IRAN, TRA SUPERIORITÀ E SINDROME DA ACCERCHIAMENTO

di Max Trimurti -

L’Iran è uno dei pochi paesi del medio Oriente sfuggito al colonialismo occidentale. Da ciò un sentimento di fierezza che talvolta sfocia in un complesso di superiorità rispetto ai paesi arabi. Ma anche in una sindrome da accerchiamento: da parte britannica e russa ieri, americana, israeliana e saudita oggi.

Le relazioni dell’Iran con i paesi vicini, ben lungi dal riassumersi – come lascerebbe pensare il discorso geopolitico dominante – in un antagonismo irano-arabo o sciito-sunnita, affondano le radici in un lungo periodo della storia fatto di contrapposizioni ma anche di cooperazione. Elementi questi che spiegano il carattere complesso e spesso ambiguo di questi rapporti.

Gli Arabi sono il nemico ereditario?

A differenza dell’Arabia Saudita, presentata oggi come un grande rivale – ma che in effetti è un paese giovane, con meno di un secolo di esistenza, e soli 30 milioni di abitanti, la cui fedeltà alla famiglia regnante pone qualche interrogativo -, l’Iran possiede una storia millenaria, condivisa da una popolazione di più di 80 milioni di cittadini. Cittadini la cui grande diversità etnica (il 90% degli Iraniani capisce la lingua persiana, che tuttavia rappresenta la lingua madre di appena la metà della popolazione) non impedisce la coesione, così come dimostrato dalla mobilitazione nazionale senza defezioni per la guerra Iran-Iraq.
Questo è il motivo per cui l’atteggiamento prevalente degli Iraniani nei confronti dei Sauditi, e degli Arabi in generale, mostra più frequentemente altera indulgenza che ostilità. Le radici storiche di cui si vantano gli Iraniani, che amano presentarsi come discendenti del “più vecchio stato del mondo”, li autorizza in effetti a guardare dall’alto in basso i nuovi arrivati. A tale riguardo è sintomatica l’ostinazione degli Iraniani a considerare il Golfo come “Persico”, un modo per affermare che oggi come ieri sulla sua riva occidentale di quel mare non c’è quasi nulla di significativo.
L’opposizione arabo-persiana, lungi dall’essere uno scontro secolare fra “eguali”, è in primo luogo uno scontro fra ego, che oppone due insiemi di civiltà imbevute di grande autostima, ma con un vissuto storico completamente diverso.
Gli Arabi musulmani hanno invaso l’impero sassanide nel VII secolo, ma tutte le fonti indicano che essi sono stati ben accolti dalle popolazioni locali, stanche di guerre fra cristiani e zoroastriani. Questo fatto spiega perché gli Iraniani abbiano massicciamente e precocemente adottato la religione musulmana portata dai conquistatori arabi. Per contro, forti di un’eredità già antica, essi hanno opposto un ferma resistenza a tutti i tentativi di arabizzazione.
Per il resto, l’Iran non è stato mai in conflitto con una potenza araba fino al XX secolo, per la semplice ragione che non ne sono mai esistite ai suoi confini. È piuttosto con i Turchi, i Mongoli, i Russi e i Britannici che gli Iraniani hanno avuto problemi, cioè con le stesse potenze che hanno dovuto affrontare anche i popoli arabi. In ogni caso, Arabi e Persiani, lungi dall’aver rappresentato due campi nettamente opposti, hanno dovuto far fronte nel corso della storia a minacce similari, che hanno determinato spesso una solidarietà di fatto. Ancora nel periodo più acuto della guerra fredda, nel XX secolo, Teheran e Riyad hanno rappresentato due fra i più saldi alleati di Washington nella regione. La loro unica rivalità consisteva nel stabilire chi fosse il migliore “gendarme del Golfo” agli occhi dello zio Sam.
Sui tempi lunghi l’identità iraniana non si è fondata sull’opposizione agli Arabi, che nella pratica non hanno mai costituito una vera minaccia, ma piuttosto nel rapporto con i Turchi e i Mongoli, decisamente più pericolosi. In definitiva, più che nell’antagonismo, l’identità iraniana sembra derivare da una forma di solipsismo di fronte alla propria storia e alla propria memoria, cosciente della sua eccezionalità. Se proprio vogliamo individuare un momento preciso in cui nasce l’antagonismo fra Iraniani ed Arabi, questo risale al califfato di Bagdad, quando l’amministrazione del califfato e l’intellighenzia erano quasi completamente nelle mani dei persiani. Tale rivalità si concretizza con l’impero Safavide, quando proprio per distinguersi dagli Arabi (da loro sprezzantemente definiti “mangiatori di lucertole”) gli Iraniani sceglieranno l’islam sciita per differenziarsi da quello sunnita degli Arabi e dei Turchi.

La svolta del 1979

L'arrivo di Khomeini in Iran, 1979

L’arrivo di Khomeini in Iran, 1979

Questo substrato si è evoluto a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo, quando la rivoluzione islamica [1] ha profondamente rimodellato in senso ideologico-teologico l’identità politica dell’Iran. La rivoluzione khomeinista, condotta in nome della lotta al dispotismo dello Shah, ha suscitato timori in numerosi paesi vicini, sia laici (l’Iraq di Saddam Hussein) sia islamisti (l’Arabia Saudita dei Saud). Del resto l’ayatollah Khomeyni non aveva mai fatto mistero della sua volontà di esportare la rivoluzione in tutta l’area.
In definitiva, la ragione per cui la Repubblica islamica, a partire dal 1979, ha suscitato e continua a suscitare l’inquietudine di molte potenze arabe e occidentali, non è tanto per il suo orientamento “islamico” (questo aspetto non spaventa i Sauditi e gli altri Arabi) ma per il carattere “repubblicano” e “rivoluzionario”, percepiti come un pericolosa fonte di ispirazione per gli oppositori interni. A tale riguardo, appare interessante sottolineare che “l’arco sciita” è anche e soprattutto un “arco repubblicano” e “progressista”, costituito da Iran, Iraq, Siria e Libano, alle prese con l’ostilità di un “crescente sunnita” che è sostanzialmente un “crescente monarchico” e “tradizionalista”, fatta eccezione per la Turchia e l’Egitto, paesi in ogni caso interessati da una ripresa autocratica che tende a trasformarle in “monarchie repubblicane”.
Già negli anni ’80 le petromonarchie del Golfo avevano finanziato la guerra di Saddam contro l’Iran non tanto per contenere un ipotetico espansionismo sciita – per il quale ci si domanda su quali masse popolari avrebbe potuto appoggiarsi, in un’area come il Medio Oriente dove i Sunniti sono ultra maggioritari – ma per azzerare sul nascere una possibile ondata rivoluzionaria terzomondista, la cui minaccia era considerevolmente molto più concreta. I due blocchi che si affrontano ancora nel Medio Oriente non sono tanto caratterizzati da divergenze confessionali (che pure esistono e costituiscono per i Sunniti una lotta contro l’eresia), quanto da disaccordi di natura politica (rivoluzionari islamici contro conservatori).
Questo fatto spiega la recente messa al bando del Qatar da parte delle potenze sunnite [1], col pretesto del mantenimento di relazioni troppo cordiali con il suo vicino iraniano. La divisione è dunque in primis politica, più che religiosa. Teheran fa ufficialmente attenzione a non vilipendere il sunnismo e gli Arabi, ma critica, genericamente, il dispotismo e l’imperialismo. Se le potenze sunnite, per contro, non si stancano di ribattere e criticare “l’espansionismo sciita” è proprio perché esse hanno tutto l’interesse, a differenza degli Iraniani, di spostare il dibattito sul terreno religioso, a loro decisamente più favorevole.

La sindrome del “deserto dei Tartari” o da “cittadella assediata”

Se l’Iran guarda con disdegno le petromonarchie del Golfo per la loro inconsistenza storica, queste ultime guardano il loro avversario con disprezzo per il fatto di seguire una concezione dell’islam considerata deviata ed eretica. Da qui, il sentimento di accerchiamento che caratterizza la psicologia iraniana. Doppiamente minoritari per lingua e religione in un Medio Oriente in larga maggioranza arabo e sunnita, gli Iraniani hanno sviluppato una diffidenza istintiva nei confronti dei loro vicini, che, a volte, rasenta la paranoia.
Per premunirsi da aggressioni provenienti da questo ambiente regionale percepito come ostile, la repubblica islamica ha sviluppato una strategia che consiste nel proiettare la sua influenza fuori dalle frontiere. Tale strategia è passata inizialmente, in ossequio alla logica dell’esportazione della rivoluzione cara a Khomeyni, attraverso un lavoro di seduzione sulle masse arabe “derelitte” o meno fortunate, allo scopo di tagliare le dirigenze arabe dalla loro base. In tale contesto, Khomeyni ha acconto in gran pompa a Teheran, nel 1979, Yasser Arafat, in occasione della trasformazione dell’ambasciata americana in quella palestinese. Tre anni più tardi, l’Iran concorre alla fondazione degli Hezbollah libanesi che diventeranno ben presto, la punta di lancia della resistenza araba a Israele, facendo guadagnare ai suoi capi una popolarità senza pari nel mondo arabo nonostante la loro obbedienza sciita.
In questi ultimi anni le rivalità fra sciiti e sunniti sono state ravvivate dalla crisi irachena e siriana. Teheran ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni egemoniche sulla popolazione araba e ha adottato una strategia di ripiegamento consistente a federare intorno all’Iran tutto quello che è minoranza nella regione e che risulta sotto la minaccia, reale o ipotetica, dell’egemonia sunnita. Sciiti del sud Libano, Hazaras afghani, Zayditi dello Yemen, Ibaditi dell’Oman, Alawiti e Drusi della Siria costituiscono oggi questa eterogenea costellazione. Ciò che unisce realmente queste entità è una comunanza di destini piuttosto che una comunione di fedi. L’Iran adotta in tal modo, su scala regionale, la stessa strategia già applicata su scala nazionale, in Siria, dal suo protetto Bashar el Assad: coalizzare tutti i gruppi minoritari, ponendosi come garante della loro sicurezza e della loro sopravvivenza.

Un antisionismo compulsivo

flagIn questo contesto, l’ostilità dell’Iran nei confronti di Israele, di cui offre periodicamente testimonianza, potrebbe apparire sorprendente. Questo perché lo stato sionista non costituisce in alcun modo una minaccia per l’Iran, con il quale condivide numerosi tratti comune che dovrebbero spingere a un avvicinamento. Come l’Iran, Israele si rifà a una vecchia civiltà e considera il mondo arabo con una certa sufficienza. Come l’Iran, Israele ha tutto l’interesse a cercare alleati fra le popolazioni non arabe della regione. Questo stato di cose non riesce a spiegare la freddezza delle relazioni che intercorrono oggi fra i due paesi. Fino alla rivoluzione islamica Tel Aviv e Teheran hanno mantenuto buone relazioni, sulla base di una strategia comune consistente nell’annodare legami fra le tre grandi potenze non arabe della regione (Israele, Iran, Turchia) per opporsi al nazionalismo arabo.
Le relazioni Iran-Israele pagano ancora oggi il prezzo della rivoluzione del 1979. Poiché l’odiato Shah era stato amico degli Stati Uniti e di Israele, i rivoluzionari, per meglio marcare le loro differenze, hanno preso le distanze da Washington e da Tel Aviv. Più in generale, l’antisionismo iraniano ha rappresentato un utile strumento nella strategia di sovversione delle popolazioni arabe intrapreso da Teheran. Esso costituisce anche uno strumento di mobilitazione a uso interno, una sorta di surrogato della lotta anticolonialista utilizzato per galvanizzare, cementare e ottenere il consenso della popolazione.
Infine e più in concreto, l’opposizione compulsiva e “a priori” nei confronti di Israele evidenzia anche la difficoltà dell’Iran a stabilire relazioni di cooperazione e di alleanza a causa dell’immanente timore di un dominio straniero. Dal punto di vista di Teheran, meglio essere soli che assumere il rischio di cadere sotto la guida di un alleato ingombrante.

Note
[1] La rivoluzione islamica iraniana fu una serie di sconvolgimenti politici e sociali, avvenuti nel periodo 1978-1979, che trasformò la monarchia del paese in una repubblica islamica sciita, la cui costituzione si ispira alla legge coranica (shari’a).
[2] Il 5 giugno 2017 l’Arabia saudita rompe brutalmente le relazioni con il Qatar, trascinando con sé diversi altri paesi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto…) e sottopone il paese a un rigido blocco. Il Qatar viene accusato di finanziare e di sostenere il terrorismo. Esso è inoltre sospettato di mantenere relazioni discrete con l’Iran, anche se tali relazioni non sono la sola causa della reazione saudita. La cosa viene da molto lontano, in quanto già dagli anni 1920 i Sauditi hanno cercato di annettersi la piccola penisola, messa fortemente sotto pressione a partire dal 2014. L’oggetto del contendere è anche l’appoggio che i Qatarini forniscono ai Fratelli Mussulmani e alla loro portavoce, l’emittente Al Jazeera, e l’atteggiamento nettamente anti saudita del sultano Hamad al Thani, che ha massicciamente appoggiato il Presidente Morsi in Egitto. L’America è intervenuta nella questione e nel luglio 2017 il Qatar ha firmato un accordo sulla lotta al terrorismo con gli Stati Uniti, impegnandosi a esercitare una stretta sorveglianza sui circuiti dei finanziamenti. In questo modo il Qatar, pur costretto a cedere su diversi punti, ha effettuato un nuovo passo in avanti, garantendosi, per il momento, dalla concupiscenza saudita.

 

Per saperne di più
Abrahamian Ervand, Storia dell’Iran dal primo Novecento ad oggi, Feltrinelli Editore, 2013.
Al Uthaymin, Pellitteri A., Storia dell’Arabia Saudita, Sellerio Editore, 2001.
Al Rashid Madawi, Storia dell’Arabia Saudita, Bompiani Editore, 2004.
Axworthy Michael, Breve storia dell’Iran. Dalle origini ai nostri giorni, Einaudi Editore, 2010.
Colosimo Jean François, Il paradosso persiano. Dove va l’Iran?, Jaca Book Editore, 2010.
Menoret Pascal, Sull’orlo del Vulcano. Il caso Arabia Saudita, Feltrinelli Editore, 2004.
Sabahi S. Farian, Storia dell’Iran, Bruno Mondadori Editore, 2009.
Zanconato Alberto, L’Iran oltre l’Iran, Castelvecchi Editore, 2016.