istituzioni ecclesiastiche, le parrocchie e i collegi che aprirono le proprie porte per accogliere profughi e perseguitati furono ben 155. Il totale dei cittadini ebrei assistiti nella sola capitale ammonterebbe a 4447 persone di cui 680 trovarono rifugio solo per pochi giorni mentre gli altri 3700 furono ospitati e nascosti per diversi mesi[18]. Nell’impossibilità di ricordare tutti gli istituti coinvolti, mi limiterò a menzionare quelli più significativi.
Un importante punto di riferimento, sia per i perseguitati politici sia per quelli razziali, fu il Seminario Romano Maggiore. Dal settembre ’43 l’Istituto fu organizzato in tre distinti reparti per rifugiati. Al piano terra erano ospitati gli uomini del Governo Badoglio, al primo piano quelli del Cln e, infine, al piano più alto gli ebrei e altri perseguitati politici. Ad organizzare l’intera rete fu il rettore Roberto Ronca, che manteneva i rapporti con i politici, mentre a don Pietro Palazzini spettava il compito di assistere i rifugiati nelle loro necessità. L’Istituto, nel suo complesso, fu in grado di accogliere circa 200 persone fra cui almeno 85 ebrei[19]. Imponente fu il soccorso prestato dal padre cappuccino Benedetto, al secolo Marie Benoit, che diresse sapientemente la rete creata da Settimio Sorani, dirigente della Delasem ormai datasi alla clandestina.

Il convento di padre Benedetto fu il centro di smistamento di tutti gli ebrei in cerca di un nascondiglio sicuro e, alla fine della guerra, il numero degli assistiti risultò essere di 1500 ebrei stranieri e di 2500 ebrei italiani[20]. 400 furono gli ebrei accolti dai francescani di San Bartolomeo, all’isola Tiberina, mentre almeno 70 furono i fanciulli che, rimasti senza genitori perché deportati, trovarono ospitalità per nove mesi presso l’Istituto salesiano Pio XI confidando nella protezione loro affidata da don Francesco Antonioli e da don Armando Alessandrini[21]. Numerosi furono anche i conventi femminili come quello delle Suore Compassioniste, delle Suore di Maria, o quello delle Suore di Sion che accolse fra le sue mura, in periodi diversi, circa 140 ebrei[22].
Risalendo la penisola in direzione Nord Est ci si imbatte nell’esperienza della città di Assisi dove circa 300 ebrei trovarono riparo e protezione grazie all’impegno elargito in loro favore dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini e dal padre francescano Aldo Brunacci. Ad Assisi gli ebrei furono nascosti un po’ ovunque ricorrendo a ogni sorta di sotterfugio. Ad alcuni furono forniti abiti da frate o da suora, altri furono muniti di documenti contraffati e poi mimetizzati tra gli sfollati, altri ancora furono nascosti nelle cantine e nei sotterranei, molti furono accolti nei conventi della zona circostante. L’impegno di padre Brunacci fu incessante e totale. Si impegnò nel tenere costanti i rapporti con i perseguitati, nel procurare loro i documenti falsi, nel soccorrere i più bisognosi -bambini e ammalati- e nel trovare le sistemazioni più idonee per coloro che apparivano più a rischio. Un’opera che poté contare, oltre che sull’appoggio del proprio vescovo, su una fitta rete clandestina che coinvolgeva altri sacerdoti umbri e numerosi semplici cittadini come ad esempio i fratelli Brizi che, proprietari di una tipografia, provvedevano a stampare tutti i documenti falsi necessari[23].

Risalendo ancora verso Nord appare molto interessante il caso di Firenze dove le strutture assistenziali ebraiche si fusero in un corpo unico con le istituzioni cattoliche. Nel capoluogo toscano, dopo l’occupazione della città avvenuta l’11 settembre, i primi soccorsi furono prestati dal rabbino capo Nathan Cassuto e da Samuel Campagnano. La situazione nella città divenne però ben presto insostenibile:
“Il tempio di Firenze continuava a riempirsi di frotte di profughi, era una vera e propria massa umana di gente piena di paura e disperazione”[24].
Matilde Cassin, collaboratrice di Natahn Cassuto, si rivolse così al professore Giorgio La Pira che a sua volta la mise in contatto con padre Cipriano Ricotti del convento di San Marco. Insieme bussarono alle porte delle case religiose cittadine e almeno una ventina di queste si mostrarono disponibili ad accogliere i profughi riuscendo ad ospitare fra le 200 e le 400 persone. Padre Ricotti agì dietro impulso del cardinale di Firenze, Elia Della Costa, il cui apporto fu decisivo anche per la formazione del Comitato di soccorso ebraico cristiano. Oltre a Ricotti fece parte del Comitato anche don Leto Casini, parroco di Varlunga, incaricato direttamente dal cardinale di assistere gli ebrei con il compito di ricercare alloggi, procurare sia viveri sia carte d’identità falsificate e smistare ai profughi gli aiuti economici ricevuti dalle organizzazioni ebraiche[25].

Il Comitato di soccorso, le cui riunioni spesso avvenivano direttamente in arcivescovado, fu smantellato il 26 novembre del 1943 dopo una retata conclusasi con numerose incarcerazioni cui fece seguito, in alcuni casi, la deportazione. Di fatto con tali arresti ogni organizzazione ancora esistente nella città venne a cessare e l’opera di soccorso poté riavviarsi solo molto lentamente. A riprendere in mano la situazione fu Eugenio Artom che, ancora una volta, poté fare affidamento sul cardinale Della Costa il quale contribuì sia sotto il profilo economico, grazie allo stanziamento di sussidi, sia mettendo a disposizione persone fidate del clero con il compito di distribuirli ai bisognosi. Nel giugno del 1944, due mesi prima della liberazione della città, il Comitato ebraico cristiano ricostruito contava una cifra di sussidianti pari a 242 persone[26].
Per ciò che riguarda Milano le maggiori testimonianze che mettono in luce l’operato della Chiesa, ci sono fornite da una lettera di ringraziamento indirizzata dal Commissario Straordinario della Comunità israelitica di Milano al cardinale Schuster e dalle relazioni dei Comandi fascisti sull’attività svolta dai cattolici. Nella prima era sottolineato il grande impegno assolto dal clero durante tutta la fase dell’occupazione. Vi si legge:
“A rischio continuo della vita, soffrendo per noi il carcere o il campo di concentramento, i Vostri sacerdoti hanno sentito l’imperioso dovere di riconoscere con i fatti che la fratellanza umana supera ogni differenza di fede”[27].

Da una relazione del Comando della Guardia nazionale repubblicana traspare invece tutto il risentimento dei fascisti di Salò nei confronti della politica messa in atto dalla Chiesa e dai suoi istituti:
“Si può affermare, senza pericolo di essere smentiti, che il 70% degli abbietti israeliti è passato per le loro lunghe mani per essere poi portato a salvamento dai loro ribelli o banditi”[28].
Nella relazione, l’Istituto delle Missioni estere (Pime), dove importante appoggio agli ebrei era fornito dal vice economo padre Aristide Pirovano, era definito “un covo di serpi velenose” e “infido” era ritenuto anche l’Istituto dei Barnabiti di Via Della Commenda. Oltre a questi, nel soccorso agli ebrei, si distinsero altri Istituti quali il convento dei frati Cappuccini di viale Piave, dove i perseguitati erano inviati da padre Agosti Giannantonio; l’Opera Cardinal Ferrari, nella figura di don Paolo Leggeri, poi arrestato e deportato, che accoglieva famiglie ebree in arrivo da tutte le parti d’Italia; l’Istituto Palazzolo delle Suore Poverelle di Bergamo che ospitò complessivamente un centinaio di ebrei; la parrocchia del “Sacro Volta” di don Eugenio Bussa che accolse numerosi bambini; la Pia Casa degli Incurabili di Abbiategrasso dove una trentina di donne ebree straniere trovarono rifugio, confuse fra i degenti, per tutta la durata del conflitto.
Nel vicino Piemonte la rete di soccorso faceva capo all’iniziativa di monsignor Barale, segretario del vescovo di Torino, che poteva contare sull’appoggio di monsignor Umberto Rossi, vescovo di Asti, sull’arcivescovo di Vercelli, monsignor Giacomo Montanelli, nonché su ordini e congregazioni religiosi quali i Sacramentini e i Salesiani[29].

A Genova fu invece operativo il cardinal Boetto che continuò l’opera precedentemente avviata dalla Delasem locale datasi alla clandestinità, appoggiandosi sull’infaticabile aiuto fornito dal suo segretario, don Francesco Repetto, e facendo affidamento sull’intero clero locale. Prese così il via una forte rete assistenziale, finanziata dai membri clandestini della Delasem, che riuscì a distribuire viveri, a dare rifugio ai perseguitati e ad assicurarne l’espatrio clandestino[30].
Altrettanto solidale verso i perseguitati fu il clero di campagna. A Carpi, in provincia di Modena, don Dante Sala, con il supporto fondamentale di Odoardo Focherini che tutti i giorni si recava presso la Cattolica assicurazioni a Modena o presso l’ufficio amministrativo della Curia a colloquiare con quanti cercavano la salvezza nell’espatrio, riuscì a trarre in salvo 105 ebrei. Focherini raccoglieva le domande dei perseguitati e poi, tramite funzionari di fiducia, provvedeva a recuperare i documenti falsi. In un secondo tempo lo stesso don Dante Sala si preoccupava di accompagnare i perseguitati al confine. Le partenze avevano luogo da Modena, solitamente la sera, in piccoli gruppi. Arrivati in piena notte a Milano il viaggio procedeva verso Como dove i perseguitati attendevano l’arrivo di un taxi che a gruppi di quattro li accompagnava a Cernobbio. Lì erano ospitati in una casa di una famiglia di fiducia in attesa del momento opportuno per varcare il confine. Quando questo aveva luogo un poliziotto fingeva il loro arresto e portava i fuggiaschi in una caserma dove avrebbero dovuto stare in quarantena. Contemporaneamente consegnava i documenti alla Delasem svizzera che interveniva in loro favore permettendone così l’accoglienza[31]. Il parroco di Tagliacozzo, don Gaetano Tantalo, che ospitò presso di sé due famiglie ebree per nove mesi, i Pacifici e gli Orvieto, e l’esempio di Don Pietro Folli, parroco di Valdomino, che favorì l’espatrio di un migliaio di persone, sono solo altri due casi delle numerose figure di parroci di campagna che diedero senza risparmio il proprio contributo per la salvezza di tante vite[32].

L’eroico comportamento di questi parroci di periferia, nonostante l’ombra dei delatori fosse sempre in agguato, fu affiancato molto spesso dal sostegno di intere comunità rurali. Il mondo contadino, del resto, aveva già manifestato tutta la sua propensione all’aiuto e alla solidarietà nei giorni immediatamente successivi la proclamazione dell’armistizio quando accolse prontamente una marea di soldati sbandati che, abbandonate le armi e le divise, si era riversata nelle campagne in cerca di abiti civili, di cibo, di ristori temporanei lungo la strada che avrebbe dovuto riportarli alle proprie case. Per ciò che riguarda gli ebrei si verificarono casi in cui l’opera di soccorso fu compiuta da intere comunità.
Così avvenne a Cotignola, in provincia di Ferrara, il cui sindaco, in occasione del XX° anniversario della Liberazione, ricevette il “commosso” ringraziamento per la solidarietà espressa dall’intera popolazione dal presidente della comunità israelitica italiana, Sandro Piperno[33]. Nel cuneense, come ha ricordato recentemente il delegato della Comunità ebraica di Cuneo, non ci fu località valligiana che confluisce su Borgo San Dalmazzo, “dove non sia stata nascosta una famiglia di ebrei”[34]. Si assistette in questo caso, essendo la maggioranza degli ebrei protetti di origine straniera, all’incontro e alla fusione fra un mondo esclusivamente contadino e un universo culturale prevalentemente borghese e cittadino che, da un lato donò la speranza a quanti poterono usufruire della solidarietà loro offerta, dall’altro influì sulla trasformazione della mentalità locale favorendo l’integrazione tra la città e la campagna. A Pitigliano, in provincia di Grosseto, il titolo di “Giusto” è stato conferito a 14 persone per aver dato assistenza alla famiglia di Elena Servi e Ariel Paggi. Ma il riconoscimento, come testimonia lo stesso Ariel Paggi, avrebbe potuto tranquillamente essere esteso all’intera cittadina toscana:

“Avevo otto anni e il ricordo di quei mesi, delle persone di allora, non mi abbandonerà mai. Tutta Pitigliano ci nascose, si chiuse intorno a noi e ci fece scomparire”[35].
Il caso più clamoroso rimane però quello del paese di Nonantola, in provincia di Modena. Dopo lo scoppio della guerra numerosi ragazzi ebrei cercarono di fuggire dalla Germania per riparare in altri paesi quali la Svizzera, gli Stati Uniti e anche la Palestina, meta, quest’ultima, che si sarebbe dovuta raggiungere via mare passando attraverso la Jugoslavia. L’invasione da parte delle forze dell’Asse mise in serio pericolo tutti coloro che, tramite l’organizzazione giovanile Aiijh, erano riparati nei Balcani. Dopo l’occupazione tedesca, alcuni di loro trovarono rifugio presso il castello di Lesno Brdo messo a disposizione del vescovo di Lubiana. In loro favore intervenne il presidente della Delasem italiana, Lelio Valobra, che riuscì a farli trasferire in Italia dopo una breve sosta a Lubiana.
Inizialmente trasferiti a Verona, e inevitabilmente destinati ai campi in Germania, grazie a un ufficiale dei carabinieri giunsero a Modena dove, dietro l’autorizzazione della prefettura, furono insediati in residenza coatta a Villa Emma di Nonantola[36]. L’intera popolazione adottò subito la piccola colonia e, “i ragazzi di Villa Emma”, trasformarono la residenza loro concessa in una specie di kibbutz. Furono create sale di studio e una sala per le funzioni religiose, una sala di ritrovo, una falegnameria, un reparto sartoria, sul terreno sorse anche una scuola d’agraria. Un lavoro supportato dal parroco locale don Arrigo Beccari e dal medico Giuseppe Monreali che si presero cura dell’istruzione e della salute dei giovani. Non mancarono gli aiuti della Desalem ma essenziale fu quello fornito dal piccolo paese emiliano. Al primo gruppo di profughi se ne aggiunse un secondo, nell’aprile del 1943, proveniente da Spalato, che portò il numero della comunità ad avvicinarsi al centinaio di unità.

Dopo l’8 settembre il timore per il sopraggiungere dei nazisti costrinse l’intero gruppo a darsi alla macchia. Le famiglie del comune di Nonantola, con uno slancio di solidarietà e di sprezzo per il pericolo che ha ben pochi paragoni, ospitarono gran parte di questi giovani aprendo le porte delle loro case, mentre una trentina di loro, maschi e femmine, furono nascosti nel seminario locale. In seguito don Arrigo Beccari con l’amico Ennio Tardini, anch’egli sacerdote, organizzò la loro fuga in Svizzera. Grazie all’impiegato comunale Bruno Lazzari, che fornì le carte d’identità, e al lavoro dell’artigiano Primo Apparuti, che le falsificò, tutti i giovani furono muniti di documenti contraffatti e riuscirono a varcare la frontiera, dopo un primo “penoso refoulment”[37], fra l’ottobre e il novembre del 1943. Anche per il mondo contadino sono poi da ricordare gli slanci dei singoli individui. In un centro rurale nelle vicinanze di Padova, nella sua piccola abitazione che già ospitava i cinque componenti della sua famiglia, Federico Sartori accolse e nascose tredici ebrei mentre a Treviso, una contadina vedova con cinque figli, Ida Battistelli, occultò una famiglia intera nella sua fattoria tenendola celata fino alla Liberazione. La famiglia di Amerigo Ottolenghi, nascosta presso un vecchio mulino a Polinago, in provincia di Modena, priva di qualsiasi mezzo di sussistenza poté sopravvivere solo grazie all’aiuto dei contadini della zona che procuravano loro cibo e indumenti[38].

Nei centri urbani notevole fu il contributo fornito dai “professionisti”. Medici, avvocati, insegnanti, confidando sul proprio ruolo, si prodigarono mettendo a disposizione le loro amicizie e utilizzando a fini assistenziali le stesse strutture professionali ove prestavano servizio. Diversi sono i casi che coinvolgono ad esempio i medici. A Roma Giuseppe Caronia, docente di pediatria all’Università costretto ad abbandonare l’insegnamento per le sue posizioni antifasciste, nel corso del 1944 ricoverò al Politecnico Umberto I numerosi perseguitati, sia politici sia razziali, fingendo sul loro stato di salute. Caronia diagnosticava gravi malattie in modo da evitare ogni ulteriore verifica sulla loro reale condizione e, in alcuni casi, camuffò i suoi assistiti spacciandoli per medici oppure infermieri. Nella lista di coloro che furono da lui ricoverati, 89 tra malati falsi e veri, risultarono iscritti 40 ebrei[39]. A Torino agì invece il dottor Caggiolo che, all’interno dell’ospedale Mauriziano, improvvisò un reparto infettivi dove invece furono nascosti numerosi perseguitati[40].
A Milano gli ebrei furono celati nelle corsie e nei padiglioni dell’ospedale Niguarda grazie all’aiuto del medico Ispettore dell’ospedale stesso, Luigi Parravicini. Per ciò che riguarda il capoluogo lombardo vanno inoltre menzionati altri due dottori che, oltre a fornire agli ebrei un rifugio temporaneo sicuro, lavorarono per favorire il loro espatrio in Svizzera: il dottor Lodovico Targetti e la dottoressa Adele Cappelli Vegni. Il primo si adoperò in favore di amici e conoscenti ebrei, almeno una cinquantina, permettendo il loro ricovero in cliniche svizzere dopo averli ospitati, come tappa intermedia, nella casa della cognata a Cernobbio. Egli stesso provvedeva poi ad affidarli a guide sicure che garantivano il passaggio della frontiera[41]. Adele Cappelli Vegni, che svolgeva la sua professione nell’infermeria del carcere di San Vittore, facilitava la via per la Svizzera ai convalescenti facendoli ricoverare presso la sua casa di Torno, in provincia di Varese, trasformata per l’occasione in un convalescenziario gestito dalle Suore Poverelle di Bergamo[42].

Altri ebrei in fuga erano avviati presso la sua abitazione da amici fidati e lì, in attesa di varcare il confine, erano spacciati per maggiordomi, camerieri, autisti. Nonostante il 15 luglio del 1944 fosse arrestata, la Cappelli Vegni non interruppe la sua attività. Detenuta proprio a San Vittore, con le proprie compagne diede vita alla “cella del soccorso” portando assistenza a quanti venivano arrestati prestando particolare attenzione alle condizioni dei bambini.
Un’altra categoria che si prodigò nel soccorso fu quella degli insegnanti e dei professori come dimostrano i casi che seguono, tutti individuati a Milano. La cinquantenne professoressa Leoni Crippa Lina aiutò almeno un centinaio di ebrei a fuggire verso la Svizzera prendendo contatti con le guide; l’insegnante Ada de Michelis Tommasi, con l’aiuto del marito e del parroco di Sormano Carlo Banfi, creò invece, vicino a Canzo, un punto d’accoglienza che permetteva ai profughi di disporre di un rifugio temporaneo lungo la strada dell’espatrio; il professor Antonio Porta, preside della scuola Manzoni di Milano, diede rifugio e organizzò la fuga in Svizzera della famiglia Sonnino, proveniente da Genova, e di molte altre ancora.
Numerosi furono anche i docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore pronti a collaborare con Padre Carlo Varischi, assistente ecclesiastico della società Ludovico Necchi, il quale riuscì ad avvicinare un centinaio di ebrei di cui, almeno la metà, trovarono rifugio oltre confine. L’assistenza non venne meno neppure quando Padre Carlo, scoperto dalle autorità, fu costretto a riparare in clandestinità nelle valli del bergamasco venendo prontamente sostituito nel gravoso compito dal professor Enzo Franceschini[43]. Un altro porto sicuro, per lo meno per una sessantina di ebrei che vi trovarono rifugio per nove mesi, si rivelò l’Università Gregoriana dei Gesuiti a Roma.

Il lavoro di aiuto e soccorso sarebbe stato ben più arduo se non ci fosse stata una forte solidarietà da parte di impiegati statali e di funzionari compiacenti, pronti ad occultare i registri contenenti l’elenco degli ebrei, a fornire carte d’identità in bianco che poi erano abilmente contraffatte e a nascondere documenti che potevano compromettere la sorte dei cittadini israeliti. Il prefetto di Ancona, ad esempio, alle reiterate richieste avanzate dalle SS sul conto degli ebrei del luogo, rispose che tutti quanti avevano ormai abbandonato la città e rifiutò di consegnare gli elenchi della comunità ebraica con tutti nominativi sostenendo che erano andati fatalmente distrutti nel corso di un bombardamento[44]. A La Spezia fu il vicequestore Ludovico Vigilante, in collaborazione con il parroco don Giovanni Bertoni, a lavorare per mesi ad un traffico clandestino per consentire l’espatrio di ebrei e di antifascisti. Un impegno che pagò con l’arresto e la deportazione a Mathausen[45]. Un altro funzionario, Angelo de Fiore, Commissario dell’ufficio stranieri presso la questura di Roma, nascose documenti e alterò nomi salvando così centinaia di vite. A Trieste, nel cui nel quartiere periferico di San Sabba fu attivo l’unico campo di sterminio dell’intera Europa occidentale e da cui partirono indirizzati verso i Lager nazisti 22 dei 43 convogli allestiti in Italia per gli israeliti, lavorarono alacremente svariate persone. Sono da ricordare il Capo dell’ufficio politico della Questura Feliciano Ricciardelli, coadiuvato da Calogero Pisciotta e dal maresciallo Nicolò Raho; il direttore dell’ufficio anagrafe Goffredo Terribile spalleggiato dal maresciallo di pubblica sicurezza Salvatore Messina e dal carabiniere Egidio Varigiu; il capo ufficio delle carte d’identità Giovanni Bressan nonché il consigliere generale italiano di prefettura Marcello Zuccolin e il capo Gabinetto della stessa Del Cornò. Nel 1955 la Comunità israelitica ha premiato il loro impegno consegnando la medaglia d’oro a Marcello Zuccolin e altri 17 diplomi di gratitudine[46].

La figura principale, all’interno di questa categoria, fu però quella di Giovanni Palatucci[47]. Nato nel 1909 a Montello, in provincia di Avellino, dopo la laurea in legge intraprese la carriera di funzionario di Pubblica Sicurezza. Inizialmente nominato vicecommissario aggiunto presso la Questura di Genova fu in seguito trasferito a Fiume, dove giunse il 15 novembre 1937, assumendo la responsabilità dell’ufficio stranieri. Nella cittadina dalmata intrecciò subito fecondi rapporti con tutti i cittadini compresi quelli di origine ebraica e, successivamente, contando sull’aiuto di alcuni collaboratori all’interno della stessa Questura, attivò una rete di assistenza per i perseguitati razziali. Già nel marzo del 1939 un suo provvidenziale intervento permise a una nave con a bordo 800 fuggiaschi provenienti dalla Jugoslavia, di sottrarsi alla Gestapo trovando rifugio nel paese di Abbazia.
Gli ebrei in fuga dalla Jugoslavia raggiunsero la salvezza contando soprattutto sul cosiddetto “canale di Fiume” che, attivo già dopo il varo delle leggi razziali, divenne di vitale importanza dopo l’occupazione tedesca dei Balcani. Passato il confine, grazie anche all’aiuto di ufficiali e soldati della Seconda armata italiana, i profughi ricevevano una prima accoglienza presso famiglie fidate per poi essere indirizzati in località più sicure. Palatucci, grazie alla sua funzione di responsabile dell’ufficio stranieri, li rendeva dapprima irreperibili e poi li avviava con documenti falsificati in tali luoghi.
Una di queste destinazioni era il campo di raccolta profughi di Campagna, situato in provincia di Salerno, dove Palatucci poteva contare sull’aiuto sia del direttore, un funzionario che era stato anch’egli a Fiume, sia sulla più alta autorità religiosa locale: lo zio monsignor Giuseppe Maria Palatucci. Numerosi ebrei, grazie alla rete intessuta dal Questore di Fiume, furono avviati anche in Abruzzo e in Molise presso i centri istituiti per dare ospitalità agli sfollati di guerra. Dopo l’8 settembre 1943, che ebbe come conseguenza l’occupazione di Fiume da parte tedesca e la creazione del “Litorale Adriatico”, l’impegno di Palatucci non accennò a diminuire.

Nominato reggente della Questura criticò aspramente, attraverso relazioni ufficiali, le autorità della Repubblica di Salò impassibili e silenti davanti agli abusi compiuti sia dai tedeschi sia dagli Ustascia e prontamente avallati dalla Milizia e dal Partito fascista repubblicano. Strinse inoltre rapporti con i Cln, dove era conosciuto come “Danieli”, ed elaborò un progetto politico che avrebbe dovuto portare, al termine del conflitto, alla nascita dello Stato indipendente di Fiume. Ma soprattutto ordinò che fossero distrutti tutti i registri degli ebrei presso l’ufficio stranieri e impartì disposizioni precise affinché l’ufficio anagrafico del Municipio non rilasciasse alcun documento relativo a cittadini di razza ebraica senza aver preventivamente informato la Questura stessa che, in tal modo, poté conoscere in anticipo i preparativi delle SS avvisando così i perseguitati. Nonostante l’intensificarsi dei pericoli, Palatucci lasciò cadere tutti gli inviti e i consigli a lui rivolti perché abbandonasse Fiume. Arrestato il 13 settembre 1944 fu deportato a Dachau dove morì il 10 febbraio dell’anno successivo. In base a quando testimoniato nel secondo Congresso ebraico mondiale, tenutosi a Londra nel 1945, la sua intensa attività aveva permesso la salvezza di ben 5.000 ebrei.
Grazie all’apporto della Resistenza, al contributo della Chiesa, alla solidarietà del mondo contadino e al coraggio silenzioso di singoli uomini, l’85 per cento degli ebrei d’Italia sopravvisse all’Olocausto. Molti pagarono i loro slanci d’altruismo con infinite sofferenze, con la deportazione e con la vita stessa. Ma posti di fronte a un ideologia che pretendeva si schiacciare e sterminare altri esseri umani colpevoli semplicemente di essere nati ebrei, seppero rispondere con fermezza riaffermando il valore supremo della persona. Ancora oggi la loro vita e i loro semplici gesti, compiuti nel momento più tragico per l’intera storia dell’umanità, non possono che costituire un esempio e un modello per tutti coloro che, in ogni settore della società, sono impegnati nella difesa della dignità dell’uomo e lavorano al fine di favorirne la sua crescita civile e morale.

Note
[1] http://www.yad-vashem.org.il/righteous/index-righteous.html. Coloro che hanno ricevuto tale riconoscimento e che saranno citati nelle pagine seguenti sono: Alessandrini don Armando, Antonioli don Francesco, Beccari don Arrigo, Benedetto padre Maria, Brizi Luigi, Brunacci don Aldo, Bussa don Eugenio, Caronia Giuseppe, Casini don Leto, Crippa-Leoni prof. Lina, De Fiore Angelo, Focherini Odardo, Moreali Giuseppe, Nicolini monsignor Giuseppe Placido, Palatucci Giovanni, Repetto don Francesco, Ricotti padre Cipriano, Spada Lorenzo, Sala don Dante, Tantalo don Gaetano.

[2] La pesante atmosfera carica di diffidenza, e segnata da tradimenti e ogni sorta di meschinità, che investì il paese nel ventennio è messa ben in evidenza dal lavoro di M.Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Milano, Mondadori, 2001.

[3] M. Michaelis, La Resistenza israelitica in Italia, in ‘Nuova Antologia’, ottobre dicembre 1980, p.244. Per il ruolo degli ebrei nella Resistenza si vedano anche G.Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Mursia, 1970 nonché Cdec ( a cura di), Ebrei in Italia: deportazione Resistenza, Firenze, La Giuntina, 1975.

[4] I due testi sono tratti da M.Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,Torino, Einaudi ,2000, p.280, n.152.

[5] M. Sarfatti, Dopo l’8 settembre: gli ebrei e la rete confinaria italo-svizzera, in ‘La rassegna mensile di Israel’, Roma Vol XLVII, n.1-2-3-, gennaio giugno 1981.

[6] Cfr. M.Toscano, Gli ebrei in Italia dall’emancipazione alle persecuzioni, in ‘Storia Contemporanea’, a. XVIII,n.5, ottobre 1986 p. 940.

[7] Cfr. G.Bianchi, Aspetti dell’attività partigiana nel Nord Lombardia, in ‘La Resistenza in Lombardia’, Milano, Edizioni Labor, 1965, pp. 123.

[8] Cfr. G.Bianchi, Dalla Resistenza. Uomini, eventi, idee della lotta di Liberazione in provincia di Milano, Provincia di Milano, 1975, p. 108.

[9] G.Barbareschi ( a cura di), Memorie di sacerdoti ribelli per amore, Milano, Centro di Documentazione e Studi Religiosi, 1986, 202.

[10] E.Bigatti , …Che il sale non diventi zucchero, Milano, Stefanoni, 1971, pp.175-176.

[11] Cfr. M.Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione,cit., p. 269.

[12] Cfr. M.Toscano, Gli ebrei in Italia dall’emancipazione alla persecuzione, cit., p.940.

[13] Cfr. S.Zuccotti, L’Olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1987, pp.249-250.

[14] Cfr. G.E.Valori, Un albero per la vita, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 107-133.

[15] Cfr. Z.Dazzi ( a cura di ), Storie di salvati e di salvatori, in ‘La Repubblica’, 16 gennaio 2003.

[16] Testimonianza di Nedo Fiano, in M.L.Adorno, Gli ebrei fiorentini dall’emancipazione alla Shoà, Firenze, La Giuntina, 2003, p.104.

[17] Cfr. R.Broggin, La frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera. 1943-1945, Milano, Mondadori,1998, in particolare pp. 17-113. Si veda anche M.Franzinelli, Delatori…, cit., pp. 161-196.

[18] Cfr. R.De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, pp. 480-481. Per correttezza bisogna dire che nella vasta opera profusa dagli uomini religiosi e dai vari ordini, si verificarono anche alcuni episodi infelici in cui l’accoglienza non fu affatto concessa oppure, anziché essere data per puro spirito di carità, avvenne dietro il pagamento di rette. Qualcuno dei sopravvissuti ha lamentato anche episodi in cui si verificarono tentativi di conversioni forzate. Tali aspetti furono ad ogni modo marginali e non inficiano la condotta generale della Chiesa che assolse il suo compito con genuino spirito di carità e nel rispetto della fede e delle tradizioni altrui. Per alcuni casi negativi si veda F.Barozzi, I percorsi della sopravvivenza. Salvatori e salvati durante l’occupazione nazista di Roma, in ‘La rassegna mensile di Israel’, gennaio aprile 1998, pp 129-130.

[19] Cfr. A.Gaspari, 1943, la lista del Laterano, in ‘Avvenire’, 11 febbraio 1998, p. 21.

[20] S.Zuccotti, L’Olocausto in Italia, cit., pp.134 135.

[21] Cfr. A.Gaspari, Nel convento dei ‘Giusti’, in ‘Avvenire’, 18 febbraio 1998, p. 20.

[22] Il riconoscimento di ‘Giusti fra le nazioni’ è stato consegnato per tutte le religiose a Maria Girelli, suor Luisa. Cfr. Associazione Figli della Shoah (a cura di), Memoria. I sommersi e i salvati, Milano, Proedi Editore,2003, p. 49.

[23] Cfr. A.Gaspari, Nel viale dei Giusti c’è anche la basilica di Assisi, in ‘Avvenire’, 26 febbraio 1998, p.23. Per un breve profilo di padre Brunacci si veda Associazione Figli della Shoah (a cura di), Memoria. I sommersi e i salvati, cit., p. 48.

[24] Testimonianza di Matilde Cassin, in M.L.Adorno, Gli ebrei fiorentini dall’emancipazione alla Shoà,cit., p. 105.

[25] Per la figura di don Leto Casini si veda L.Casini, Ricordi di un vecchio prete, Firenze, La Giuntina, 1980.

[26] Relazione al Consiglio della Comunità ebraica di Firenze di Eugenio Artom, in M.L.Adorno, Gli ebrei fiorentini dall’emancipazione alla Shoà, cit. p. 142.

[27] Il testo completo è riprodotto in G.Barbareschi ( a cura di), Memorie di sacerdoti ribelli per amore, cit.,p. 381.

[28] Relazione del Comando Compagnia Speciale della Gnr, in B.Gariglio ( a cura di), Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Bologna, Il Mulino, 1997, pp.176-177.

[29] Cfr. B.Gariglio, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, ivi, p.21.

[30] Cfr. G.B.Venier, Un vescovo per la guerra: l’azione pastorale del cardinale Boetto arcivescovo di Genova. 1936- 1946, ivi, pp. 39-42.

[31] Cfr. D.Sala, Oltre l’Olocausto. 105 ebrei strappati alla deportazione, Milano, Movimento per la vita,1979.

[32] Per la figura di don Tantalo si veda N.Sarale, Don Gaetano Tantalo: un sacerdote amico, umile, eroico, esemplare, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995. Per quella di don Piero Folli invece G.De Antonellis (a cura di) Cattolici ambrosiani per la libertà, Milano, Ned, 1995, pp. 98-102.

[33] Cfr. G.Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, cit.,p.146. L’intero paese di Cotignola, a conferma della grande partecipazione di tutti i suoi abitanti all’azione di salvezza, è stato insignito del titolo di ‘Giusto fra le nazioni’ lo scorso gennaio 2003.

[34] L’intervento del delegato della Comunità ebraica di Cuneo ricorda la tragedia della Shoa, in ‘Borgo San Dalmazzo’, settembre 2003, p.4.

[35] http://www.pitigliano-toscana.com/giustifralenazioni2.html

[36] Per le vicende di Villa Emma si vedano G.Pederiali, I ragazzi di Villa Emma, in ‘Historia’, febbraio 1993 pp.100-107 e K.Voigt, Villa Emma, ragazzi ebrei in fuga. 1940 1945, Scandicci, La Nuova Italia, 2002.

[37] R.Broggini, La frontiera della speranza…, cit., p.100.

[38] Cfr. S.Zuccotto, L’Olocausto in Italia, cit., pp. 236-237.

[39] Cfr. G.E.Valori, Un albero per la vita,cit., pp. 94-95.

[40] Cfr. R.De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo,cit., p. 474.

[41] Per questo e per altri casi si vedano le lettere dei sopravissuti riprodotte in Associazione Figli della Shoah (a cura di), Memoria. I sommersi e i salvati, cit., pp. 42-44.

[42] Per la figura di Adele Cappelli Vegni si veda G.De Antonellis ( a cura di), Cattolici ambrosiani per la libertà, cit., pp. 43-46.

[43] Cfr. C.Bianchi, Dalla Resistenza…cit., pp. 160 e 174.

[44] Cfr. S.Zuccotti, L’Olocausto in Italia, cit., p. 164.

[45] Cfr. G.E.Valori, Un albero per la vita, cit.

[46] Cfr. M.Coslovich, I percorsi della sopravvivenza. Storia e memoria della deportazione dall’ ‘Adriatisches Kustenland’, Milano, Mursia, 1994, pp. 334 -335 e note p. 366.

[47] Sulla figura di Palatucci e sul suo operato in favore degli ebrei si vedano G.Raimo, A Dachau per amore: Giovanni Palatucci, Avellino, Dragonetti, 1992; P.Vanzan, Giovanni Palatucci, Questore e martire, in ‘La Civiltà Cattolica’, 15 luglio 2000, pp. 121-131; M.Coslovich, Note sulla figura e l’opera di Giovanni Palatucci, in ‘La rassegna mensile di Israel’, gennaio aprile 1995, pp. 90-103; A.L.Jamini, Il salvataggio degli ebrei a Fiume durante la persecuzione nazifascista, in Il movimento di liberazione in Italia, luglio 1955, n.37, pp. 44-47