In libreria: Prezzolini, rivoluzionario controcorrente

prezzolini_coverSe si volesse individuare il precursore del cosiddetto “politicamente scorretto” sarebbe obbligatorio risalire a Giuseppe Prezzolini. Non soltanto tenendo presenti le sue opere, ma soprattutto la sua vita. Con l’infaticabile ricerca su se stesso e in mezzo agli altri, senza mai estraniarsi da eventi che sono stati epocali e avvicinando figure che hanno “costruito” il Novecento, Prezzolini ha realizzato l’ideale dell’uomo e dell’intellettuale controcorrente nel fiume di una modernità che nella verde età gli appariva come un compromes­so nauseante tra retoriche post-rinascimentali e aneliti scomposti di superamento delle manie piccolo-borghesi; mentre nell’età matura gli si palesava nelle forme della composizione perfetta del disfacimento, non sol­tanto nazionale, dovuto alla corruzione del carattere dei popoli.
A suo modo, dunque, Prezzolini è stato un “rivoluzionario” ante litteram, obbligato dalla sua natura a dire sempre ciò che pensava, rischiando l’insuccesso, ma destando comunque ammirazione anche in chi lo avversava. Era poco più d’un ragazzo nel 1917 quando pubblicò nella “Rivista di Milano” quel Codice della vita italiana, rivisitato e “limato” più volte, nel quale, all’articolo 38 leggiamo, non senza sorpresa nel considerare che aveva capito tutto, e con largo anticipo, del suo Paese: «In Italia nove decimi delle relazioni sociali e politiche non sono regolate da leggi, contratti e parole date. Si fondano invece sopra accomodamenti pratici ai quali si arriva mediante qualche discorso vago, una strizzatina d’occhio e il tacito lasciar fare fino a un certo punto. Questo genere di relazioni si chiama compromesso. Non ci sono mai situazioni nette: tra marito e moglie, tra compratore e venditore, tra Governo e opposizione, tra ladri e pubblica sicurezza, tra Quirinale e Vaticano».
Non è cambiato molto in cento anni. E la “scorrettezza” politica di Prezzolini, oltre che intellettuale naturalmente, risulta attualissima tanto da farne un paradigma dell’anticonformismo semmai questa attitudine fosse ancora diffusa. Purtroppo, come constatiamo, e come Prezzolini stesso prevedeva, si è affermata la moda della compiacenza, evoluzione dell’antico servilismo contro il quale nel Codice citato cogliamo i segni di una rivolta che sarebbe divenuta la trama del suo pensiero nel corso della sua intensa e lunga esistenza, non esente da asprezze giustificatissime nei confronti dell’Italia sempre amata, eppure paradossalmente detestata, al punto da abbandonarla per “rifugiarsi” prima in Francia e negli Stati Uniti e poi in Svizzera da dove tornava, soltanto per qualche ora, ogni settimana per comprare la verdura al primo banchetto subito dopo il confine.
Eppure lui stesso s’identificava, in una certa misura, con gli italiani che radiografava impietosamente. Nel Codice leggiamo: «L’Italia non è democratica, né aristocratica. È anarchica». Come dargli torto? E dicendo che «tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene», forse non rappresenta se stesso, anarchico e conservatore al tempo stesso (e non è un ossimoro) perché «contro l’arbitrio che viene dall’alto, non si è trovato altro rimedio che la disobbedienza che viene dal basso?».
Eccolo il più “politicamente scorretto” degli apoti (il termine fu coniato nel 1922 ed usato in articolo sulla Rivoluzione liberale di Piero Gobetti), come definì se stesso e coloro che ne seguivano gli orientamenti, rappresentato da Luigi Iannone in questo libro che non è una biografia, un ritratto, un commento al suo pensiero, o forse è tutto questo, ma soprattutto è un piccolo manuale di sopravvivenza mutuato da Prezzolini stesso che può indirizzare ancora menti libere abbastanza da riconoscersi in un anarchismo pratico assumendo la logica conservatrice come estrema reazione al “pensiero unico”. (…).
Anarchico e conservatore, dunque, piaccia o meno, è stato Prezzolini, ma anche “testimone scomodo” del nostro Novecento, quale lo ha rappresentato Solinas, poiché il secolo, lungo o breve che lo si voglia considerare, l’ha attraversato sezionandolo e, nel contempo, ha contribuito a formarlo. Con tutta evidenza non è riuscito nell’intento di fare dell’Italia un Paese vitale, moderno e legato alle sue tradizioni: se i suoi orientamenti avessero influenzato nel profondo i costumi e la politica, probabilmente noi oggi parleremmo un’altra lingua, non saremmo stati turlupinati dai demagoghi che ce l’hanno data a bere, non avremmo subito l’oppressione dei mediocri e dei voltagabbana, per sfuggire ai quali, nel 1925 Prezzolini decise di mettere tra lui e l’Italia l’Oceano, dopo un breve soggiorno nella capitale francese.
E l’Italia non gliela perdonò. L’Italia ufficiale, naturalmente, l’Italia dei partiti post-fascisti, resistenziali e democratici i quali, com’è noto, soggiacevano alla cultura comunista e azionista, e ne erano subal­terni quando non schiavi. L’Italia che addirittura lo rimosse, lo rinnegò, lo esiliò fino a quando un presi­dente della Repubblica, non lo invitò nel giorno del suo centesimo compleanno al Quirinale per conferirgli il massimo riconoscimento letterario: la Penna d’oro. In quell’occasione, Sandro Pertini, mise da parte i suoi pregiudizi e riconobbe al suo quasi coetaneo le virtù intellettuali che l’Italia degli intellettuali asservita all’establishment cattocomunista gli negava. (…). La Voce resta il capolavoro di Prezzolini; una palestra di libertà intellettuale come non se ne sarebbe vista un’altra. Essa nasceva perché il promotore e i suoi collaboratori, a cominciare da Papini, «sentivano fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia e il rivoltante traffico che si fa per le cose dello spirito». (…). Nonostante la nuova vita, Prezzolini non riuscì a scrollarsi di dosso quello scetticismo che lo portava a diffidare della possibilità che il Paese si rimettesse in cammino, per come immaginava che dovesse accadere quando era molto giovane e pieno di speranze.
Avvilito, ma non rassegnato il vecchio scrittore, rimasto solo dopo la fine degli Ansaldo e dei Longanesi, dei Missiroli e dei Soffici, di Papini soprattutto, ha tuttavia la forza di prospettare il suo conservatorismo come àncora di salvezza. Lo fa dalla Svizzera dove era “riparato” per sottrarsi a quella Italia che non poteva amare, con due libri: il ricordato Manifesto dei conservatori e Intervista sulla Destra curato da Claudio Quarantotto. Strumenti appuntiti, utili e intelligenti che i cosiddetti moderati degli anni Settanta non seppero usare. E la Destra, quella sua Destra “impossibile” continuò a non esserci. (dalla prefazione di Gennaro Malgieri)
Luigi Iannone, Giuseppe Prezzolini, una voce contro il pensiero unico – Historica, Cesena 2018, euro 18,00

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Filippo Boni, Gli eroi di via Fani – Longanesi, Milano 2018, pp. 304
Il 16 marzo 1978, in via Fani, a Roma, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro e uccisero i cinque uomini della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti. Per decenni le attenzioni di storici e giornalisti si sono incentrate sulle figure dei terroristi, a cui sono stati dedicati articoli, libri, dibattiti e interviste, mentre le vittime venivano trascurate se non del tutto dimenticate.
Lo storico Filippo Boni ha sentito il bisogno personale e civile di ricostruire le vite spezzate di questi cinque servitori dello Stato e per farlo è andato nei luoghi in cui vivevano, a parlare con le persone che li avevano amati e conosciuti: genitori, figli, fratelli, e fidanzate a cui il terrorismo ha impedito di sposare l’uomo che amavano.
In questo libro, Boni ha raccolto le toccanti storie di vite umili ma piene di sogni e di affetti, restituendo così verità e memoria a quei corpi prima trucidati e poi dimenticati e al tempo stesso componendo uno straordinario affresco di un’Italia semplice e vera, che resistendo alle atrocità della storia si ostina a guardare al futuro.

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68 – il Mulino, Bologna 2018, pp. 132, euro 12,00
L’eredità di quanto si manifestò nel ’68 non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. È davvero nella ripresa di quel grido, profetico al di là di quel che allora si percepiva: questo non è che l’inizio.
Il sistema scolastico, il lavoro, la cultura capitalista, la Chiesa, il ruolo della donna, la politica: come movimento di massa il Sessantotto intercettò i problemi innescati da un mondo che stava cambiando, e con la sua forte carica contestataria mise in discussione ogni singolo ambito della vita sociale. Se le risposte che diede furono spesso velleitarie o sbagliate, esso tuttavia registrò e accompagnò quella transizione di civiltà di dimensioni epocali che si sarebbe manifestata appieno più tardi e che oggi ci sfida prepotentemente.

Michele Donno, Storia dei socialisti democratici italiani. Dalla scissione di Palazzo Barberini alla riunificazione con il PSI 1945-1968 – Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 780, euro 40,00
«La storia ha dato loro ragione», si potrebbe affermare, leggendo i due volumi di Michele Donno, dedicati alla vicenda politica dei Socialisti democratici italiani nel primo ventennio di costruzione della Repubblica, Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952) e I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra. Dall’incontro di Pralognan alla riunificazione con il PSI (1956-1968), pubblicati rispettivamente nel 2009 e nel 2014 ed ora riuniti in questo cofanetto. Ed infatti, i motivi allora al centro della visione di Giuseppe Saragat e dei socialisti democratici (europeismo e atlantismo, riformismo socialista e alleanza con i cattolici, americanismo e anticomunismo, economia sociale di mercato per la tutela delle fasce meno abbienti, sostegno ai ceti medi, unità e autonomia dei socialisti), a lungo negletti e criticati dalle maggiori forze politiche, soprattutto di sinistra, hanno mostrato nel tempo validità e fondatezza, a tal punto che oggi si possono riproporre come tematiche centrali nella discussione politica in Italia e per un rinnovamento radicale della visione culturale della sinistra, in crisi di identità e alla ricerca di radici.

Clotilde Bertoni, Romanzo di uno scandalo. La Banca Romana tra finzione e realtà – il Mulino, Bologna 2018, pp. 384
Scoppiato alla fine del 1892, il caso politico-finanziario della Banca Romana resta uno dei più memorabili scandali istituzionali di tutti i tempi. Portò a galla le magagne di un’intera classe dirigente, minacciò di travolgere personaggi del calibro di Crispi e Giolitti, culminò in un processo oscillante tra il melodramma e la farsa, concluso da un verdetto surreale. D’altra parte, fu denunciato da una minoranza parlamentare agguerrita, mobilitò l’opinione pubblica, mise in luce non solo le debolezze ma anche le risorse della democrazia rappresentativa. Zeppo di figure pittoresche, coincidenze spiazzanti e misteri irrisolti, attirò l’interesse sia di autori come Zola e Pirandello sia di scrittori e giornalisti ormai dimenticati, alimentando una consistente ed eterogenea produzione narrativa. Questo libro inquadra il contesto europeo in cui la vicenda si situa, ne ricostruisce il corso attingendo a fonti d’epoca, e propone un’analisi delle principali opere a essa ispirate, da quelle contigue ai fatti fino ad alcune rievocazioni dei giorni nostri.

Antonio Musarra, 1284 La battaglia della Meloria – Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 256, euro 20,00
Il 6 agosto del 1284 è la festa di San Sisto: un giorno solitamente fausto per Pisa. Quel giorno, al largo di Livorno, nei pressi delle secche della Meloria, Genovesi e Pisani si affrontarono in una delle più grandi battaglie navali del Medioevo. La causa immediata è la contesa per il controllo della Corsica. In realtà, al centro v’è soprattutto il tentativo di affermare la propria supremazia su tutto il Tirreno al fine di salvaguardare le rotte per la Sicilia, l’Africa settentrionale e il Levante mediterraneo. In effetti, le due città giunsero allo scontro al culmine di una serie di rivolgimenti – dalla caduta dell’Impero Latino di Costantinopoli all’ascesa della potenza angioina, allo scoppio della guerra del Vespro – che mettevano in discussione gli equilibri raggiunti a fatica. La ricostruzione del volto di questa battaglia e della sua lunga preparazione consente di riportare alla luce, oltre alla brutalità del combattimento sul mare, il profilo di un Medioevo diverso: quello marittimo e navale, dove gli orizzonti improvvisamente si allargano e dove piccole città si rendono protagoniste di rivoluzioni – da quella commerciale a quella nautica, a quella finanziaria – capaci di mutare il corso della storia.

Dario Antiseri, Karl Popper, la ragione nella politica – Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 64, euro 10,00
«Dovremmo tentare di occuparci di politica – afferma Popper – al di fuori della polarizzazione sinistra-destra». Ma, allora, che fare? «È un fatto, neppure molto strano – fa egli presente –, che non è particolarmente difficile mettersi d’accordo in una discussione sui mali più intollerabili della società e sulle riforme sociali più urgenti. Un tale accordo si può raggiungere molto più facilmente che non su particolari forme ideali di vita sociale. Quei mali, infatti, ci stanno di fronte qui ed ora. Si può averne esperienza, e li esperimentano ogni giorno molte persone immiserite e umiliate dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle persecuzioni, dalla guerra e dalle malattie […]. Possiamo imparare dando ascolto alle esigenze concrete, cercando pazientemente di valutarle nel modo più imparziale e considerando i modi per soddisfarle senza creare mali peggiori». Di conseguenza: «Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto ad eliminare le miserie concrete. O, in termini più pratici, lotta per l’eliminazione della povertà con mezzi diretti, assicurando che ciascuno abbia un reddito minimo. Oppure lotta contro le epidemie e le malattie erigendo ospedali e scuole di medicina. Combatti l’ignoranza al pari della criminalità […]. Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui ed ora». Introdurre “ragione” e “ragionevolezza” nella teoria e nella pratica della politica: in questo è consistito l’impegno di Popper – impegno raramente compreso, e da più parti, come anche dimostra la recezione del suo pensiero in Italia: tra marxisti ostili, crociani diffidenti e cattolici indifferenti.

Pietro Li Causi, Gli animali nel mondo antico – il Mulino, Bologna 2018, pp. 272, euro 20,00
Che posto occupavano gli animali nell’antichità? Come noi oggi, anche i Greci e i Romani avevano a che fare con cani, cavalli, galline; avevano allevamenti, vivari, acquari, e adottavano pratiche zootecniche. Amavano i loro animali da affezione, mentre ne uccidevano altri e li mangiavano (magari dopo averli sacrificati in onore di una divinità). Conoscevano e usavano animali selvatici o feroci, o esotici come elefanti e pappagalli. Non mancavano, nel loro immaginario, creature aliene che si credeva popolassero paesi lontani, come l’India e l’Etiopia, patrie dei manticora, dei cinocefali e dei grifoni. Quello che per noi sono i dinosauri per loro erano i ciclopi, i pegasi, le chimere, gli uomini-toro. Un affresco suggestivo che restituisce per intero l’esotismo di un mondo scomparso.