LA FALSA DONAZIONE DI COSTANTINO

di Max Trimurti -

Il celebre atto consentì alla Chiesa di giustificare la propria autorità temporale sull’Italia centrale. Ma se il papa vi trovò le basi giuridiche su cui fondare un’autorità spesso contestata, i re carolingi la utilizzarono per ottenere la legittimazione imperiale.

 

L'imperatore Costantino offre a papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale, affresco nell'oratorio di san Silvestro, Roma

L’imperatore Costantino offre a papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale, affresco nell’oratorio di san Silvestro, Roma

La Donazione di Costantino I il Grande (272-337) è uno dei falsi più celebri della storia e quello le cui conseguenze sono state più importanti e durature. Se non è un fatto raro che un documento menzognero, falsificato o “arrangiato”, produca al momento pesanti conseguenze, risulta, al contrario, molto più eccezionale vedere un falso continuare a produrre effetti anche diversi secoli dopo la scoperta della frode.
Frutto di puro opportunismo, nata in un contesto del tutto peculiare e dall’incontro di ambizioni convergenti, la Donatio Costantini si è inscritta nella realtà e si è adattata alle mutazioni dei tempi, al punto da sopravvivere persino alla dimostrazione della sua falsificazione.
Alla vigilia della creazione degli Stati della Chiesa, Roma era provata dalle invasioni barbariche ed era diventata una grossa borgata che non aveva più nulla a che vedere con le sue glorie passate. La città Eterna aveva perduto da tanto tempo, a vantaggio di Ravenna, il suo statuto di capitale politica ed amministrativa. Tuttavia, il suo nome continuava a evocare il ricordo di un impero, d’una civiltà e di un ordine che esercitava sugli uomini un fascino incontestabile. Roma era anche la sede del papato. Ma sarà solo nel corso di qualche secolo che i vescovi di Roma riusciranno a imporsi agli altri metropoliti del mondo cristiano. Praticamente capi della chiesa ecumenica dal IV Concilio, riunito nel 451, essi diventano, per una somma concomitante di eventi favorevoli, i soli detentori del titolo di Vescovo universale nel 607. Una posizione certamente incontestabile, ma che nondimeno rimane precaria.

Insediato nel cuore del ducato bizantino di Roma, il Papa è il primo personaggio della Città ma si trova allo stesso tempo in una situazione delicata nei confronti dell’imperatore di Costantinopoli e del suo rappresentante in Italia, l’esarca di Ravenna. La dipendenza dei Papi nei riguardi dell’Imperatore d’Oriente non è solamente teorica: in tal modo, essi sono sottoposti, fino al 685, prima di ogni consacrazione, all’umiliante obbligo di vedere la loro elezione “validata” dall’autorità bizantina. Una situazione che i pontefici percepiscono come illegittima. Papa Gregorio Magno (504-604) non esiterà a criticare severamente l’imperatore per la gestione dei suoi territori, o più esattamente delle anime che ci vivono. Successivamente Severino e Martino rifiutarono al Basileus di riconoscere l’eresia monotelista, peraltro difesa a Costantinopoli. Quanto a Costantino, egli arriva fino alla rivolta contro l’imperatore di transizione Philippicos, detto Bardane (imperatore bizantino dal 711 al 713). Sono tutti eventi che dimostrano l’esistenza della volontà dei pontefici di affermare, oltre al primato ecumenico, l’indipendenza politica del vescovo di Roma. Giocando sulla divisione dell’Italia, comincia quindi ad affermarsi una diplomazia pontificia, specialmente nei confronti del regno longobardo di Pavia, che non ha smesso di progredire sotto Agilulfo (591-615), Rotari (636-652), Grimoaldo (662-671) e Liutprando (712-744), al punto da arrivare a minacciare direttamente la stessa Roma.

Il Papato cerca allora di sbarazzarsi della tutela bizantina, senza però cadere sotto il dominio diretto di una potenza vicina. Occorre rivolgersi a una potenza esterna alla penisola, una forza capace di sostenere gli interessi della Chiesa. Ma una forza che sia sufficientemente distante da non costituire, a sua volta, una minaccia. Il regno al di là delle Alpi sembra offrire tutti i requisiti necessari. Clodoveo (466-511), in effetti, ha basato la legittimità del suo potere nell’acqua del battesimo cristiano. Nel VI secolo papa Vigilio ha già chiamato in suo aiuto Childeberto I e papa Pelagio II si è rivolto a Childeberto II, perché “la divina provvidenza destinava i re franchi cattolici ad essere i salvatori di Roma e dell’Italia”. In tal modo, quando nel 739 papa Gregorio III si rivolge a Carlo Martello per porre la sua persona e le sorti della Chiesa di Roma sotto la protezione del “salvatore della Cristianità”, egli si inserisce in una tradizione ben consolidata.
Ma Carlo Martello – alleato dei Longobardi in Provenza contro i Mori – non è re, ma solo dux Francorum (duca dei Franchi) e maestro di Palazzo. Sebbene egli diriga di fatto il regno, deve sempre tenere conto della finzione del potere, che formalmente detengono ancora gli ultimi monarchi merovingi. In effetti, se il potere di questi ultimi cosiddetti “re fannulloni” è appena illusorio, un eventuale cambiamento di dinastia non è senza rischi. L’avventura di uno di questi, Grimoaldo I il Vecchio (615-661, antenato della dinastia carolingia), che ha pagato con la vita l’ambizione di imporre suo figlio sul trono dei Franchi, ha ricordato a tutti le difficoltà di una tale impresa. Stabilire una legittimità capace di trasformare una situazione di fatto in realtà durevole e “istituzionalizzata” costituiva all’epoca una vera e rischiosa sfida.

Questa ambiguità viene ancora confermata nel 742, alla morte di Carlo Martello. Se questi, aureolato dalle sue vittorie, ha potuto sentirsi abbastanza forte per mantenere vacante il trono lasciato vuoto alla morte di Thierry (Teodorico) IV, nel 737, questo non sarà il caso dei suoi eredi Carlomanno (707-754) e Pipino il Breve (714-768). Questi ultimi rimetteranno sul trono un re merovingio nella persona di Childerico III, al fine di evitare le abituali critiche della turbolenta nobiltà franca. Dopo il ritiro di Carlomanno, Pipino il Breve riunisce i possedimenti di suo padre e da quel momento ambisce a cingere direttamente la corona. A tal fine, l’uomo sa che dovrà ricercare una nuova fonte di legittimità, almeno altrettanto forte quanto quella di cui era stata investita la stirpe di Clodoveo, una legittimità capace di consacrare la sua autorità e la sua progenie.
In questo contesto, l’avvicinamento con il trono di San Pietro e quella che diventerà la dinastia carolingia avrebbe potuto essere appena un reciproco scambio di servizi o un accordo puramente di circostanza. Tuttavia, conveniva a entrambi che tale avvicinamento potesse durare nel tempo, al di là delle poste in gioco del momento.

Papa Zaccaria aprì la strada al rovesciamento di Childerico III da parte di Pipino il Breve, rispondendo a quest’ultimo “che è meglio che il titolo di re appartenga a colui che possiede il potere reale che a colui che si mantiene senza potere”. A questo punto nulla si oppone più all’ascesa di Pipino il Breve, consacrato nel 752 dal vescovo Bonifacio di Magonza.
L’avvicinamento è molto utile al pontefice, soprattutto nel momento in cui la conquista longobarda di Ravenna contribuisce ad aggravare la minaccia su Roma e mentre l’imperatore d’Oriente si accontenta di invitare il papa a trovare un accordo con Pavia, gratificandolo anche del titolo di “negoziatore”. Non è dunque in una situazione di rottura con Costantinopoli, ma teoricamente come incaricato di una missione diplomatica che il nuovo papa Stefano II attraversa le Alpi nell’inverno del 753 al fine di reclamare il soccorso del re di Franchi.
Nel 754, a Quierzy, viene quindi elaborata un’alleanza fra il papa e i Carolingi: questi ultimi si impegnano a fornire un soccorso militare che garantisca la protezione di Roma, a restituire i possedimenti di San Pietro invasi e ad aggiungervi l’esarcato di Ravenna. Al re dei Franchi, il papa conferma, per mezzo di una nuova consacrazione, la legittimità della Corona di Pipino il Breve. Ma non basta, il papa associa in questa seconda cerimonia di consacrazione i due figli del re franco, Carlomanno e Carlo, fondando di fatto la nuova dinastia.

L’intervento armato dell’esercito franco in Italia è la conseguenza diretta del trattato di Quierzy. I Franchi assediano Pavia e ottengono da re Astolfo I la ritirata dal Patrimonio di San Pietro e la promessa della riconsegna di Ravenna al papa. Ma i Longobardi non intendono rispettare le condizioni e Pipino è costretto a intervenire nuovamente nel 756, estendendo la donazione iniziale con l’aggiunta del territorio di Perugia. Ma, fatto più importante, è in questo momento che si assiste a un cambiamento anche di natura dei territori posti sotto le dipendenze del papa. Non si tratta più, in effetti, del Patrimonio di San Pietro, vale a dire non di soli beni privati, ma di un territorio completamente indipendente: gli Stati della Chiesa sono appena nati. Essi vengono nuovamente occupati dai Longobardi di re Desiderio nel 773 e papa Adriano chiamerà di nuovo in aiuto Carlo, il futuro Carlo Magno. Questi ha appena approfittato della morte del fratello per unificare sotto la sua autorità tutto il regno di Pipino. Anche questa volta i Franchi hanno la meglio sui Longobardi e conquistano Pavia. Carlo Magno non si contenta più di sottomettere i vinti, ma riorganizza la penisola sotto la sua autorità diretta e l’incorpora ai suoi domini. Nel 774 egli cinge la corona di ferro e conferma in questa occasione la Donazione di Pipino, estendendola anche all’isola della Corsica.

Proprio in quel momento compare sulla scena la Donazione di Costantino. Secondo lo storico francese Henry Daniel-Rops (1901-1965), è nel 753 che si situa la “scoperta” di questo documento, utilizzato per convincere Pipino in occasione dell’incontro di Quierzy. Altri studiosi propongono invece come datazione gli anni tra il 756 e il 773 o la metà del IX secolo.
Qualunque sia la data accettata, la Donazione di Costantino cade a proposito. Si tratta in effetti di un documento attribuito all’imperatore romano Costantino, composto di due parti distinte: una di carattere narrativo religioso, di natura giuridica e politica.
La prima parte racconta la guarigione miracolosa dell’imperatore dalla lebbra, ottenuta con la promessa della fine delle persecuzione dei Cristiani. La seconda afferma il primato del vescovo di Roma sul resto della Cristianità e fa del sovrano pontefice un vero capo di Stato temporale. In effetti, secondo questo testo, Costantino avrebbe ceduto al successore di San Pietro la sovranità dell’Impero romano d’Occidente. “Noi concediamo e lasciamo sia il nostro palazzo che la città di Roma e tutte le province, località e città d’Italia o delle regioni occidentali, al beato Silvestro, pontefice e papa universale perché attraverso di lui e dei suoi successori ne sia disposto e che tutto il resto sotto l’autorità della Santa Chiesa Romana… E perché noi abbiamo giudicato conveniente di trasferire il nostro Impero e la potenza reale nelle regioni orientali ed in un bellissimo posto della provincia di Bisanzio di edificare una città col nostro nome e di stabilirvi il nostro imperio: in quanto non è giusto che là dove il principe dei preti ed il capo della Religione Cristiana è fissata dall’Imperatore celeste, un imperatore terrestre mantenga il potere”.

Il testo è un falso creato di sana pianta. Esso ha l’immenso merito di soddisfare tutti quanti: il papa vi trova le basi giuridiche su cui fondare l’autorità sulla Chiesa e il suo potere temporale, mentre il re dei Franchi rafforza la sua recente legittimazione.
Appare comunque interessante constatare che in un’epoca appena uscita dai “tempi barbari” e in rottura profonda con la romanità, la supposta volontà di un imperatore romano sia ritenuta una fonte essenziale di legittimità. L’intenzione dei redattori della Donazione è stata in primo luogo di giustificare una realtà, di fondare una nuova legittimità. Gli imperatori carolingi cercheranno di trarre profitto dal testo al fine di inserire il loro potere nella continuità della Roma antica.
Il papa, appoggiandosi ai Franchi, ha attirato in Italia una potenza da cui viene protetto, ma dei quali, in una certa misura, è anche ostaggio. Quando nel 799 una parte dell’aristocrazia romana si solleva contro Leone III, questi riuscirà a conservare il potere solo grazie all’aiuto di Carlo Magno. E in questa occasione il pontefice ristabilisce la dignità imperiale a vantaggio del suo protettore. Al di là del simbolo, il papa non fa altro che legittimare una situazione di fatto: Carlo Magno ha conquistato il titolo imperiale grazie alle vittorie militari.

Impero e Papato vedranno in seguito la Donazione di Costantino come la fonte delle pretese all’universalità della rispettive autorità. Dalla lotta per le Investiture (1075-1122), all’esilio del pontefice ad Avignone (1309-1378), passando per la lotta fra Guelfi e Ghibellini, le relazioni fra papato e l’impero costituiscono una storia a sé, nel corso della quale ciascuno dei due poteri spera di trarre vantaggio dalla Donazione. Sarà l’attenuazione progressiva di questa pretesa all’universalità, manifestata da papi e imperatori, che consentirà di ridurre progressivamente le tensioni. L’Impero si radicherà nello spazio tedesco al punto da diventare nel 1441 il Sacro Impero Romano della nazione Germanica. Parallelamente, dopo l’esilio avignonese e lo scisma d’Occidente, il Papato recupererà i domini assegnatigli dalla famosa donazione.
Ormai legato alla sorte della penisola italiana, il trono di San Pietro sarà in prima linea per raccogliere, incoraggiare e diffondere il Rinascimento. Roma diventa il centro culturale, politico e intellettuale dell’Europa, una città che è parte di un insieme geopolitico in piena trasformazione, frammentato in principati antagonisti, minacciato dalle potenze vicine.
In questo contesto la denuncia della falsità della Donazione di Costantino costituisce una sfida politica di primo piano. La rimessa in discussione della dominazione del papa sull’Italia pervade lo spirito di un’epoca che riscopre l’antichità e denuncia le certezze stabilite dal Medioevo.

Nel 1433 il tedesco Nicola de Cues denuncia, nella sua Catholica Concordancia, le incoerenze del testo. Ma la contestazione non risulta priva di pregiudizi: essa si inserisce nel conflitto politico e teologico che anima il concilio di Basilea, aperto nel 1431. I concilio intende proclamare la sua superiorità sul pontefice. In effetti, Nicola de Cues è fra gli avversari di papa Eugenio IV. Ma la critica più celebre alla Donazione viene formulata dall’umanista Lorenzo Valla (1405-1457), protetto del re di Napoli, Alfonso d’Aragona. In un libello intitolato De falso credita et ementita Costantini donatione librui duo, pubblicato nel 1447, egli formula una critica sistematica ed argomentata del testo, mettendone in evidenza gli anacronismi e gli errori. Ma la rimessa in discussione procede anche da parte della stessa Chiesa. L’obbiettivo politico è evidente: proclamare la legittimità del trono di San Pietro facendone non l’espressione del desiderio di un uomo, ma della volontà del Cristo in persona. Per questo, i teologi della corte vaticana si sforzeranno di trovare delle tracce della fondazione del trono di Pietro nelle affermazioni del Cristo, fra cui la celebre “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa”.
Questa esegesi, resa popolare da teologi e uomini di Chiesa, si spiega con la necessità di rafforzare la legittimità del potere temporale del papa, nel momento in cui i pontefici prendono l’iniziativa di ingrandire i loro domini trasformandosi in principi-guerrieri. È in questa stagione che il Ducato di Spoleto, Ancona, la Marca, la Romagna, Piacenza, Parma, Modena, Urbino e il Montefeltro, Reggio e Bologna vengono progressivamente annesse nel girone pontificio. È allora che papa Alessandro VI Borgia (1631-1503) sogna di fare di suo figlio Cesare, il Valentino, un sovrano capace di unificare una parte importante dell’Italia. Gli Stati della Chiesa sono così diventati, nel corso dei secoli, uno Stato “quasi come gli altri”.

Dopo l’episodio rivoluzionario che vede la proclamazione di una effimera Repubblica Romana, Napoleone Bonaparte non contesta a papa Pio VI i possedimenti ereditati dalla lontana donazione di Costantino, ma afferma senza tanti giri di parole la propria supremazia. Il 17 maggio 1809 Napoleone annette gli Stati della Chiesa all’Impero e dona a suo figlio il titolo di Re di Roma. Pio VII rifiuta la rimessa in discussione del suo potere e scomunica l’imperatore il 10 giugno 1809. Napoleone, per ritorsione, lo fa catturare nella notte del 6 luglio e il papa dovrà attendere il maggio del 1814 per rientrare a Roma. Il Congresso di Vienna, in seguito, ristabilirà gli Stati della Chiesa, che appariranno ben presto come un ostacolo al risveglio della nazione italiana.
Nel 1870 il crollo del Secondo Impero di Napoleone III priva il papa della protezione sulle ultime vestigia del potere temporale. Vittorio Emanuele II farà scomparire quel che resta degli Stati della Chiesa, nello stesso momento in cui il Concilio Vaticano I proclama il dogma dell’infallibilità del papa in materia di dottrina. Il papa che perde il suo ruolo di sovrano temporale conosce allo stesso tempo un rafforzamento senza precedenti della sua autorità spirituale. Pio IX non ha però rinunciato al suo statuto di capo di Stato e rifiuta le “Guarentigie” che gli propone il governo italiano, in quanto rinuncerebbe in tal modo alle sue pretese temporali. L’11 febbraio 1929, gli Accordi del Laterano, conclusi fra Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri restituiranno al papa il ruolo di capo di Stato, sulla Città del Vaticano.

Per saperne di più
G. M. Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, 2004
G. Pepe, Il Medioevo barbarico d’Italia, Einaudi, 1971
F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Laterza, 1969