LA FORESTA DEGLI IMPICCATI

Con questo titolo lo scrittore romeno Liviu Rebreanu romanzò la vicenda del fratello, ufficiale dell’esercito austro-ungarico condannato per diserzione nel 1917. Un episodio-simbolo delle lacerazioni suscitate dalla Grande guerra tra i popoli assoggettati alla duplice monarchia. Il grande romazo di Rebreanu torna disponibile, in formato e-book, dopo quasi mezzo secolo di oblio.  

ImpiccatiPer i soldati romeni della Transilvania, fino al 1918 assoggettati all’impero degli Asburgo, il primo conflitto mondiale ebbe effetti profondamente laceranti. Soprattutto a partire dall’agosto 1916, quando la Romania scese in campo a fianco delle potenze dell’Intesa, di fatto costringendoli a combattere contro i propri connazionali. È questo retroterra a fare da scenario all’intenso romanzo del giornalista e scrittore romeno Liviu Rebreanu (1885-1944). La trama dell’opera è costruita intorno a un episodio tragico e realmente accaduto, e cioè la morte del fratello dello scrittore, ufficiale della duplice monarchia impiccato dopo un fallito tentativo di diserzione.
Scritto nel 1922, la Foresta degli impiccati è un romanzo intimo e psicologico, alieno all’enfasi granguignolesca di molti autori contemporanei. È lo specchio della crisi interiore e spirituale provocata tra le élite di un grande impero multietnico di fronte alla nascente consapevolezza irredentistica e nazionalistica. Sfuggire a questa consapevolezza, si chiede il giovane ufficiale, non rappresenta un tradimento rispetto alle proprie origini? O tradimento è solo rinnegare il giuramento di fedeltà a un esercito e al suo imperatore? La tensione si gioca quindi tra il senso del dovere del soldato, in forza all’esercito ungherese, e un sentimento di appartenenza che è “altro” rispetto alla divisa indossata. Il tutto sviluppato su un registro – ed è uno degli elementi che rende queste pagine apprezzabili ancora oggi – lontano dalla ridondanza e dalla retorica patriottarda che ogni “risorgimento” porta con sé. Quello di Rebreanu è il racconto della maturazione di un “io” nazionale radicato nella laboriosa e semplice ruralità delle popolazioni transilvane. Il tutto sorretto da un profondo afflato religioso: il giovane e spavaldo ufficiale, arruolatosi volontario per “giovanile baldanza”, giunge a una catarsi autodistruttiva in cui la religione (ortodossa), intesa anche nel suo valore storico e identitario, lo accompagna alla conquista di una nuova spiritualità.
Il romanzo di Rebreanu ebbe una trasposizione cinematografica nel 1964, premiata a Cannes l’anno successivo con un riconoscimento al regista Liviu Ciulei. L’exploit valse alla Foresta degli impiccati una seconda e ultima edizione in lingua italiana nel 1967, dopo la prima del 1930. L’edizione che oggi vi presentiamo, curata e aggiornata da Storia in Network, è disponibile in formato e-book su Amazon: per acquistarla  basta cliccare sull’immagine di copertina qui sopra.
Di seguito offriamo ai nostri lettori un brano in cui il personaggio principale, Apostol Bologa, dopo aver preso parte all’esecuzione di un disertore di origine Ceca, inizia a maturare i primi dubbi sul suo ruolo all’interno dell’esercito asburgico.

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Liviu Rebreanu

Liviu Rebreanu

La mensa degli ufficiali della divisione era installata in una ex osteria presso la casa dove abitava il generale Karg. Nella sala più grande che dava sulla strada, con le finestre chiuse, perché non uscisse fuori la luce, mangiavano gli ufficiali del quartiere della divisione e quelli del comando della batteria di artiglieria, che si trovava nel paese. In fondo, in una stanzetta, c’era la mensa di quelli di passaggio, che si avviavano al fronte, o che ne tornavano, e dovevano trattenersi per un dato tempo, a causa dei numerosi servizi della divisione.
Siccome aveva ritardato, Bologa non volle passare nella sala grande, ma passò invece per il cortile ed entrò nell’anticamera dove alcuni soldati lavavano gli utensili, asciugavano pentole e bicchieri, mentre altri venivano lungo il corridoio dalla cucina più lontana, con piatti di vivande e con bottiglie di vino… Di qui, una porta dava direttamente nella sala grande, un’altra nella sala per gli ufficiali di passaggio. Un soldato corse ad aprire la porta a Bologa.
Nella stanzetta c’erano soltanto due tavole lunghe e un divano sconquassato, su cui erano ammassati mantelli, berretti, sciabole, baionette, alla rinfusa.
La tavola a destra era vuota; un soldato con la testa a pera e la fronte alta un dito raccoglieva pigramente le posate e i resti di pane. Il fumo delle sigarette, l’odore di vivande e di vino, riempivano la stanza di nubi fino al soffitto, soffocando la luce della lampada ricoperta da un paralume rosa. Le imposte della finestra erano chiuse, le fessure otturate con salviette. Le finestre avevano tende, e sulle pareti si vedevano soltanto cadaveri di insetti. In capo alla tavola di sinistra sedeva il capitano Klapka. Senza berretto, tutto pelato, la sua faccia rotonda ispirava bontà e dolcezza benché negli occhi vagasse un terrore che cercava di nascondere sotto un sorriso falso e freddo.
Quando Bologa passò nella stanza, il rumore di voci che aveva udito dall’anticamera cessò bruscamente, sì che il suo “buonasera” risuonò solitario in un silenzio di tomba. Toltosi il berretto e la mantella, quell’onda di turbamento si sciolse e il tenente Gross, in tono scherzoso e nello stesso tempo serio, esclamò:
- Mi sembra Bologa, che tu ti sia vergognato a venir prima fra noi! Dì la verità!
- Vergognato! Io?… Perché? – disse Apostol fermandosi, di stucco.
- Come se noi non sapessimo che anche tu hai votato per la morte? – sorrise Gross dando alle sue parole un tono più dolce perché aveva notato l’inquietudine di Bologa.
- E se anche fosse? – seguitò Apostol con tono arrogante. – In ogni caso non devo renderne conto che alla mia coscienza che l’ha trovato colpevole!
- La coscienza! – sospirò con tono di sfiducia il capitano Cervenco, che sedeva alla sinistra di Klapka – Chi ha più una coscienza, oggi?
Questa voce si infisse come un ago nell’orecchio del tenente Bologa. Volle rispondere e nulla gli venne in mente. Volse lo sguardo verso di lui, e la sua anima si calmò. Cervenco era un uomo robusto, dalle spalle larghe, con una barba brizzolata che gli copriva quasi tutto il petto e con due occhi in cui si nascondeva perennemente una sofferenza misteriosa. Bologa lo aveva conosciuto in un ospedale a Trieste e aveva trovato in lui un’anima di angelo. Era ruteno, professore in un liceo di Stanislao. Agli occhi degli ufficiali passava per una specie di fissato, perché in due anni di guerra non aveva mai toccato un’arma, ma andava in battaglia soltanto con un bastone di giunco, cantando inni di chiesa. Cervenco stesso diceva a voce alta che si sarebbe tagliato le mani, piuttosto che sparare contro alcuni poveri uomini come lui. Essendo d’altra parte molto scrupoloso nel servizio, e incurante della morte, i superiori lo lasciavano in pace, contentandosi di dirgli che era un po’ squilibrato.
- Ciascuno fa il proprio dovere come crede – mormorò Bologa come risposta a Cervenco, sedendosi di fronte a Klapka e ordinando al soldato di portare anche a lui qualcosa da mangiare.
Il soldato se ne andò. Dopo un istante Gross, un po’ colpito, aggiunse:
- Nessun dovere al mondo mi potrebbe imporre di uccidere un camerata…
- Camerata? – gridò all’improvviso il tenente Varga, indignato, balzando in piedi. – I traditori e i disertori sono i tuoi camerati? Signori, state passando i limiti con gli scherzi!… Io, in ogni modo, non posso più ascoltare con indifferenza simili… simili… parole compromettenti per un militare che ha ancora un briciolo di amor patrio in petto!
Lo scatto del tenente degli ussari, unico in servizio permanente fra tutti i presenti, cadde come una doccia fredda su tutti, ricordando a ognuno di essere al fronte. Tutti gli sguardi si volsero verso Varga e in tutti brillava una domanda… Questi sguardi appagarono l’orgoglio dell’ussaro, bruno, giovane, bello, tutto rasato e dai lineamenti decisi. Era nipote del professore di filosofia a Budapest e aveva l’ambizione di essere stimato gran conoscitore di cavalli. Apostol lo aveva incontrato spesso in casa del professore e per quanto gli fosse sembrato vuoto e insignificante, aveva tuttavia stretto amicizia con lui, perché aveva in fondo un’anima aperta e fedele.
- Immagina, amico mio – seguitò Varga rivolgendosi a Bologa, come a colui di cui divideva le idee, con una voce calma che voleva cancellare l’impressione di quello scatto pieno di sdegno – immagina che da due ore si parla soltanto dell’esecuzione di Svoboda, e, cosa credi?, questi signori chi trovano colpevoli?… coloro che l’hanno condannato!
Varga finì sorridendo con un po’ di scherno rivolto a Gross, disperdendo così completamente le ultime tracce della protesta.
- Nessuno condanna a cuor leggero – disse Apostol pensieroso – Ma quando la colpa è evidente, sei costretto. Perché al disopra dell’uomo, dei suoi interessi particolari, c’è lo Stato…
- Nulla è al disopra dell’uomo! – ribatté Gross, alzandosi in fretta perché nessuno avesse modo di togliergli la parola – Al contrario l’uomo è al disopra di ogni cosa, al disopra anche dell’intero universo! Che sarebbe la terra senza l’uomo che la curasse, l’amasse, la misurasse, la circondasse? Come la terra stessa, così anche l’universo è divenuto una realtà interessante solo per opera dell’uomo. Altrimenti sarebbe uno sterile travaglio di energie cieche, altrimenti: vale a dire senza lo spirito umano… Tutti gli astri dell’universo non possono avere altro scopo che quello di riscaldare il corpo dell’uomo dove trovano rifugio le faville divine dell’intelligenza. L’uomo è il centro dell’universo perché soltanto nell’uomo la materia ha raggiunto la coscienza del proprio io, è arrivata a conoscersi! L’uomo è Dio!
Il tenente Gross, asciutto, secco, con una barbetta a spazzola, gli occhi piccoli, neri, brillanti, comandava una compagnia di zappatori. Parlando si infiammava immediatamente e la sua voce aspra, spiacevole, diveniva carezzevole e suadente. Era ebreo, ingegnere in una fabbrica di automobili a Budapest.
Si fermò un momento e guardò intorno a sé come se avesse atteso un’interruzione. Incontrando gli occhi di Bologa, che non lo sopportava perché era troppo disposto agli scherzi, Gross continuò con disprezzo:
- Lo Stato!… Lo Stato che uccide!… Alle spalle lo Stato nostro, di fronte lo stato nemico, e in mezzo noi, i condannati a morire per assicurare ogni comodità ad alcuni ladri che hanno iniziato il macello di milioni di schiavi incoscienti! Mi meraviglio che…
- Noi difendiamo la patria, amico, l’eredità degli avi! – interruppe Varga calmo, con una superiorità nella voce.
- Qui, nel cuore della Russia, è la tua patria? – interruppe Gross con grande disprezzo.
- La patria è là dove è il dovere! – intervenne Bologa, ma con tanta debolezza che nessuno pose attenzione alle sue parole.
- La nostra patria è la morte… dovunque e continuamente la morte – mormorò Cervenco con profonda convinzione.
- Perché siamo vili! – gridò Gross tutto acceso – Un solo istante di coraggio generale porrebbe termine a tutte le infamie!
- Se tutti fossero come te! – disse Varga, ridendo tanto di gusto che gli altri si rasserenarono – Per fortuna noi altri, ancora non abbiamo dimenticato che al disopra di tutto siamo figli e difensori della patria, mio caro anarchico!… Signor capitano – aggiunse poi rivolto a Klapka – la prego di non giudicarci secondo le parole, ma secondo i fatti! Siamo tutti amici e quando ci incontriamo ci permettiamo più di quello che sarebbe permesso… Così ci consoliamo anche noi di tutte le nostre sofferenze… Ma di fronte al nemico facciamo tutti il nostro dovere di cuore, e naturalmente anche Gross, per quanto voglia sembrare un ribelle. Nel terzo anno di guerra, dopo aver dato tante prove di valore, queste debolezze debbono essere considerate con criterio.
Klapka scosse il capo con un sorriso indulgente che tuttavia non era affatto intonato con la strana luce dei suoi occhi gonfi. Gross volle protestare, ma proprio allora la porta si aprì ed entrò il soldato con i piatti pieni, ponendoli di fronte a Bologa.
Dopo alcuni minuti, passati fra mormorii, la conversazione si riaccese principalmente fra Gross e Varga. Apostol Bologa mangiava contro voglia. Benché non avesse toccato nulla dall’ora di pranzo, non aveva fame. Si sentiva completamente stanco come se per tutta la giornata avesse spostato dei massi. Avrebbe desiderato prendere parte alla discussione, come altre volte, ma non osava, per timore che gli altri avessero osservato quanto false fossero le sue parole. Questa paura lo torturava continuamente, gli tormentava il cuore senza rimedio. Aveva l’impressione di trovarsi sull’orlo di un abisso, e non si piegava a guardarne la profondità che tuttavia lo tentava sempre più insistentemente…
- La vittoria deve venire! – esclamò Gross in tono patetico, con largo gesto, e con gli occhi lucenti per l’emozione. – Un delitto mostruoso deve suscitare uno scatto tremendo di ribellione universale! Assolutamente! E allora, oltre le trincee piene di sangue, oltre le frontiere rigate di tombe, tutti i reietti, tutti i ribelli si stringeranno le mani e in uno slancio distruttore si rivolgeranno contro coloro che li torturano da migliaia di anni, e nel loro sangue marcito dalla indolenza, bagneranno le bandiere della pace e di un mondo nuovo!
Bologa allora non poté più trattenersi e domandò in tono calmissimo:
- Il mondo dell’odio, camerata?
- L’odio, soltanto l’odio potrà sradicare l’ingiustizia! – rispose Gross con il volto contratto per l’emozione.
- L’odio provocherà sempre l’odio! – disse Apostol scuotendosi. – Sull’odio non puoi costruire, come non puoi costruire sulla palude…
Prima che Gross potesse rispondere, Varga si alzò in piedi e disse con un sorriso:
- Un momento! Permettete… Il nostro anarchico vuole un’internazionale! – aggiunse con superbia alzando la voce e indicando intorno con la mano tutti i presenti. – Guarda! Tu sei ebreo, il capitano è cèco, il dottore in fondo è tedesco, Cervenco è ruteno, Bologa è romeno, io sono ungherese… È vero? Tu cosa sei, ragazzo? – domandò volgendosi al soldato che non terminava più di sparecchiare l’altra tavola.
- Soldato! – rispose lui, imbarazzato e prendendo la posizione regolamentare.
- Certo, tutti siamo soldati! – fece Varga contento – Ma ti domando, di che razza sei?
- Croato, ai suoi comandi – mormorò il soldato senza batter ciglio.
- E dunque, croato… – seguitò il tenente rivolto agli ufficiali. – E sono sicuro che dall’altra parte troveremmo ancora polacchi, serbi, italiani, di tutti i popoli, non è vero?… E tutti lottiamo fianco a fianco per un ideale comune, contro il nemico comune! Ecco la vera internazionale, compagno! – terminò Varga sedendosi vittorioso.
- L’internazionale del delitto! – disse Gross gravemente, aggiungendo subito in tono ironico: – È inutile, tu non puoi capire, Varga! Perdiamo il tempo. Tu sei un bravo ragazzo, sei un eroe, ma in quanto al resto…
- In quanto al resto, vale a dire, in quanto alle tue idee, neanche desidero avvicinarmici, perché un passo più in là ci trovi la Corte Marziale! – rispose in fretta Varga, ridendo contento.
Vi fu un breve silenzio, poi si udì la voce di Cervenco, debole, come un tardo rimprovero.
- Molta sofferenza ci occorre, molta, immensa… Soltanto nella sofferenza, cresce e germoglia l’amore grande, vero, vittorioso… L’amore, cari compagni, l’amore!
Apostol Bologa fissò gli occhi del ruteno, bagnati e pur brillanti di una luce ammonitrice. Guardandolo tuttavia più profondamente Bologa ebbe quasi paura e trasalì come se avesse cercato di guardare nella profondità di quell’abisso che schivava da tutta la sera. Volle dire qualcosa e gli venne alle labbra un mormorio incosciente:
- L’amore… l’amore…
- L’amore vostro tuttavia ci nutre a furia di pallottole e forche – disse Gross con asprezza ostile – Oggi Svoboda, domani io, oppure voi, quelli dell’amore… E almeno Svoboda ha cercato di tirarsi fuori da questo porcile, mentre noi ci sguazziamo continuamente…
- Spero che non vorrai fare l’apologia del tradimento? – l’interruppe di nuovo gravemente il tenente degli ussari.
- Se mentre qui tu soffri, o fai atti di valore, qualche miserabile impiccasse a casa tua tuo padre, sotto un’accusa qualsiasi, di’ un po’, caro eroe, non imiteresti anche tu Svoboda?
- Cioè, il padre dell’impiccato? – domandò Bologa con gli occhi larghi, tenendo il viso verso Gross – Ebbene, allora perché non ha parlato, perché?
- E se avesse parlato? – disse Gross con voce soffocata e piena di ribrezzo. – Al massimo una circostanza aggravante…
- Ma, ma… è… – mormorò Bologa fermandosi improvvisamente stordito, e sentendosi il palato arido, come se si fosse svegliato da un sonno popolato di sogni terribili…
- Nulla può scusare il tradimento, e d’altronde un ufficiale che diserta è più criminale di… più criminale! – disse Varga alzandosi – E siccome domani mattina dobbiamo essere pronti al nostro dovere, vi proporrei di andarcene via… Non per altro, ma ho paura che se seguitiamo a trattenerci, potreste convincerci che la diserzione al nemico è un atto di valore!
Cercò di ridere, e non riuscendovi, si avvicinò al divano e tolse dal mucchio la sua mantella e le armi.
Gros guardò l’orologio e disse rivolto a Cervenco:
- Cosa facciamo? È tardi… Appena possiamo dormire tre ore…
Se ne andarono tutt’e tre insieme e dietro loro rimase una traccia grave di silenzio. Il capitano Klapka cominciò un po’ a tamburellare leggermente con le dita sulla tavola, guardando di sottecchi Bologa che si dondolava sulla sedia, con la faccia contratta da un tremito che non poteva nascondere. A tavola non era rimasto nessun altro che un sottotenente di fanteria, giovanissimo e taciturno, che non aveva proferito neanche una parola, e aveva bevuto alcune bottiglie di vino con un’avidità da bevitore precoce, e il dottore Meyer, anche lui scontroso e cupo, che soffriva d’insonnia e aveva un amore speciale per i suoi “clienti” – come chiamava quelli delle trincee – e che mangiava sempre nella saletta degli ufficiali di passaggio, senza tuttavia mescolarsi alle loro discussioni. Siccome il silenzio diveniva opprimente, Klapka disse rivolto al dottor Meyer, cercando di dare alle sue parole un tono da scherzo:
- Io potrei star qui tutta la notte, perché ancora non ho quartiere, e ho il soldato alla stazione che mi guarda il bagaglio…
Udendo la voce del capitano, Bologa si riscosse e disse rapidamente, come se avesse voluto nascondere una sua colpa:
- Se è stanco, si può riposare da me, signor capitano… Le cedo ben volentieri il mio letto, perché io… io penso di ripartire più presto verso… il mio dovere…
- E perché non dovremmo andare insieme? – rispose Klapka – Non conosco il terreno e ho bisogno di una guida… Mi hanno detto che comanderò la seconda divisione.
- Allora è mio comandante! – esclamò Apostol con ardore – Un motivo di più per ripeterle l’invito!
- Ed io lo ricevo, amico, perché se debbo dire la verità, sono quasi accasciato dalla stanchezza e dalle emozioni – disse il capitano con voce più sincera.
Il dottore senza sonno passò nella stanza più grande, e il sottotenente chiese ancora una bottiglia di vino al soldato, che ancora non terminava di sparecchiare la tavola vicina… In strada Klapka e Bologa si fermarono ad ascoltare le risa sguaiate che venivano della mensa, dominate da una voce rauca che cantava molto appassionatamente una romanza sentimentale. L’oscurità si appesantiva su tutto il paesaggio e su nel cielo i venti agitavano brandelli di nubi cupissime.
- Dove andiamo, camerata? – domandò Klapka all’improvviso con voce cambiata.
Nello stesso istante, balenò a oriente, nel cielo, un cono di luce bianco, tremante, che si posava qua e là, in fretta, alla ricerca, come uno spione astuto, in alcuni luoghi insistendo, altrove sfiorando la terra, sfidando le tenebre… Dopo non più tardi di un minuto, si udirono scoppi spessi, soffocati, lontani…
- Che significa questo? – fece il capitano meravigliato – Si diceva che da questa parti c’era calma. Invece laggiù…
- Sì, ma non è niente… non è niente. – disse Bologa seguendo interessato la luce e i tiri. – Qualcosa di strano… oh, molto più che strano! Quei russi sono pazzi! S’immagini, signor capitano, che da circa una settimana, quasi ogni notte c’infastidiscono con un riflettore, come se stessero lì a prenderci in giro! Guardi un po’: un riflettore qui, in posizioni fisse, dove si conosce ogni monticello di terra! È ridicolo… Ma ancor più ridicolo, e addirittura snervante, è che noi non siamo in grado di mandar all’aria questo loro divertimento! Abbiamo sprecato finora tanti di quei proiettili che ce n’è da avere vergogna, e tutto invano! Sembra quasi che sia stregata quella loro luce, sembra!
Bologa troncò bruscamente le sue parole, perché il fascio di luce era sparito, lasciando l’oscurità ancor più cupa. I colpi di cannone continuarono ancora per qualche tempo, poi tacquero a poco a poco… I due ufficiali si avviarono nella densa oscurità, sguazzando con gli stivali nel fango. Il villaggio dormiva lassù, con le sue case nascoste oltre i recinti di roveti… Più tardi, pur continuando a camminare, Klapka disse a bassa voce:
- Che effetto strano ha prodotto l’esecuzione di oggi, su quei signori! E pensare che sono stati condotti espressamente perché tornassero spaventati nelle trincee e dicessero che è molto meglio affrontare i proiettili nemici che il nodo scorsoio della forca! Molto… molto… strano! Ma se il padre del condannato è stato veramente impiccato, allora…
Apostol volse rapido lo sguardo come se avesse udito una voce alle sue spalle, poi mormorò supplichevole:
- Ma era colpevole… Signor capitano, era colpevole…
Erano arrivati all’angolo della stradina, presso l’abitazione del tenente. La luce bianca, proprio allora, balzò di nuovo nell’atmosfera, più vicina, più limpida, subito seguita da colpi più furiosi.
- La luce! – mormorò Bologa. – È sempre un assillo la luce! Come se tutti i colpi del mondo non fossero in grado di soffocarla!
Ma l’apparizione bianca tornò a dissolversi e l’oscurità li strinse di nuovo tra le sue braccia, come tra fredde tenaglie. Soltanto nei loro animi turbati rimanevano ancora scintille multicolori, carezzevoli… Presero lungo la piccola strada… Il fango era ancora più appiccicaticcio. Bologa si sentiva tremare le ginocchia. Gli sembrava di portare sulle spalle una pietra da mulino. L’anima sua sanguinava talmente, pur essendo tutta piena di grande nostalgia, che era torturato da una necessità angosciosa di parlare, di spiegarsi…
- Signor capitano, la prego… – disse con calore – è la prima volta che sono stato alla Corte Marziale, la prego… E la coscienza mi ha ordinato… Era colpevole, signor capitano…
Klapka taceva come se neanche l’avesse udito…