JOSÉ MARTÍ, IL RIVOLUZIONARIO CHE NON AMAVA LE RIVOLUZIONI

di Carlo Federico Batà -

Scrittore, poeta e leader del movimento per l’indipendenza cubana, sognava un Paese emancipato dal controllo della Spagna ed estraneo all’influenza degli Stati Uniti.

(Da Storia in Network n. 75, gennaio 2003) L’Avana, venerdì 28 gennaio 1853. Al numero 41 di calle de Paula, vicino al porto della città, in una casetta gialla a due piani nasce José Martí, figlio di due spagnoli da poco arrivati a Cuba. L’isola, a differenza degli altri paesi dell’America Latina, era ancora sottoposta a un rigido controllo coloniale. Le guerre di indipendenza combattute pochi anni prima sotto la guida di Simón Bolívar, infatti, non avevano raggiunto le coste cubane, poiché l’aristocrazia terriera aveva temuto, con la liberazione degli schiavi, una rivolta nera, come quella, guidata dall’ex schiavo Toussaint-Louverture, che agli inizi del secolo aveva devastato la vicina Haiti, ribellatasi alla Francia napoleonica. Cuba, dove sporadiche e disorganizzate rivolte erano state sempre soppresse nel sangue, soffriva i mali tipici delle colonie: dispotismo e malgoverno, mancanza di diritti civili e politici, schiavitù. Alla metà dell’Ottocento, infatti, solo il cinquantasette per cento della popolazione era libero. Gli altri, in condizioni miserevoli, erano impiegati nelle piantagioni di zucchero, principale prodotto d’esportazione dell’isola.
L’infanzia Martí la trascorre tra Valencia, la città del padre, dove impara a leggere e scrivere, e L’Avana, dove completa la scuola media, con ottimi risultati e persino riconoscimenti pubblici. A tredici anni, contro l’espressa volontà del padre che voleva essere aiutato nel mantenimento della famiglia, entra nell’Istituto de La Habana, il miglior liceo della città, dove segue le lezioni di Rafael María de Mendive, che notando le qualità del ragazzo si impegna a pagarne gli studi. A Cuba c’era chi desiderava un’incorporazione alla Spagna come regione federata e chi, invece, valutando i vantaggi che l’economia statunitense avrebbe potuto irradiare, chiedeva apertamente un’annessione agli Stati Uniti d’America, appena usciti dalla guerra civile che aveva pesantemente messo in pericolo la loro unità. Mendive, invece, agli studenti spiega che l’unica soluzione efficace per l’isola è l’indipendenza e, quando nel 1868 scoppia una rivolta nelle regioni orientali, su una cartina appesa alla lavagna mostra i movimenti degli insorti. Martí, che non ha ancora compiuto sedici anni, reagisce in maniera entusiasta, stampando in casa di un amico un giornale in cui loda il coraggio di chi cerca di ridare dignità al vilipeso popolo cubano. Arrestato, condannato a sei anni di carcere e infine esiliato in Spagna, Martí arriva a Madrid, capitale del sempre più instabile impero, dove rimane quattro anni, laureandosi in Lettere e in Giurisprudenza. Riesce a far pubblicare anche due scritti, in cui espone la drammaticità della situazione a Cuba, chiedendo di applicarvi i principi di democrazia e libertà che stavano percorrendo l’Europa di quegli anni, dove si erano consolidati importanti realtà nazionali come la Germania e l’Italia.

José Martí

José Martí

Il desiderio di ricongiungersi con i propri cari lo induce alla fuga: prima Parigi, dove festeggia il Capodanno del 1875, poi Southampton, in Gran Bretagna, dove si imbarca su un bastimento carico di miseri emigranti diretto verso l’America. Dopo un breve scalo a New York, Martí raggiunge Città del Messico. Il paese era ancora provato dalla guerra del 1848, che aveva visto gli Stati Uniti impadronirsi di oltre metà del territorio nazionale messicano. Era ancora viva nella memoria, inoltre, la dura occupazione delle truppe di Napoleone III, conclusasi con la cacciata dello straniero e la fucilazione a Querétaro dell’Arciduca Massimiliano I d’Austria, il sovrano messo a governare il paese. In Messico Martí comprende che gli appetiti sul continente latino-americano non sono finiti con l’indipendenza: alla Spagna si vogliono sostituire la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che già del 1823 espressero con la Dottrina Monroe il divieto alle potenze europee di intromettersi nelle questioni e nei conflitti in America. Individua, quindi, in un modo un po’ ingenuo a dire il vero la necessità che il grande paese centroamericano costituisca un baluardo contro la vocazione di conquista che anima gli uomini politici statunitensi. E’ su un quaderno di appunti del 1875 che leggiamo: “Abbasso il cesarismo americano”. Pochi anni più tardi il termine utilizzato è “imperialismo”, prevedendo con largo anticipo l’evoluzione dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’America Latina.
Con la presa del potere di Porfirio Díaz, però, che lo manterrà per oltre trent’anni, Martí si rifugia in Guatemala, piccolo e debole paese agricolo. Trova lavoro nell’Università della capitale come docente di Letteratura francese e Storia della Filosofia. Qui comprende che, a causa della frammentarietà degli Stati dell’America Latina, l’unica soluzione per guarire definitivamente dai lasciti di quattro secoli di colonizzazione, “il veleno somministrato con pazienza dalla Spagna”, e per guardare con ottimismo al futuro è l’unione del continente, volontà espressa già cinquant’anni prima da Bolívar, che morì a Santa Marta, sulle coste della Colombia, solo, sconfitto e distrutto dalla delusione del fallimento del suo progetto.

La fine delle ostilità a Cuba, che duravano da dieci anni, e l’amnistia generale prevista dal trattato di pace permettono a Martí di ritornare in patria. Le autorità dell’Avana gli negano il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti in Spagna, obbligandolo ad arrangiarsi come può per mantenere la moglie Carmen, con cui si era sposato in Messico, e il figlio José Francisco. Dopo solo un anno è arrestato di nuovo per attività cospirative contro il regime coloniale: il 25 settembre 1879 troviamo il suo nome sulla lista dei passeggeri del vapore Alfonso XII che collega L’Avana a Santander, in Cantabria. A Cuba Martí ritornerà solamente dopo sedici anni. Il soggiorno spagnolo non dura nemmeno due mesi: il 3 gennaio 1880 il giovane e combattivo esule arriva a New York. Sbarca il lunario come critico d’arte e allaccia rapporti strettissimi con l’emigrazione cubana, partecipando come oratore ad alcune serate patriottiche. Dopo una breve permanenza in Venezuela, da dove è costretto a fuggire per aspri dissapori con il Presidente della repubblica, Martí ritorna negli Stati Uniti, considerati “il paese più libero del mondo” e rifugio per chi fuggiva da persecuzioni e povertà. La collaborazione con alcune testate giornalistiche latino-americane gli permette di organizzare iniziative per raccogliere fondi da destinare a Cuba e di dedicarsi all’attività poetica e letteraria: raccolte di poesie, un romanzo, una rivista mensile per bambini.
New York, definita una città miracolosa, è l’ideale punto di osservazione del mondo di fine Ottocento, che vide l’affermazione di una nuova potenza, gli Stati Uniti, che ormai controllavano un territorio di nove milioni di chilometri quadrati, dall’oceano Atlantico al Pacifico. Martí analizza la società statunitense: la libertà che si respira a pieni polmoni, la possibilità per chiunque di cullare sogni di gloria e benessere, il continuo movimento in un rincorrersi di uomini d’affari e intellettuali che trovano terreno fecondo per esprimere le proprie idee. E ancora descrizioni piene di ammirazione dell’inaugurazione del ponte di Brooklyn o della Statua della Libertà, donata alla città dalla Francia, parole di lode per un sistema elettorale che permette pari espressione al Presidente e allo scaricatore di merci. Con il passare del tempo, però, compaiono anche le ombre. Martí denuncia in modo particolare la discriminazione razziale, la conquista dei territori indiani e le condizioni dei lavoratori nelle industrie.

Gli afroamericani, discendenti degli schiavi importati con la forza dall’Africa a partire dall’inizio del diciassettesimo secolo, non godevano infatti di pieni diritti civili e politici, nonostante il quindicesimo Emendamento del 1870 sancisse che “il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato […] per ragioni di razza, colore o precedente condizione di schiavitù”. Erano gli anni in cui gli adepti del Ku Klux Klan si resero colpevoli di linciaggi e pesanti minacce contro la comunità nera, soprattutto negli Stati meridionali dove il nuovo ordine sociale non era stato accettato. “Gli uomini del sud”, scrive Martí, “credevano nella schiavitù come credevano in Dio” e non accettarono la violazione di consuetudini consolidate da parte di quelle stesse autorità che avevano combattuto sul campo di battaglia per quattro sanguinosi anni. Abraham Lincoln, che si oppose alla secessione sudista, comprese l’odio che animava gli spiriti nel sud del paese quando fu assassinato al Ford Theatre di Washington, cinque giorni dopo la fine delle ostilità. Era il 1865. Saputa la notizia Martí, dodicenne, portò per una settimana il lutto al braccio in onore dell’uomo che aveva ridato dignità e speranza agli afroamericani negli Stati Uniti. Venticinque anni più tardi, il suo giudizio, maturo e ragionato, è molto deciso: chi parla di razze, chi argomenta con la biologia la superiorità dell’uomo bianco, chi si scaglia con odio e rancore contro i neri, commette “un peccato contro l’umanità”.
I nativi americani, invece, che Martí chiama semplicemente “indios”, come tutte le altre popolazioni che abitavano il continente prima dell’arrivo delle tre caravelle di Cristoforo Colombo, sono sterminati per il semplice motivo di costituire un ostacolo al raggiungimento dei giacimenti auriferi in California e in Alaska.
Di grande popolarità godevano personaggi come Buffalo Bill, che si impegnarono in una guerra senza quartiere a decimare i bisonti, alimento base della dieta degli indiani, per riuscire così colonizzare le Grandi Pianure e invaderle con mandrie di bestiame marchiato a fuoco. Immensi capitali erano investiti nella corsa verso occidente, sfruttando in pieno la generosità della Provvidenza, così si diceva, che aveva riservato per il popolo statunitense un Destino Manifesto. Dal canto loro i nativi americani non potevano che opporre una sterile, anche se strenua, resistenza: quelli che sopravvissero alla fame, alle malattie e alla morte, furono rinchiusi nelle riserve.

Per quanto riguarda la nascente classe operaia, Martí esprime forti riserve verso la miseria cui sono abbandonati milioni di lavoratrici e lavoratori. In Messico, un po’ confusamente, aveva conosciuto il pensiero socialista, che si rifaceva più a Saint-Simon che a Marx, e aveva accolto le istanze di giustizia sociale che con ingenuità erano espresse. Negli Stati Uniti, invece, entra in contatto con le idee che gli immigrati portavano dall’Europa: oltre al socialismo anche le tendenze anarchiche, che erano state duramente contestate in seno alla prima Internazionale durante il Congresso dell’Aia del 1872. Martí rifiuta i metodi proposti per sovvertire l’ordine sociale e non condivide l’idea di lotta di classe, poiché “non esistono che due classi tra gli uomini, quella dei buoni e quella dei cattivi”. Inoltre per l’indipendenza di Cuba, che rimase sempre il suo obiettivo primario, era indispensabile l’unione di tutti i settori sociali, che dovevano considerarsi alleati, non nemici. Commentando la tesi di Herbert Spencer, in visita a New York nel 1882, secondo cui uno Stato socialista sarebbe stato uno Stato burocratico e tirannico, Martí afferma che bisogna però correggere i difetti di un sistema capitalista, spesso ingiusto e iniquo. I numerosi scioperi dimostravano la combattività dei lavoratori, che chiedevano la giornata lavorativa di otto ore e un minimo di previdenza sociale, soprattutto dopo le pesanti crisi economiche del 1873 e del 1884.
Il primo maggio 1886 a Chicago, una delle più importanti città industriali del paese e sede di una forte comunità anarchica, una manifestazione venne sciolta dalla polizia con la forza – morirono infatti sei operai. Due giorni dopo in Haymarket Square, durante un altro scontro di piazza tra le forze dell’ordine e i lavoratori, una bomba provocò la morte di otto poliziotti e il ferimento di sessanta persone. Otto anarchici, su spinta dell’opinione pubblica che chiedeva estremo rigore, vennero condannati alla pena capitale, pur sussistendo forti dubbi sulla loro colpevolezza. Martí condivide le rivendicazioni della classe operaia, ma non appoggia inconsideratamente la lotta portata avanti – “Ci sono scioperi ingiusti. Non è sufficiente essere infelice per avere ragione”, ricorda – e subito dopo i fatti di Chicago esprime un giudizio molto severo verso gli imputati. Dopo aver ascoltato le loro deposizioni, però, invita la corte alla clemenza poiché “non è nel ramo che si deve sconfiggere il crimine, bensì alla radice”. Bisogna dare un’abitazione, vestiti e cibo sufficiente a questa povera gente, così da non creare le condizioni per vendette e violenze incontrollate, bisogna provvedere alla ridistribuzione della ricchezza. Nella stessa strada convivono milionari, che vivono nello sfarzo di alberghi lussuosi e senzatetto, che dormono in cartoni. Riferendo delle tristi condizioni di molti bambini, che invece di andare a scuola lavoravano per quattordici ore nelle fabbriche, Martí esclama: “Che infamia senza nome…”. In un altro passaggio afferma: “Su nessuna tavola ci deve essere del pane mentre manchi su un’altra”.

A partire dal 1891 l’attenzione di Martí si concentra quasi esclusivamente sui rapporti tra gli Stati Uniti, l’America Latina e Cuba. Ai primi di gennaio si aprivano i battenti della Conferenza Monetaria Americana, in cui gli Stati Uniti cercarono di imporre l’adozione di una moneta unica, l’apertura di un’area di libero scambio e una tutela su tutto il continente sotto forma di prestiti e investimenti. L’invito rivolto da Martí ai delegati dei paesi latino-americani è quello di non comportarsi come marionette e di prendere decisioni che salvaguardino gli interessi nazionali: “I paesi dell’America Latina devono mettere i propri affari nelle mani del loro unico nemico?”, chiede a chi invece invitava ad accogliere le ricette formulate dagli organismi finanziari a Washington. Il suggerimento è di tutelare le specifiche realtà sociali di un continente ricco di risorse naturali e intellettuali, capace senza dubbio di intraprendere autonomamente uno sviluppo economico duraturo. Martí conia un termine, “Nuestra América”, che indica i paesi del continente che si estendono dal Río Bravo, al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, sino ai ghiacci della Terra del Fuoco. “Nuestra América” ha due terribili nemici: l’eredità di quattro secoli di dominio coloniale e l’ingerenza degli Stati Uniti che si manifesta sempre più di frequente. L’errata soluzione al primo problema dà vigore alla seconda minaccia: bisogna quindi accelerare un’unione continentale per rispondere alle sfide del mondo esterno. Il vero motivo di quest’ansia, spiega Martí, da parte degli uomini d’affari statunitensi è la ricerca di materie prime e di nuovi mercati per quei prodotti che restano invenduti. Non si deve credere alle edulcorate dichiarazioni ufficiali che esprimono il desiderio di esportare libertà e progresso: bisogna diffidare di “un paese che guarda come proprio privilegio alla libertà, che è aspirazione universale e perenne dell’uomo, e che la invoca per toglierla agli altri paesi”. Il 29 dicembre 1890 a Wounded Knee, nel Sud Dakota, le truppe federali massacrarono trecento Sioux, soffocando nel sangue l’ultima rivolta indiana: la conquista del Far West era terminata, mentre migliaia di pionieri e mandriani invadevano le Grandi Pianure e i territori oltre le Montagne Rocciose. L’oceano era stato raggiunto e il successivo obiettivo, avverte Martí, sarebbe stato il Golfo del Messico e le Antille, in primo luogo Cuba.
L’isola usciva da un decennio di relativa calma, dopo la guerra terminata nel 1878. L’autorità politica, pur con molta difficoltà, rimase nelle mani della corona borbonica, ma l’economia era sempre più attratta nell’orbita statunitense: oltre l’ottantacinque per cento dello zucchero prodotto a Cuba era sbarcato nei porti in Louisiana e in Florida, dove si raccoglieva la diaspora cubana. Martí si reca in Florida per la prima volta nel novembre 1891 ed è accolto con calore e affetto a Tampa e a Key West. In due importanti discorsi espone la finalità della futura repubblica di Cuba, rifacendosi alle precedenti sollevazioni anticoloniali, fallite per disorganizzazione e miopi rivalità, si invoca lo sforzo comune per dare dignità e onore a un paese calpestato per secoli. Martí fonda il Partido revolucionario cubano che deve svolgere la funzione di ricettore di tutte le istanze avanzate dai cubani all’esterno e all’interno dell’isola. Sul primo numero di Patria, organo del partito, si annuncia che è obbligo morale astenersi da violenze insensate contro gli spagnoli. Il nemico è la Spagna, il dominio coloniale autoritario che soffoca le richieste e i diritti dei cittadini cubani. La soluzione proposta, visto il fallimento di mediazioni e appelli pacifici è una rivoluzione: “E’ criminale chi promuove in un paese una guerra che si può evitare, ma anche chi non promuove una guerra inevitabile”. Inevitabile, perché perdere tempo significherebbe consentire agli Stati Uniti un facile colpo di mano: “Cuba deve essere libera. Dalla Spagna e dagli Stati Uniti”, scrive sul quaderno di appunti che porta sempre con sé. Era dai tempi di Thomas Jefferson che alla Casa Bianca si guardava a Cuba come necessario avamposto strategico, ricco per di più di terreni molto fertili. La Spagna rifiutò sdegnata ogni proposta di cessione e riuscì a mantenere il controllo dell’isola. I rapporti di forza, però, stavano cambiando e le pressioni statunitensi si facevano ogni giorno più asfissianti: Martí indica l’esistenza di un “piano tenebroso, lo spingere l’isola verso un conflitto, per avere un pretesto per intervenire nella contesa”. In un altro passaggio profetizza: “Forse il nostro destino sarà che un vicino abile ci lasci dissanguare ai suoi confini per mettere poi su ciò che rimarrà per concimare la terra le sue mani ostili ed egoiste”.

La morte di José Martí in dipinto di Esteban Valderrama (1917)

La morte di José Martí in dipinto di Esteban Valderrama (1917)

Nella primavera del 1893 Martí abbandona per pochi mesi gli Stati Uniti per riallacciare i contatti con due veterani della guerra dei dieci anni. Nella Repubblica Dominicana incontra il dominicano Máximo Gómez, con il quale sorgono divergenze sulle priorità belliche – Martí rifugge sempre dall’idea di conferire troppa importanza all’aspetto militare, insistendo sulla necessità di porre con la guerre solamente le basi per una nuova società. In Costarica, dove raccoglie armi e denaro, il cubano Antonio Maceo lo invita calorosamente ad accelerare i preparativi. Il 24 febbraio 1895, su ordine del Partido revolucionario, scoppia un’insurrezione simultanea in quattro province orientali di Cuba. Martí raggiunge Gómez e a Montecristi scrivono un manifesto programmatico della rivoluzione: l’indipendenza di Cuba è auspicata per “il bene dell’America”, con la nascita di un nuovo Stato che allaccerebbe rapporti sia con gli Stati Uniti, sia con i paesi latino-americani. Il fine è di garantire a tutti i cubani – inclusi gli schiavi da poco liberati con il Real Decreto del 1886 ma che erano ancora discriminati – pari diritti, in una Repubblica nata dallo sforzo comune di ogni ceto sociale. Dopo sedici anni di assenza, Martí tocca il suolo cubano l’11 aprile, quando una goletta sopravvissuta a un tremendo temporale lo lascia, insieme con Gómez e altri quattro uomini, a Playita de Cajobabo, nella zona sudorientale dell’isola.
Dalla Spagna arrivano immediatamente settemila uomini, armati di moderni fucili Remington, ma l’umido clima tropicale e la febbre gialla che falcidia le truppe spagnole, rendono difficile sedare la rivolta.
Il 19 maggio, in località Boca de Dos Ríos, Martí trova la morte in uno scontro a fuoco con una colonna nemica. Il giorno precedente aveva inconsapevolmente redatto il suo testamento politico, esponendo con estremo candore il motivo per aver scelto di consacrare la vita alla lotta di liberazione nazionale. La rivoluzione si è resa necessaria per “impedire per tempo con l’indipendenza di Cuba che gli Stati Uniti si estendano sulle Antille”. Il motivo di tale avversione è facilmente spiegato: “Ho vissuto nel mostro e ne conosco le viscere”. Dopo quindici anni il giudizio di Martí è profondamente cambiato e “il paese più libero del mondo” è diventato una minaccia per gli altri Stati, soprattutto in America Latina, è diventato un “mostro”.
Cinque anni prima aveva composto alcuni versi premonitori:
“Io desidero uscire dal mondo
per la porta naturale:
su un carro di foglie verdi
a morire mi dovete portare.
Non mi mettete al buio
A morire come un traditore:
io sono buono e da buono
morirò con lo sguardo rivolto al sole”.

Per saperne di più:
José Martí. Il Maestro delle due Americhe,
di Carlo Batà – Edizioni Achab, Verona 2002
Cuba defendida, di Roberto Fernández Retamar – Sperling & Kupfer Editori, Milano 2001
Guantanamera. Le più belle poesie cubane - Zelig Editore, Milano 1996
José Martí. Cuba, Usa, America Latina, a cura di Marco Massoli e Antonio Melis – La Nuova Italia, Firenze 1972
José Martí. Antologia di testi e antologia critica, a cura di Cintio Vitier – Edizioni di Ideologie, Roma 1974
José Martí e il sogno panamericano, scritti di Cintio Vitier e Roberto Fernández Retamar – Erre Emme, Roma 1995